FIRENZE. Entrare nei panni e nella vita degli altri è l’abitudine, per chi calca i palcoscenici. Certo, in quelli di Maria, la mamma di Gesù, non è proprio prassi consolidata attoriale; di quel poco che sappiamo, infatti, nonostante si sia così poco ferrati su sacre scritture, bibbia, vangelo e tutto quello che gravita attorno alla religione cattolica (delle altre ne sappiamo ancor meno; sempre di oppio si parla), lei è mamma anomale, perché si sa, lei concepì senza peccare. La tentazione, a tal proposito, sarebbe quella di scomodare la secolare diatriba femminile, prima che femminista, che recita che molte donne chiesero, in grazia, di peccare senza concepire. Ma In nome della Madre, nonostante sia un testo scritto da uno degli atei più illuminati e religiosi del nostro tempo (Erri De Luca), non è un manifesto abortista, ma il punto di vista, tenuto all’oscuro, della grande protagonista della vita: Maria. Perché della Sacra Famiglia, credenti o disfattisti, si sa quasi tutto del padre e del figlio, ma poco, troppo poco, sulla madre. E allora, l’alpinista napoletano, che ha scritto libri di rara bellezza (li abbiamo letti tutti: meravigliosi), nel 2006 si è messo all’anima di mettersi dalla parte della mamma delle mamme, inconsapevole, e ha pubblicato un libricino di infinita tenerezza, coraggio, sensibilità e pudore, gli stessi che Danilo Nigrelli, il regista, ha usato quando ha chiesto a Patrizia Punzo (la delicata mattatrice) di provare a immaginare cosa abbia voluto dire, per quella giovane galilea, accettare una gravidanza annunciata, ma non consumata, prima ancora di essere moglie di Giuseppe. Erano tempi, quelli, di imperdonabile disonore, che si poteva lavare solo con la lapidazione, la morte. Maria sfida la legge; non fingerà di essere stata abusata, né scapperà altrove, ma rivendicherà quella casta maternità come un dono. La rappresentazione teatrale, in scena al Cantiere Florida di Firenze, prodotta da Elsinor, Centro di Produzione Teatrale, è una fedele fotocopia del testo di De Luca, tradotta in teatro da due sedie, un velo bianco e una mangiatoia e una signora, Patrizia Punzo, di mezza età, che nonostante bazzichi scene e location cinematografiche da trent’anni, continua ad avere quella faccia e quella sagoma da professoressa liceale, più di matematica, che di lettere o storia e filosofia. Ma occorreva tutto il suo rigore, tutta la sua precisione, tutto il suo candore, tutta la sua naturale potenza, così lontano da ogni preordinazione scenografica, per riuscire a rendere, con la stessa nitida efficacia, la bellezza e la semplicità del testo scritto. Un paio di jeans, una camicetta scura e un paio di scarpe, tolte e cambiate con un paio di sandali che aspettavano di essere calzati per affrontare quel lungo viaggio fino a Betlemme. Un’interpretazione magistrale, una potenza devastante, ricca di tanti minuscoli, semplici e impercettibili accadimenti, con un uso della voce e del corpo elementari, ma sontuosi, anche a costo di dover obbligare la platea a prestare religiosa attenzione anche solo ai sospiri, visto che la docente romana ha voluto fare a meno anche della farfalla, confidando solo e soltanto nel proprio diaframma, accompagnato dal lento ticchettio dello sgocciolare della pioggia, mista a nevischio, che sabato sera è stata la naturale colonna sonora di tutta la rappresentazione, scandendo e, rendendolo ancor più magico, quell’incredibile passaggio dalla Galilea, attraverso il mare e fino a quella capanna, dove da sola, con il calore di una mucca e dell'asino che l'ha condotta fin lì, dovrà affrontare il parto, chiedendo agli stessi che l'hanno annunciata, di salvare suo figlio dall'immane violenza che invece dovrà sopportare. Una maternità voluta a tutti i costi, da una madre in attesa senza essere stata violata e un padre che, accecato, ma illuminato, dall’amore verso quella giovane donna, affronta ogni peripezia. Un messaggio totale d’amore, verso gli uomini e le donne con le quali sottoscriviamo un progetto e verso il figlio, i figli, che appartengono, almeno fino a quando l’alba non rischiarerà le tenebre, solo e soltanto alle madri e che i padri, dal primo vagito in poi, anche se i piccoli dovessero essere muti, dovranno conquistare con il coraggio, la tenerezza, la forza, la presenza e l’abnegazione.
