di Federico Di Pietro

ROMA. Non si può parlare e non voglio ballare. La rivolta ormai è un fatto personale Lasciatemi stare. Così canta Andrea Appino, leader degli Zen Circus nel brano Non voglio ballare, dell’album La terza guerra mondiale. Che la rivolta, che la rivoluzione (anche se concettualmente diverse) sia diventata una aspirazione personale, forse post-storica, ormai lo si può dare per assodato. Non bisogna essere boomer per ammettere, in primis a noi stessi, che forse, certe stagioni del passato, sono solo un flebile ricordo. Chi crede nell’eterno ritorno dell’uguale, temo, rimarrà deluso. Non so, esattamente, se è questo il messaggio di fondo dello spettacolo 89, nella cornice post-industrial del Teatro India di Roma (vi consiglio, nel caso vi trovaste nella capitale, di farci un balzo), ma sicuramente la dicotomia disillusione-commozione riveste un ruolo trascendente per tutta la pièce. Partiamo dall’inizio, come sempre. Cos’è 89? Uno spettacolo, teatrale, che parla di rivoluzione. Vengono prese in esame, almeno in apparenza, due rivoluzioni, per certi versi simili, per altri dissomiglianti. La prima, quella francese, 1789. La seconda, 1989. Sì, del 1989, quella particolare rivoluzione che portò le autorità della Germania est a decretare la fine strategica del muro di protezione antifascista.

Tecnicamente però, ciò che Marco Cavalcoli, Elvira Frosini, Daniele Timpano (questi ultimi autori e registi dell’opera) mettono in scena è da considerare come un dialogo. Un dialogo a tre. Un dialogo rivolto al pubblico. Un dialogo che rimane aperto anche dopo l’ultima battuta. Dicevamo dunque, un insieme di dialoghi non ravvicinati, tre voci diverse. Tante parole. Vengono citati gli eroi dell’illuminismo e della Rivoluzione francese. Vengono citati, con uno sforzo mnemonico immane, dialoghi, scritti, frasi, espressioni di autori come Rousseau (non la piattaforma grillina), Diderot, Hugo, Maras, de Sade e tanti, tanti altri. Ciò che unisce tutte queste voci è il tema della rivoluzione. Non è un concerto di inni alla rivolta. È un coro di esaltazione della rivolta. Non è la rivoluzione la protagonista. È la spinta, lo spirito della rivoluzione a dettare i tempi e la scelta dei brani e degli scritti. Ma ciò ovviamente non basta ai nostri tre prodi protagonisti. Non è solo la Rivoluzione francese a essere citata. Lo spettacolo inizia con le luci della sala ancora accese e un silenzio profondo e sussurrante. Poi una voce lo interrompe, chiedendo ripetutamente quando sarebbe iniziato lo spettacolo. L’ennesimo fagocitato in cerca di protagonismo? No, è Marco Cavalcoli che, mischiandosi con il pubblico, inizia lo spettacolo alzandosi dalla platea inneggiando a una fantomatica teleguidata rivoluzione permanente in corso da secoli che, partendo dal protestantesimo, passando da quella francese, attraversando quella comunista si interrompe a, fermandosi al ’68. Il ’68. Fantasia al potere o precipizio della politica? La particolarità di ’89 non è quella di essere uno spettacolo sulla rivoluzione. Ma quella di essere una pièce della rivoluzione. I temi trattati, apparentemente unici e indipendenti, sono finemente collegati da un sostrato storico e politico. Per questo, per questa esatta ragione, è facile collegare lo sceneggiato televisivo del drammaturgo Zardi, I giacobini, andato in onda dal marzo all’aprile del 1962 sul Programma Nazionale e il primo ministro inglese Margareth Thatcher. Perché da un lato non esiste la società, ma esiste solo l’individuo, la serie Tv si dimostrò essere un dispositivo devastante per la creazione di una coscienza sociale condivisa ai più. Non a caso, lo sceneggiato per la prima volta portava la rappresentazione della rivoluzione nelle case degli italiani. Parola del Migliore. Parola di Palmiro Togliatti. Non a caso la serie scomparve dagli archivi Rai dopo una replica nel 1963. Complotto? Chiedetelo a Gladio. In un continuo, impervio, di performances visive e vocali vengono tracciate rotte nella storia che arrivano fino ai nostri giorni. Il pezzo di muro della Bastiglia diventa lo stesso mattone del muro di Berlino, lo stesso calcinaccio delle Torri gemelle, lo stesso sanpietrino della città di Roma. Potremmo continuare dicendo che lo stesso calcinaccio rappresenta la barriera che l’Unione Europea ha intenzione di costruire per proteggere il continente dalla prossima invasione. Non è barbaro indicare il mattone, il muro, il crollo o l’innalzamento come dispositivi e azioni che non solo oltrepassano le epoche, ma che fanno la storia. I ritmi sono serrati, quei tre ci sanno davvero fare. Ciò che invece rende peculiare la pièce è l’addentrarsi nella rivoluzione non solo come atto, ma come concetto stesso. Rivolta di chi, verso cosa, in quale direzione? Oggi contro chi ci rivoltiamo? Chi sono i nemici, i padroni, gli sfruttatori? O siamo, marcusianamente, tutti sfruttati in quanto è la società stessa, e quindi noi, a essere sfruttatrice? 89 richiese sforzo, non passione, ma concentrazione. Crediamo in un futuro rivoluzionario o nella rivoluzione? Passa tutto da questa scelta, se un futuro rivoluzionario o nella rivoluzione. L’una, per forza, esclude l’altra. Del resto, ha senso rivoltarsi oggi? Beh, uno può chiedersi se, in una democrazia de facto come quella in cui viviamo oggi, abbia ancora senso scendere in piazza. E qui, forse, si cela la frase culmine dello spettacolo. Cosa proviamo noi, come cittadini, nei confronti di chi, oggi, scende in piazza a chiedere sacrosanti diritti e tutele? La riposta è l’invidia. Invidia. Invidia di un sentimento che non attraversa più la nostra mente. Invidia nel fatto che il nostro agire politico, della maggioranza, si identifichi in un continuo mantenimento dello status quo. Ciò che noi crediamo rivoluzionario è in realtà riformista. I veri rivoluzionari oggi, scendono ancora in piazza, dobbiamo aiutarli? In questo dissidio, almeno personale, e sotto le vibrazioni di France, dei Laibach, si chiude 89. Se la poesia è inconsumabile, e lo dice Pasolini, anche il teatro allora dovrebbe esserlo. Cioè che è inconsumabile non è, come nella poesia, il suo essere di significato, ma, nel caso teatrale, lo è il suo essere vettore di significato. Non consumi una pièce teatrale. Come nel caso della poesia, assimili e basta. Passivamente. Ciò che si consuma siamo noi, e, del resto, anche su questo Ugo Foscolo avrebbe da discorrere a lungo. Come già scritto, 89 è lo spettacolo della rivoluzione, uno spettacolo che tutti dovremmo vedere per capire cosa siamo, se rivoluzionari, se spettatori o se semplici invasati paladini di una giustizia manichea che riconoscono come giusto solo il loro percorso. Quest’ultima non è rivoluzione. Ma, semplicemente, un gioco gattopardiano in cui il dispositivo autoritario viene spostato da un vertice ad un altro. Tutto quello che è alto, è oggetto di terrore sacro; ebbene, forse mai come oggi la rivoluzione viene vista come alta sia da chi la aborra, sia da chi la agogna. La vera rivoluzione dobbiamo cominciare a farla dentro di noi (Cit).

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