di Letizia Lupino

PISTOIA. È il nostro turno, quello delle 21. L’ultimo. Diciotto persone sparse per il cortile del Funaro che a un segno convenuto convergeranno di fronte al corridoio che farà da ingresso a ciò che per cinquanta minuti si rifletterà, senza troppe resistenze, dentro di noi. Stasera vi facciamo un regalo: l’opportunità di poter spegnere i telefoni cellulari per potervi immergere in quello che tra poco sarà. Singolare invito alla più classica e quasi banale raccomandazione di buon senso. Silenzio, non un brusio vibra nell’aria. Sembra quasi che le nostre coscienze sappiano già prima di noi. La tenda si scosta quel tanto che basta per farci muovere i primi passi nel buio basso e digerente. Una piccola luce in fondo al tunnel ci rischiara le pupille e ci fa rimettere di nuovo a fuoco: la morbidezza delle pareti, un soffitto di velluto che si potrebbe toccare se solo si avvicinasse una mano, un tavolinetto basso, un album di fotografie e immagini sparse a terra: l’incuria abbandonata di una umana quotidianità che va di fretta. E così comincia un percorso fisico ed emozionale dentro un’intimità singolarmente condivisa, fatta di stanze che odorano di spezie esotiche, immagini forse reali, ritratti, traboccanti tazze di tè, fili intrecciati a panchine semoventi e vasche di acqua che cullano gli occhi e le orecchie. Artifici evocativi che sondano, e prima ancora lo chiamano, il caos che inevitabilmente scompaginerà quell’umana quotidianità che ha imparato ad andare di fretta e che dovrà fare i conti con un imprevedibile nodo che serrerà la gola. Esattamente di questo si tratta, di un Nodo in gola che stringe per poi piano lasciar sciogliere sensorialmente quel maledetto qualcosa che blocca fisicamente. Gabriella Salvaterra insieme a Giovanna Pezzullo, Arianna Marano e Davide Sorlini tenteranno di ordinare la confusione e lo smarrimento che come una grandinata improvvisa fa sobbalzare guidandoci con le mani, con le parole e con i sensi nella grande roulette dei sentimenti. E lo fanno con poetica cedevolezza, con delicati scambi vocali e intime profondità. È una tenera coperta che si adagia su di noi come a volerci, in qualche modo, proteggere da quelle cose che non sono come sono, ma sono come siamo. La stilettata della consapevolezza di sé, che quando arriva o meglio poco prima che arrivi è dolore e lacrime, è lo stomaco che si contorce, è l’imprecazione di un perché. Poi, e solo poi, la meta, il Touchdown finale e agognato e il sorriso di chi sa di aver passato la tempesta. Ed è forse proprio la tempesta che è mancata, quel nodo che per quanto stringa e graffi ti fa sentire vivo e pulsante.

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