PISTOIA. Sì, certo, Le fleur du mal, di Charles Baudelaire è pregnante, scatenante, giustificante. Lo si capisce dall’omonimo titolo, Le Fleur, anche se con il genitivo sottinteso, ma nel caos totale del giorno dopo, nella rivolta dei diseredati, dei reietti, degli ultimi, degl’invisibili, dei sans papier, tanto, tutto, siamo onesti, ce lo mettono loro, quelli del Balletto Civile, che trasformano una sequenza innumerevole e indefinita di dettagli fisici, vocali, scenografici, in una grande abbuffata, in uno zoo di Berlino resuscitato, in un’Odissea nello spazio che va ben oltre il primo anno del terzo millennio. Si capisce poco, all’inizio, quando una zombie craccata dal Fentanyl si aggira sul perimetro del palco alla ricerca, se non di un equilibrio, almeno della sua identità; si recita in francese e guardandoli bene, tutti i personaggi, si ha la netta impressione che la lingua non sia un pretesto teatrale, ma il loro slang abituale. Sbagliato; Michela Lucenti, regista e coreografa, Maurizio Camilli, Francesco Gabrielli, Alessandro Pallecchi, Gianluca Pezzino, Emanuela Serra e Francesco Zaccaria sono terribilmente bohemien, per usare un eufemismo che a teatro ci sta sempre bene – in realtà sono abbigliati da circensi caduti in disgrazia -, ma i loro nomi e cognomi tradiscono anagrafiche nostrane. L’Ert e il Teatro Nazionale non hanno avuto dubbi a produrre questa strip del gruppo T.N.T. e il Funaro di Pistoia ha visto bene di assoldarli alla causa della stagione 2024-25 dell’Atp, concedendo loro l’onore della prima regionale. Si, vabbè, ma di cosa parla la rappresentazione non ve l’abbiamo ancora scritto. Beh, liberatevi dalla curiosità, perché non lo scriveremo; no, no, non crediate che sia un incentivo affinché voi andiate a vederli: non c’è assolutamente nulla da dire, dunque da scrivere. Sono quadri in movimento, rigetti spiati, sconclusionate soluzioni. Alla destra del palco, fuori dalla luce del bordello che regna sovrano, una lavagna, una di quelle che si vedono (vedevano) nelle scuole prima della digitalizzazione. E uno alla volta, i personaggi, ci scrivono, un po’ in stampatello, un po’ in corsivo (dipende dalle dimensioni approcciate con la prima lettera) con il gesso bianco, i temi che dovrebbero venir trattati subito dopo, fino al successivo, anticipato da varie pennellate di cancellino (cimosa: come si chiama nelle vostre case la spugnetta con la quale alle elementari, medie e superiori avete ripulito la lavagna?): il poeta, la bellezza, il tempo, la noia, la rivolta, la ferita, la città e, dulcis in fundo, la poesia. Tutto questo mentre in scena si organizza il preludio della fine e si ipotizza quello che resterà un attimo dopo, quelli che riusciranno a resistere e come sarà l’universo all’alba del primo giorno. No, non c’è alcuna certezza che le cose potrebbero andare come il Balletto Civile ha ipotizzato, desiderandolo ardentemente, forse; la quarta guerra mondiale, quella che scoppierà subito dopo la terza, questa, che è alle porte a due passi dalla casa di ognuno, e che vedrà gli uomini contendersi il dominio con le fionde, potrebbe vedere in ogni trincea un genere umano ben lontano dalle ipotesi estremamente vacue e libertine formulate da Michela Lucenti. Ma la decadenza assoluta potrebbe anche decidere di abbonarsi a una via di fuga che fino a un attimo prima tutti credevano fosse la maledizione; sì, potrebbe