PISTOIA. Dal Teatro, anche quello meno sontuoso e affidato ad aspiranti e futuribili, è lecito, anzi, doveroso, bisognerebbe forse sottolineare, aspettarsi altro. Però, lui, Federico Buffa, che nel Teatro è stato catapultato dall’effetto elastico del piccolo schermo e che temiamo sia soltanto all’inizio, è, onestamente e oggettivamente, una macchina, perfetta, di nozioni, precisione, passione, storie e leggende, romanticismo e illuminismo, verismo e decadentismo, fascino allo stato puro, anche con le più alte dovute e doverose possibili detrazioni. Aggiungiamoci pure, perché anche questo ha la sua rilevanza nella totalità del giudizio empirico ed epidermico, che Federico Buffa è uno straordinario sessantacinquenne (succederà il 28 luglio; ci siamo via), che può indossare, con esemplare naturalezza, un completo sobriamente grigio scuro, con gilè grigio chiaro, in qualsiasi circostanza, compresa quella di ieri sera, al Teatro Manzoni, dove ha portato in scena, al cospetto di una platea quasi unicamente maschile (effetto stranissimo, credeteci) e quasi tutti sopra i centoottanta centimetri, La Milonga del Futbol. Sono tutti molto alti gli spettatori di questa avvolgente narrazione, perché Federico Buffa è stato catapultato, con dovuta ragionevolezza, nell’olimpo dei cronisti cantastorie di tutti i tempi grazie alle sue decennali esperienze cestistiche. Ma il racconto, questo racconto, prodotto da International Music and Arts, con la regia di Pierluigi Iorio, puntellato da premesse storiche tardo medievali, da flussi demografici di storici espatri, che hanno sancito nel tempo quanto siano italiani gli argentini, aneddoti e raccordi di rara puntualità e verità, parla di tre grandi piedi sinistri, tre mancini, argentini appunto, che hanno fatto la storia, anzi, la leggenda, del calcio di tutto il Mondo: Renato Cesarini, Omar Sivori e Diego Armando Maradona. Il racconto, con quel titolo, non poteva certo esentarsi da un doveroso supporto musicale. E Alessandro Nidi e Mascia Foschi, rispettivamente direttore musicale seduto al piano e cantrice robusta e passionaria, hanno fatto, esemplarmente, quello che il copione chiedeva loro. Sul grande schermo che campeggia lo spazio scenico molti spettatori hanno immaginato e perché no, forse, sognato, che venissero proiettate alcune immagini delle giocolerie di quei tre fuoriclasse. Nulla. A parte qualche foto da antologia di libri di scuola media primaria e qualche scatto rubato chissàddove e a chissàcchi, lo spettacolo è stato un fedele, fascinosissimo e struggente ripercorrere la storia di quei tre calciatori, delle loro origini e delle loro uniche e irripetibili esistenze, esemplari oltre ogni ragionevole contestualizzazione, in costante attrito con le leggi, non scritte, del calcio e delle sue regole che proprio quei tre hanno, durante le loro carriere, vanificato, irriso, demolito, tre percorsi alternativi al successo cosmico che hanno significato poi, e soprattutto, le rispettive beatificazioni. Gli spettatori, o almeno la stragrande maggioranza di loro, delle vicende di Cesarini e della sua zona letale, di Sivori e di quel lento, inesorabile sinistro infernale e di Maradona e della sua mano di dio, sapevano già tutto; perché si erano documentati o perché, proprio in qualità di seguaci di Federico Buffa, ne avevano già sentito parlare in uno dei suoi teletrasmessi e seguitissimi racconti. Quelle tre divinità argentine, legate a doppio filo con l’Italia, hanno indotto il crooner milanese a tracciare un segmento fondamentale per la lettura del calcio: la creolizzazione del futbol. Perché se è innegabilmente vero che gli inglesi abbiano inventato il calcio, una delle sue predilette/maledette colonie oltre oceano, l’Argentina, al calcio ha dato i connotati dell’imprevedibilità, della fantasia, dell’amore.

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