PISTOIA. La vista e il colore verdeazzurro del lago di Barcis è il segnale, abbandonata l’autostrada a Vittorio Veneto, che da lì a poco ci si inerpicherà per andare sulle Dolomiti. Dopo Ponte nelle Alpi e prima di Calalzo, però, se non si vira verso est in direzione Friuli, ma si resta sul versante parallelo che si piega a ovest e ci si dirige verso la provincia dolomitica di Belluno, c’è ancora il tempo, in pianura, di fermarsi a guardare la diga: monumentale, fiera, protettiva; un molosso di forza, lavoro, ricchezza. Così almeno sembrava, o doveva sembrare alla popolazione di Longarone. Non a tutti, però. Già allora, più di sessant’anni fa, quando iniziarono i lavori di costruzione, qualcuno, in paese, storse il naso e preferì andarsene altrove. Quelli che restarono, li accusarono di non saper guardare avanti, di non saper coniugare il presente con il futuro, di non sapere distinguere la paura oggettiva e obbiettiva dall'ossessione di supportabili rischi idrogeologici. La mattina del 10 ottobre 1963, i pochissimi sopravvissuti capirono. Ma fu tardi. A quei 1917 cadaveri il Teatro italiano, centotrentacinque teatri italiani, per essere precisi, ieri, sessantesimo anniversario della mattanza premeditata del Vajont, ha dedicato una serata di rappresentazioni. Ci starebbe bene, dopo i virtuali due punti: per ricordare e per non dimenticare. Ma visto quello che è successo dopo, ultimo, ma solo in ordine di tempo, il Ponte Morandi a Genova, soprassediamo sulle conclusioni che trasudano emotività e speranza e vi raccontiamo la bellezza di un testo scritto, a quattro mani, da Marco Paolini e Marco Martinelli, che Annibale Pavone ha adattato per la cura e l’interpretazione di sette allievi del Teatro Laboratorio della Toscana di Federico Tiezzi e che ieri sera, al Piccolo Teatro Bolognini di Pistoia, è iniziato alle 21,30 per andare in scena contemporaneamente alle altre centotrentaquattro rappresentazioni sparse in Italia e per terminare intorno alle 22,39, l’attimo nel quale duecentosettanta milioni metri cubi di roccia e terra si staccarono dal monte Toc e precipitarono nel bacino artificiale alpino della diga del Vajont. Nello stesso istante, a Madrid, al Santiago Bernabeu, la corazzata calcistica del Real infliggeva, nella gara di ritorno di Coppa dei Campioni, un umiliante 6-0 agli avversari scozzesi del Celtic. Molti uomini, quella sera, erano ammassati attorno ai pochi televisori presenti e accesi sulla partita trasmessa in diretta dalla Rai e in soli due minuti passarono dalle lodi sperticate per Puskas e Di Stefano al finimondo che si abbatté sul loro paesino. Certo, il Teatro ha bisogno di poesia, finzione, immaginazione, ma in questa specifica circostanza era giusto attenersi alle direttive storiche e fissare un punto comune di dolore vero e inutile indignazione. Prima che in teatro, la carneficina di Longarone è stata rappresentata sul grande schermo (Vajont, la diga del disonore), grazie a Renzo Martinelli, che due anni dopo, nel 2003, ha diretto un’atra pellicola di spropositato spessore politico, stavolta su un’altra mattanza premeditata perché straordinariamente deviata, quella di Aldo Moro e delle Democrazia di questo paese, Piazza delle Cinque Lune. Restiamo al Bolognini e lo facciamo, con estremo piacere, in compagnia di Annibale Pavone e dei giovani Salvatore Alfano, Pasquale Aprile, Sem Bonaventre, Monica Buzoianu, Sebastiano Caruso, Valentina Correo e Antonio Perretta, che interpretano con il dovuto e professionale trasporto i personaggi più in vista di quell’immane ecatombe: dai responsabili ingegneristici, finanziari e politici, altamente impuniti, ai loro più grandi oppositori, indigeni e giornalisti agguerriti, che non riuscirono a fermare quella macchina infernale di omissioni e a evitare quella tragedia annunciata, che superò, luttuosamente, ogni (ir)ragionevole profitto.