andare esattamente in quel modo e vista la sovversione degli ordini fino ad allora costituiti, la società potrebbe ridisegnarsi e fondarsi su nuovi princìpi e prìncipi. Siamo spettatori non paganti (proprio come ci succede, da privilegiati ingiustificati, a teatro) di questi scenari, ai quali abbiamo deciso di non parteggiare per alcuna fazione. Non a caso, il sottotitolo della rappresentazione, recita atto performativo per corpi reali; della serie: sarà il caso che ognuno decida quali vestiti portarsi al di là del fiume e con quale gente decidere di trascorrere il resto del tempo che verrà concesso a ognuno di noi. Quel poco che si capisce all’esordio viene letteralmente inghiottito dal nulla che si capisce di aver capito alla fine, con la compensazione, affatto magra, di aver assistito a uno dei possibili giudizi universali allietati dalla lirica, dalla techno, da voci scordate e scoordinate, da corpi putrefatti e ristrutturati a nuovo, da amori impossibili e improbabili, dalla consolazione, rabbiosa e rancorosa, che la poesia aveva già tutto previsto.
PRATO. Complicato, rigoroso, terribile, cinico. Se volete godervi fino in fondo L’anitra selvatica, che la regista Paola Rota, portando in scena il testo di Alessandro Paschitto, ha scritto sotto acido di Henrik Ibsen - che è già un acido di suo -, in replica, al Metastasio di Prato stasera, alle 19,30 e domani, domenica 1° dicembre, nel pomeriggio, grazie alla Produzione di TPE e del Metastasio, scordatevi che fuori le città agognino il Natale e tutti i suoi buoni propositi, con tutti i suoi innumerevoli vantaggi per ogni tipo di acquisto e calatevi, se ne avete forza e voglia, in una qualsiasi realtà condominiale, urbana, socialmente indistinguibile, una di quelle che appartiene, senza arte, né parte, a quella media borghesia inesorabilmente destinata a eclissarsi, approfittando, perché no, dei rigori climatici e del grigiore stagionale. Che padre è, Edoardo Ribatto e che rapporto ha con sua figlia, Sara Mafodda e su quale lunghezza d’onda, entrambi, si connettono con la moglie/madre Irene Petris. E chi era e, soprattutto, cosa faceva Giuseppe Sartori, l’amico di famiglia, figlio, a sua volta, del Presidente di una grande ditta nella quale, la madre, svolgeva un ruolo delicato e misterioso e dal quale, nonostante il lusso e il prestigio, decise di dimettersi? Succede tutto improvvisamente, diciassette o diciotto anni dopo e nessuno, tra i coniugi e l’ospite coetaneo, ha la benché minima voglia di dare spiegazioni. Eccezion fatta per la figlia, forse perché destinata alla condanna della cecità. Non vi sveliamo, né spoileriamo, altro per correttezza, ma anche se volessimo essere cinici, non saremmo in grado di farlo. La drammaturgia originaria di Ibsen fotografa una società di due secoli fa; Ibsen però, quando scriveva, non serviva il suo tempo, ma quello che in futuro altri sarebbero stati capaci di leggere. E il quadro eroico/idilliaco di quei giorni diventa un horror contemporaneo, con ognuno dei protagonisti disposti all’altrui massacro senza però essere disposti a svelare, nemmen per un istante, i propri misteri, senza aprire nemmeno un’anta dell’armadio nel quale conservano, gelosamente, i propri scheletri. Che fine ha fatto la casa dove c’era il grande salone con il grande divano? E come ha fatto, il padre, ad aprirsi uno studio fotografico e perché la madre