FIRENZE. Ci aveva già provato Antonio Latella, riuscendoci perfettamente, a catapultare Eduardo De Filippo altrove. Lo aveva fatto decontestualizzando Natale in casa Cupiello e affidando e confidando nello sforzo titanico di un’esile, ma indistruttibile, Monica Piseddu la forza, meravigliosa, della tenerezza di quella poesia che ha dato addirittura nuovo lustro a una festività che è già di per sé leggendaria. A molti, quell’operazione, apparve sacrilega. A molti, non certo ad Anna Ammirati, che con ancor maggior superbia, se volete, ha trasformato la poesia di Eduardo De Filippo in una ballata dub. Napsound, questo il titolo del suo recital avanguardistico partenopeo, prodotto da Fondazione Teatro della Toscana e accompagnata sul palco del Saloncino Paolo Poli della Pergola, a Firenze, da Rocco Siliotto, attento consollista e abile agitatore del theremin, secolare strumento elettronico che lavora su oscillatori in isofrequenza: è uno strumento che si suona con il pensiero e con la sola presenza, in campo d’onda, delle mani del musicista. L’apocrifa provocazione non si ferma qui. Perché oltre a rinunciare al mandolino e alla melodia, la regista di Castellammare di Stabia ha chiesto ad Alessandro Papa di lavorare su videoinstallazioni e le poesie, improvvisamente, diventano novelle, storie, che si intersecano e si inanellano con incredibile naturale sequenza.
De Filippo non si può tradurre, italianizzare; se si decide di leggerlo, addirittura recitarlo, occorre, necessariamente, lasciare alla magia del suono dello slang napoletano tutto il suo sapore. A Firenze, però, non è del tutto scontato che il pubblico, seppur appassionato, preparato e decisamente instradato dal titolo, sappia, simultaneamente, cogliere il significato del testo, anche se le poesie violentate e scaraventate sul palco dalla Ammirati non sono tesori nascosti o sillabari rinvenuti di recente; appartengono a quella tradizione che si è già trasformata in immaginario collettivo, in perfetta simbiosi tra mittente e destinatario, tanto da non aver bisogno di null’altro quando ci si imbatte nelle loro letture. Però, pur mantenendo intatto il candore della teatralità della voce di Napoli, in Teatro, se le parole hanno un senso specifico nella costruzione del testo e nella volontà del regista, bisogna farsi intendere. E il requisito migliore dell’attrice Anna Ammirati è proprio quello di rendere al testo tutta l’energia fisica, mimica e gestuale senza però trascendere, senza dare per scontato che quello che starà per dire, chi ascolta e guarda, lo sa già. Sullo sfondo visivo scorrono le immagini vesuviane, la spensierata adolescenza, i colori scarlatti, ritmati da suoni, vibrazioni, motivi che non possono e non vogliono diventare melodie, tanto che Anna Ammirati abbozza gestualità improvvide, che non sono danze, né balli, provando a entrare e uscire dai personaggi che dialogano nelle prose, modulando il diaframma, da popolana a giudice in terra, del bene e del male. Prima scalza, poi con mocassini con il tacco: claudicante, curva, dei bassi, con una cadenza che la proietta al confine con la provincia di Salerno, Nocera e zone limitrofe, per poi tornare disinvoltamente austera, insensibile, caustica. Un’altalena con oscillazioni regolari, come se non si capisse chi e da quale parte sospinga il seggiolino per continuare a farla ondeggiare. Sono i mille volti di Napoli, che si specchiano e riconoscono in ogni sua espressione; da De Filippo a Mario Merola, da Totò a Maradona, da De Crescenzo a Saviano, da Mergellina ai Quartieri Spagnoli. Come cantava Pino Daniele: Napul’è