PORRETTA (BO). La vendetta climatica, che in questi giorni ha spazzato via il nord Italia, ha naturalmente risparmiato la provincia più meridionale di Bologna, perché si sa, a Porretta, durante il Festival Soul, c’è un accordo, non scritto, né tacito, ma pattuito con sangue demoniaco, che sul Parco Rufus Thomas e nel raggio di qualche centinaio di metri a nord, sud, est ed ovest, non piova. E così è stato anche in questa 35esima edizione, contraddistinta dalla medesima sempiterna allegria delle precedenti trentaquattro. Il merito, Graziano Uliani, direttore artistico, ideatore, inventore della longeva rassegna musicale, sa bene che occorre che lo divida, oltre che con il suo paziente e professionale staff, anche con le Autorità politiche, le forze dell’ordine e chiunque dia il proprio contributo alla pacifica realizzazione della manifestazione. Ma il contributo più consistente, a Porretta Soul Festival, lo offrono proprio gli indigeni, con quel modo garbato, accogliente, persuasivo di trattare ogni spettatore pagante come il cliente più prezioso. E lo fanno, tutti, nei bar come nei ristoranti, in strada e negli stabili esercizi commerciali, compresi gli ambulanti con la loro mercanzia da viaggio, rendendo la festa della musica una festa d’umanità. Prima e dopo le esibizioni artistiche infatti, ogni volta, facciamo volentieri una passeggiata, lungo la strada statale 66, chiedendo, comprando, interagendo con quel particolarissimo genere umano che è, e Darwin approverebbe, il popolo bolognese; e la risposta è sempre la stessa, offerta con quell’immarciscibile sorriso, che hanno stampato, non per ingraziarsi gli acquirenti, ma per chimica, sulle labbra. A cena, in questi giorni, siamo sempre andati, come sempre, del resto, al ristorante La Veranda (non è pubblicità indotta, ma è un modo per come sdebitarsi di tanta puntuale affabile cortesia, dai proprietari ai camerieri), nella piazza principale della cittadina, sull’estremità occidentale del ponte che collega il centro storico con la stazione ferroviaria. Lì, come in ogni altro angolo commerciale della città, il Soul la fa da padrone. La colonna sonora è la musica che gli artisti, contemporaneamente a noi turisti commestibili, suonano al Parco e nel centro della sala interna, su un maxi schermo visibile anche dai tavolini posti all’esterno, anche le immagini di quello che contemporaneamente succede al Rufus Thoms, in una diretta garantita da un canale streaming. La fidelizzazione del pubblico della rassegna emiliana passa anche da questi piccoli, enormi, dettagli, che sono quelli che hanno garantito, all’evento, uno zoccolo consistente di spettatori che verranno ai Festival Soul che si susseguiranno a prescindere. Si, perché non tutte le ciambelle riescono con il buco e Graziano Uliani, questo, lo sa benissimo. Ci sono stati, in questi trentacinque anni, Festival meravigliosi e Festival decisamente meno, ma per tutti e su tutti ha sempre, inderogabilmente, campeggiato quella voglia, incontaminata, quasi adolescenziale, di stare insieme, di sentirsi parte integrante di un progetto artistico che senza gli spettatori, così numerosi, caldi, ordinati e felici, avrebbe decisamente molta meno ragion d’essere. Lo sanno bene anche i musici e i cantori, che solo in quel contesto porrettano, probabilmente, riescono a vivere e metabolizzare la loro vena artistica con sconcertante semplicità e questo, al pubblico, piace molto. I conti, che da stamani terranno impegnati gli organizzatori, diranno che Festival Soul sia stato, per le casse, questo appena terminato. Ma non sarà certo il responso economico contestuale del 2023 a conferire al Festival la sua giustezza.  

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