non vuol dire per quale motivo, improvvisamente, decide di licenziarsi dal prestigioso ruolo di segretaria del Presidente di una ditta che continua, nonostante siano passai così tanti anni, a inviare, puntualmente, il giorno del compleanno della figlia, una serie indefinita di regali? E perché il figlio del ricco industriale, solo ora, dopo diciassette, diciotto anni, si fa vivo? Non trapela nulla dalla scenografia ovatta della rappresentazione, salvo le luci abbaglianti di qualche faretto e il fragore, improvviso e assordante, di qualche sparo, che sembra essere l’epilogo inevitabile di quale flash. Che cosa vuol sapere la figlia, che annuisce, senza prove, dei misteri familiari? E cosa nascondono, con pericolosa e dubbia riservatezza, i suoi genitori? Perché tutto si scatena solo all’arrivo dell’amico di famiglia? Che ruolo ha avuto, al di là dello schema prettamente professionale, la madre, prima, quando era la segretaria di fiducia dell’imprenditore e dopo, con suo figlio? Il marito sembra essere a conoscenza di ogni singolo altarino che nasconde, a sua volta, una verità scomodissima, lacerante, ingombrante. Si arriva all’ultimo flash/sparo su un campo di battaglia dove carnefici e vittime hanno avuto quello che, probabilmente, aspettavano e meritavano, ma senza che una logica o un’intuizione ne abbia spiegato, né favorito, quel tragico epilogo. Si resta appesi sul filo della menzogna, senza che nessuno dei protagonisti tradisca sé stesso, né il suo ruolo, in uno spregiudicato e violento gioco al massacro, dove nessuno, a costo di rivelare i propri segreti, sembra essere disposto a tagliare quel filo sadico e senza speranza. Sono i trucchetti ai quali la middleclass deve necessariamente ricorrere per riuscire a trovare il modo e la maniera per come estraniarsi dall’anonimato selvaggio della quotidianità e dare, a sé e alla propria famiglia, la parenza di un benché minimo prestigio.
PISTOIA. Non ha avuto il coraggio mostrato nella rilettura di Natale in casa Cupiello, ma anche con La locandiera, il regista, Antonio Latella, non ha badato a spese e anche in questa circostanza, i raid, specie nelle ambientazioni, sono stati efficaci, ficcanti, esemplari, soprattutto nel rifacimento di un’opera che, nonostante la sua salvifica contemporaneità, inizia a sfiorare il terzo secolo di vita. E chi meglio della sensualissima Sonia Bergamasco, resa quasi blasfema da una raucedine che ne ha declinato il diaframma fino a rasentare la pornografia, poteva incarnare le vesti di una Mirandolina terzo millennio, abilissima a prendersi gioco di Giovanni Franzoni (il Marchese di Forlipopoli) e Francesco Manetti (il Conte di Albafiorita), due spasimanti/bilancia (il nobile decaduto e l’arricchito; il muscoloso e l’arguto; il paterno e il temerario) per finire poi nella rete della sua stessa arte seduttoria al cospetto del terzo viandante/incomodo, il misogino Ludovico Fededegni (il Cavaliere di Ripafratta) e liberarsi, in un battito di ciglia, da tutto e da tutti, sposando Annibale Pavone (il cameriere Fabrizio), premiandolo, dopo mille sadiche involontarie distrazioni, con l’amore coniugale, quello che le aveva diagnosticato il padre prima di morire? Ma prima di scendere nei dettagli dell’esemplare competenza attoriale dei cinque protagonisti, perfettamente esaltati dai ruoli comprimari del resto del cast (Marta Cortellazzo Weil e Marta