PISTOIA. Il rischio che il teatro (con la ti minuscola, ovviamente) diventi preda di chiunque abbia un piccolo grande afflato interattivo, dotato di un buon diaframma e si possa permettere il lusso di raccontare nulla, spacciandolo addirittura per geniale, facendolo, naturalmente, con sapienza ed eleganza e rinunciando rigorosamente a regia, scenografia e del pathos di cui il palcoscenico non può fare a meno, inizia a prendere pericolosamente corpo e siamo terrorizzati all’idea che presto, con la velocità con la quale si assiste ormai a grandi trasformazioni, sui palcoscenici dei teatri che verranno ci siano sempre meno attori e più affabulatori. Che cosa vorremmo insinuare, che Marco Cavalcoli non sia un attore? Giammai. Per il 54enne artista bolognese parlano le cronache: premi Ubu, riconoscimenti piovuti a dismisura, tournée in tutto il Mondo: cos’altro deve dimostrare? Nulla, ci mancherebbe altro, ma in assenza di idee, ci si può anche fermare un attimo, riflettere e aspettare che la genialità, spesso stimolata da imprevedibili accadimenti che non sono ascrivibili all’arte, ma alla cronaca e alla quotidianità, sia nuovamente sollecitata e partorisca qualcosa che abbia senso mandare in scena. Lo scriviamo all’indomani di Santa Rita and the spiders from mars, in scena al Funaro di Pistoia, al cospetto di una platea intiepidita solo e soltanto dalla meravigliosa capacità oratoria, sintattica ed enigmistica, di Marco Cavalcoli, che nell’occasione ha voluto mettere, a immaginifico dialogo, David Bowie e Paolo Poli, che per noi, in comune, hanno solo l’anno della scomparsa: il 2016. Per il resto, al di là dei quattro lustri che si passano dalla nascita, la pacifica e coraggiosissima irriverenza del fiorentino mal si concilia con il biblico rivoluzionarismo del londinese. Ma non vogliamo continuare sulla linea dei distinguo intellettuali, epocali, storici e personali tra i due artisti chiamati in causa; correremmo seriamente il rischio di voler obiettare sull’improponibilità di un connubio che non farebbe altro che aumentare la peccaminosa benevolenza che si finirebbe per tributare alla rappresentazione. La cosa che ci preme invece sottoscrivere è che uno spettacolo del genere non è uno spettacolo, ma soprattutto non è uno spettacolo teatrale. Che ha bisogno di una serie di dettagli, tutti indispensabili alla causa, dei quali Marco Cavalcoli ha bellamente deciso di fare a meno. E non possono bastare, in alternativa, un interminabile scioglilingua alfabetico di aggettivi, un’altalena fonetica anglo/fiorentina e neanche un’impressionante predisposizione al canto a cappella. Per assistere a Santa Rita and spiders from mars non si dovrebbe andare in alcun teatro e non si dovrebbe pagare alcun biglietto; Marco Cavalcoli potrebbe girare per le strade del centro di Firenze e raccontare, come fanno gli artisti di strada che si rispettino, le sue visioni. Potrebbe anche mettere, davanti a sé, un cappello rovesciato nel quale i passanti potrebbero lasciare qualche moneta e, soprattutto, scrutando il viavai di umanità, lasciarsi folgorare da una storia attorno alla quale costruire un racconto da portare a teatro. Anzi, a Teatro, uno di quelli che lui conosce perfettamente.