di Letizia Lupino
PISTOIA. Mai come stasera sembra così calzante cadere in mille pezzi, giusto per avere poi la possibilità di ricostruirsi in un loop infinito, in ere infinite, in luoghi continui e senza tempo. La tela bianca del Funaro fa da sottofondo perfetto a un nuovo incontro di danza di questo acerbo 2023 che avanza. È un mosaico che, tassello dopo tassello, si mostra, ma che forse non si completa mai, lasciandoci la suggestione di una domanda aperta. Un iniziale assolo scomposto che catalizza tutta la nostra attenzione: Lukasz Przytarski si muove ora lento e morbido ora nervoso e spasmodico per tutto lo spazio che il palco può concedergli perché non rimarrà solo troppo a lungo; Damiano Ottavio Bigi lo cerca con gli occhi e con il corpo. Sorprende, poi, quando si trovano, perché si ha la sensazione che se da una parte una forza calamitante li sospinga l’uno verso l’altro, un’altrettanta opposta li allontani, come due biglie che scontrandosi con rapace velocità non facciano in tempo a toccarsi che già si ritrovano in direzione ostinata e contraria. Ed è appunto ostinata e contraria la storia che racconteranno. Un disaccordo musicale che cadenza i loro passi e i loro movimenti. È la mancanza del proprio spazio intimo, la volontà di stabilire la dipendenza da sé stessi per poi, inevitabilmente, capitolare nella ricerca dell’altro, del contatto, della solitudine condivisa.
Quello che la produzione di questo spettacolo-danza ha creato è un’atmosfera multiforme che cambia continuamente senza attacchi di cuore, crea immagini che possiamo percepire con tutti i recettori corporei: da un panorama post apocalittico con la nebbia che scende, le luci che ronzano come una tavola calda di second’ordine di un classico film americano con i due eroi che si cercano, lottano, si guardano attorno e ci guardano come a dirci siamo soli e soli rimarremo, a fuochi d’artificio di guizzanti muscoli con una domanda che rimane sospesa nell’aria ma che Lukasz e Damiano sanno morbidamente intercettare siamo due, sì, ma è come se fossimo uno e allora i movimenti si uniscono, perfettamente sincronizzati: l’uno il doppio dell’altro. E nel seguire le loro evoluzioni temporali, la musica sembra svanire dalle orecchie, mera illusione e sinuosa maestria dei corpi. Dopo circa quaranta minuti di scomposizioni e ricomposizioni, sembra quasi che si voglia tornare all’inizio, laddove tutto è cominciato, ma i corpi ansimanti e le magliette madide narrano qualcosa di oltre rispetto al mondo che ci hanno danzato, non senza un sentore di fisici non-sense, di movimenti solo per il gusto di farli, di poderosi tilt vitali. Come quando ti sorprendi allo specchio a farti le linguacce, a storcere la bocca cercando con la fantasia di toccarti un orecchio oppure ad allargare le narici più che si può per vedere che effetto ci si fa in quel fulmineo spasmo di oltre il già visto: un raptus che per un desiderato momento ti fa uscire fuori dai cardini dove equilibrio e simmetria del tempo si frantumano in mille pezzi.