Pizzigallo, le due commedianti e Gabriele Pestilli, il servo fiero dell’ostilità femminile del suo padrone), occorre passare attraverso lo scanner della drammaturgia e applaudire, apertamente, Linda Dalisi, che avrà giocato un ruolo chiave anche nell’ammodernamento costumistico dei protagonisti: scalza e con una t-shirt che le arriva a metà cosce; con i pantaloni della tuta Adidas; con un maglioncione caldo stile Cortina d’Ampezzo anni ’90; con un completo griffato e un mega armadio sul fondale del proscenio che ricorda un percorso labirintico nel quale passeggiano, disinvoltamente, tutti i protagonisti. Per non parlare di alcuni stacchi acustici, con la tromba insolente e magnifica di Miles Davis e il rap, equalizzato, di Eminem e tutta la miriade di informazioni e dettagli che (con)vivono in questa rappresentazione. Certo, nella giornata commemorativa e simbolo delle donne uccise per mano di uomini che le amavano troppo, che non potevano vivere senza di loro, la tenace, elastica, enigmistica e a volte disinvolta e cinica adorabile leggerezza di Mirandolina acuisce il rischio che uno dei suoi papabili promessi sposi non sappia ritirarsi in buon ordine e decida, per quella logica perversa che alberga in molti, troppi, uomini sconfitti, di reciderne definitivamente il fascino. Ma tanto a Goldoni, quanto a Latella, preme tratteggiare il carattere femminile dell’amore e anche se al Teatro Manzoni di Pistoia, dove ieri sera La locandiera è andata in scena (si replica oggi pomeriggio, domenica 24 novembre, alle 16,30), qualcuno avrà pur dissentito sulle licenze erogene e omosessuali presenti nel riadattamento del 57enne regista napoletano rispetto al testo originario, siamo profondamente convinti, senza parteggiare per l’arrampicante cultura woke in atto, che le nuove angolazioni e il disinvolto catapultare l’opera tre secoli dopo, non nuocciano, minimamente, alla potenza della rappresentazione. Riproporre, Goldoni, tale e quale, non avrebbe (il condizionale lo usiamo per non irretire i dubbiosi), oggi, probabilmente, alcun senso. Che attorno al fascino femminile ruoti, da tempo immemore, prima ancora dell’avvento goldoniano, quasi l’intero meccanismo universale, è cosa nota e che sapevamo anche un attimo prima di entrare a Teatro a vedere lo spettacolo. Che resta, a parer nostro, un avvolgente remake che si materializza e focalizza in alcuni momenti cardine della rappresentazione, con l’apice raggiunto quando Mirandolina, ormai certa di dover per forza di cose rinunciare allo spasimante conquistato, si lascia avvolgere dal calore e dalla sensualità del suo paletot, con la quale è stata coperta e protetta subito dopo aver perso i sensi. Anche Marco Ferradini, negli anni ’90, aveva sancito, con la sua Teorema, come il totale disinteresse verso una donna comportasse il suo automatico interesse, ma nessuno, né all’epoca, né dopo, lo ha mai tacciato di bieco maschilismo. Eravamo invece convinti che, con quella voce peccaminosa e vagamente vanoniana, Sonia Bergamasco si sarebbe congedata dal pubblico non citando l’epilogo originario del testo: Lor signori ancora profittino di quanto hanno veduto, in vantaggio e sicurezza del loro cuore; e quando mai si trovassero in occasioni di dubitare, di dover cedere, pensino alle malizie imparate, e si ricordino della Locandiera, ma intonando quel capolavoro che si chiama Domani è un altro giorno.
