di Adriana Casalegno
FIRENZE. La Vittoria ė il personaggio principale della storia che la nipote, Cristiana Capotondi, racconta in video/chiamata alla propria figlia (Penelope Brizzi) di sei anni per farla addormentare. Una Firenze mista e variegata affolla il bellissimo e lucente Teatro della Pergola pronta ad ascoltare una pagina dolorosa della seconda guerra mondiale, attraverso la vita di una donna, esattamente ottanta anni dopo. La scena ė composta da tre pareti bianche su cui si rifletteranno immagini e disegni di Andrea Calisi e Marco Palmieri come pagine che si sfogliano raccontando una fiaba. Su un cubo, sempre bianco, sono appoggiate scarpe rosse. Al centro arriva l'attrice, snella figura vestita di bianco, un elastico rosso tra i capelli. Con una pluralità di voci, movimenti misurati, chiari ed efficaci, ci condurrà a seguire la Vittoria fino al drammatico 25 settembre del 1943. Quel giorno, uno stormo di trentasei aerei degli alleati inglesi, mancò l'obiettivo: la stazione di Campo di Marte, utile ai nazisti tedeschi per fare arrivare i viveri ai soldati. Lo snodo ferroviario rimase indenne. Sotto grappoli di bombe cadute nei luoghi sbagliati, centinaia di civili persero la vita, numerosi furono i feriti, tante le case e gli edifici distrutti. Paura e terrore si riversarono nelle strade di Firenze, paura e terrore invasero gli animi dei fiorentini. Il monologo, scritto da Marco Bonini, porge in modo leggero quegli avvenimenti, senza che la drammaticità venga persa. Questo accade perché la Vittoria è una donna distratta e, fino a quel 25 settembre, ha vissuto la guerra in un lontano sottofondo senza cambiare i suoi modi da signora; accade perché c'è la trasfigurazione in un linguaggio per bambini e accade perché il testo ricorda il novellare toscano, quel parlare fresco, originale, gentile, cadenzato da definizioni ripetute, ritmato dalle voci diverse dei personaggi. Attraverso il notevole lavoro espressivo di Cristiana Capotondi godiamo il toscano della bella e altolocata Vittoria, del marito Lorenzo, sovrintendente alle Belle Arti che, tutti i giorni, con la sua jeep, si reca a nascondere opere nella galleria di San Donato. Ascoltiamo il toscano ancora più diretto del cuoco e del portiere. Ci abituiamo a quelle cadenze finché l'attrice ci sorprende di nuovo quando adopera i suoni veneti interpretando la balia Armida venuta da Belluno. Sembra che, in quel tempo, tante fossero le balie di Belluno. Nel rifugio di Palazzo Pitti, quel 25 settembre, ritroviamo tutti i personaggi. Con loro ci sono anche i gemelli neonati di Armida. Urlano, hanno fame. Armida ha perso il latte, scioccata dalla paura. Ci sono anche i tre figli più grandi di Vittoria che erano stati allattati proprio dalla balia Armida e la quarta figlia che lei, Vittoria, signora e padrona, diversamente da come ha fatto con gli altri figli, sta allattando. Ed è qui che cadono i ruoli, le certezze interne ed esterne, le divisioni di classe. Qui, nel rifugio improvvisato, la Vittoria diventa compagna di lotta, compagna di latte. Lei, padrona, avvicina ai seni i piccoli della sua balia, della sua serva. Sotto le bombe, lei, Vittoria, ė la balia dei vinti. Tanti e ripetuti gli applausi.