FIRENZE. È cresciuto con Lui e a Lui, diventato uomo, affermato e stimato, è voluto ritornare. A Vincenzo Salemme non si può certo rimproverare di aver mai cavalcato l’onda della napoletanità, scimmiottando, come fan molti suoi conterranei, l’impareggiabile Edoardo prima e, dopo, l’altra divinità, Massimo Troisi. Perché lui ha il suo calibro, il suo polso, la sua strada. E ieri sera, al Teatro Verdi di Firenze (si replica stasera e domani, 24 novembre, con la pomeridiana), c’è quasi riuscito a non suggestionarsi e lasciarsi guidare dal suo mentore De Filippo, salvo poi, prima della chiusura del sipario, concedergli, inevitabilmente, qualcosa. Ma in scena va Natale in casa Cupiello, la commedia delle commedie, e a un napoletano doc (di Bacoli, per l’esattezza), che vive facendo spettacolo, sottarsi del tutto dal fascino del capostipite non è praticamente possibile. Se non come ha fatto Antonio Latella, che gli abiti di Luca Cupiello li ha dati a Monica Piseddu, facendole trascinare, su e giù per il palco, per due ore, quel pesantissimo scrigno di vetro e omaggiando l’autore, oltre che con la sua meravigliosa rilettura, anche con la voce registrata fuori campo e mandata in onda come pillola commemorativa, con la domanda che campeggia per tutta la rappresentazione: ‘o presepe te piace? Ma Salemme conosce i suoi polli e soprattutto conosce il tempo nel quale vivono e sa benissimo che tutto il suo pubblico, numerosissimo, come è successo al Verdi di Firenze, si è lasciato inesorabilmente condizionare dall’avvento dell’era digitale e anche la drammaturgia, comicità compresa, ha bisogno di ritmi più incalzanti: vietato pensare; ridere, sì, ma sghignazzando, accompagnando il boato della risata da un battimani liberatorio. Non a caso, anche ieri sera, nel bel mezzo dello spettacolo, è stato costretto a richiamare all’ordine alcuni suoi coetanei ricordando loro che ai tempi di Edoardo, il telefonino non c’era e dunque, li dovete stutà. Nessuno ha protestato, ma in molti hanno continuato a fare le foto, come se la reprimenda (che dovrebbe esser superflua, dovrebbe) facesse parte del copione. Torniamoci, sul copione, che nell’occasione è un atto unico, intervallato da due cambi-scena con un sipario calato che consente, da una macro fessura, di vedere dietro tutti all’opera. I personaggi dell’indimenticabile Rione Sanità ci sono tutti: c’è la moglie, donna Concetta (Antonella Cioli), il fratello scassambrell Pasqualino (Franco Pinelli), il figlio scansafatiche e mariuolo Tommasino (Antonio Guerriero), la figlia irrequieta Ninuccia (Fernanda Pinto), suo marito ‘nsallanute Nicola Percuoco (Vincenzo Borrino), l’amante, il gagà Vittorio Elia (Agostino Pannone) e gli altri che fanno indissolubilmente parte della commedia (Sergio D’Auria, Oscarino Di Maio, Agostino Pannone, Pina Giarmanà, Geremia Longobardo, Nuvoletta Lucarelli, Gennaro Guazzo e Marianna Liguorio), come alcuni condomini e il medico, che verrà a sentenziare l’irreparabile. Le conversazioni e i dialoghi sono più veloci; il napoletano, come slang universale, è usato con accenti più flessibili; le pause e i silenzi, quelli occupati dalle smorfie del viso emaciato e leggendario di Edoardo, dalla biblica sofferenza di Pupella Maggio e dall’amorosa insolenza di Luca De Filippo sono a malapena accennati, spesso soprasseduti, volentieri evitati. Non crediate che dipenda unicamente dall’immensa statura dei tre artisti sopracitati; i loro sparring partner non sarebbero e non sono da meno, a cominciare dal bravissimo Vincenzo Salemme e via via scorrendo tutti gli artisti della sua compagnia. Siamo più propensi a pensare che con i tempi che sono malevolmente cambiati, anche il nuovo pubblico stenterebbe a capire, non sentendosi così autorizzato ad accendere il telefonino, infastidire astanti e artisti e fare la foto, per scrivere, subito dopo, a tutti i suoi contatti, dove mai fosse, di venerdì sera, con quel freddo, invece di stare a casa, a preparare il presepe.
FIRENZE. La danza può relazionarsi con tutti gli accadimenti terracquei, compreso il sacrificio di Isacco; non è detto, però, che il risultato, al termine della rappresentazione, esaudisca gli interrogativi che il pubblico inizia a porsi immediatamente, dal sensuale parto di Sara, una decrepita novantenne che sfornerà tanti figli quante le stelle del cielo (Genesi: 22, 1-18), su quell’altalena sospesa tra la terra e l’infinito. Il marito, Abramo, di anni ne ha addirittura cento, ma la sua cieca obbedienza divina gli ha consentito questo e tanti molti altri scempi consumati da quelle Scritture che in nome di dogmi studiati ai tavolini dell’Umanità hanno condizionato il Mondo, almeno quello Occidentale. Non è nelle nostre intenzioni aprire un dibattito apocrifo sui personaggi biblici, ma non possiamo esimerci completamente dal relazionarlo al Processo ad Abramo, il nuovo lavoro di Versiliadanza, Archètipo e Diesis Teatrango, in prima nazionale, ieri sera, sabato 16 novembre, al Cantiere Florida di Firenze. Riccardo Massai, Angela Torriani Evangelisti, Piero Cherici e Andrea Dionisi, ideatori e interpreti dello spettacolo - tre monumenti della danza e uno che lo diventerà presto -. hanno (ri)proposto il leggendario sacrificio che il vecchissimo padre è disposto a portare a termine nonostante la richiesta appaia – e apparirà sempre – inumana. Senza però riuscire, almeno dalla nostra postazione, a catapultare nel contemporaneo per provare a radiografare che siano diventati, oggi, a distanza di millenni e una serie infinita di rivoluzioni sociali, Abramo, Sara e Isacco. Quei sacrifici non sono certo e purtroppo finiti, del resto; sono proseguiti nel tempo, in un’escalation di crudeltà, efferatezza e disumanità che fanno rabbrividire lo stesso Abramo. Ma - sempre dalla nostra postazione, eh, beninteso -, la potenza metaforica non è arrivata al cuore e l’armonia del corpo di Angela Torriani Evangelisti e Andrea Dionisi, contrapposte al lento e faticante incedere di Riccardo Massai e Piero Cherici, hanno (ri)fotografato quel passo dell’Antico Testamento sul quale, da sempre, ogni arteria artistica, danza compresa, naturalmente, alla stregua del teatro, della letteratura e della filosofia, si sforza di fare i conti. Ma l’onnipotente, un attimo prima che l’inaudito si compia, provvede alla provvida deviazione, offrendo, sull’altare della devozione, un’appetitosa alternativa. Cosa, invece, che la storia dei secoli non è riuscita a incarnare, alimentando e aggiungendo, al gesto apocalittico, ulteriori e sempre più aberranti dettagli. Il risparmio di Isacco, oggi, cosa è diventato e dove si manifesta? Cosa potrebbe riuscire a fermare la mano di un vecchio padre prima che questa infierisca sul figlio? E se il padre non è quel matusalemme unto dalla cieca fede e fedeltà, ma un giovane a cui è stato concesso, inopportunamente, di dare alla luce un figlio di cui non sa che farsene e, inevitabilmente, voglia sbarazzarsene, da chi verrà fermato? Sono le domande che ci siamo posti subito dopo esserci accomodati in platea e alle quali, purtroppo, non abbiamo avuto risposte.
di Letizia Lupino
PISTOIA. È sabato di un novembre vagamente primaverile, anche se un vagito di freddo comincia a farsi sentire. Per alcuni, la settimana lavorativa è finita, per altri forse infinita. Queste, quantomeno per il momento, sono le cose che sappiamo essere vere nella familiarità della nostra latitudine. Per il momento appunto. Per la limitata estensione del tempo che servirà a Rosie per tornare a casa, nella casa di Adelaide, in Australia, così lontana e così vicina, per affacciarsi sul palco e per sedersi sul proscenio: un monologo, l’antefatto, l’accelerante del fuoco che divamperà presto. Cose che so essere vere, di Andrew Bovell (nella traduzione di Micol Jalla), porta così le nostre cieche crudeltà sul palco del Teatro Manzoni. Un testo (coprodotto dal Teatro Stabile Torino - Teatro Nazionale, dal Teatro Stabile di Bolzano e dal Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale, in accordo con Arcadia & Ricono Ltd per gentile concessione di HLA Management Pty Ltd) toccante e audacemente chirurgico del 2016 che già si porta in valigia molto stagioni e molte ancora ne avrà di fronte a sé. Ciò che ci aspetta è ciò che non vogliamo vedere. Una famiglia come tante che come tante famiglie affronta l’ineluttabile quotidiano del nido domestico, con le sue regole, le sue propensioni, le sue priorità. Le sue crepe. E saranno soprattutto quelle, le crepe, a uscire prepotentemente fuori. Da un gesto, da un approccio fisico alla scena o da una frase detta come se fosse casuale. Le crepe emotive che anni di stucco non sono riusciti e non avrebbero potuto nascondere in nessun modo. Uno spettacolo che attraversa, non solo metaforicamente, le quattro stagioni. È una maturazione obbligata e volontaria che i sei personaggi (subiscono e faranno subire. Valerio Binasco regista e protagonista nel ruolo di Bob Price ci offre una visione fotocopia di moltissime realtà familiari e relazionali che potremmo alzare una mano solo per sussurrare qualcosa che suonerebbe come un’imbarazzata ammissione. E non di colpevolezza; non si tratta semplicisticamente solo di quella, o meglio, magari in parte c’è anche quella, ma soprattutto è il corollario umano per eccellenza, l’essere imperfetto che si approccia all’altro portandosi dietro un carosello di insicurezze, le credenze archetipiche che plasmano, inesorabili, la vita intera di ognuno. Un’immaginifica Via Lattea che appare nella sua compatta interezza solo se vista da lontano. Ed è esattamente questo che Cose che so essere vere ci mostra: la lontananza come porto sicuro che ci fa nascondere il fianco fragile, la lontananza come anestetico alla vita per affrontare la vita stessa. E poco importa se abbiamo promesso e giurato davanti a divinità in ceralacca e amici e parenti in merletti e cravatta. Quel che difendiamo è sempre il nostro sacro giardinetto, così caro al protagonista della pièce, laddove nasconde e si nasconde, ma dove soprattutto cura e si cura. I sei personaggi (Fabrizio Costella, Giovanni Drago, Giordana Faggiano e Stefania Medri) con la loro eccellente interpretazione, una Giuliana De Sio impareggiabile, ci dimostrano come, per assurdo, se non si è pronti alla vita non si può dare la vita, ma anche che la vita stessa ad un certo punto, in inverno, primavera, estate o autunno che siano, possa arrivare, ed è certo che arriverà, a mettere con le spalle al muro. La strappata sensazione di non appartenere più a un sistema che ci ha identificati, a una metaforica illusione di quel che crediamo essere vero, ad una domanda che tremula si fa avanti: Did you evere ho clear?
FIRENZE. Abbiamo la tragica impressione, il funesto sentore, che il peggio debba ancora venire. Sì, certo, il berlusconismo ha fatto più danni della grandine, anche delle ultime scese senza ritegno e incoraggiate da costruzioni selvagge, letti di fiumi non puliti, fognature abbandonate a loro stesse; ma è il capitalismo che ha sferrato, proprio negli ultimi venticinque anni, i suoi colpi più precisi, chirurgici, letali. Con la delittuosa complicità dell’intera umanità, che ha finto pubblicamente di subire, credendo, però, privatamente, di invertire l’atomica tendenza e riuscire così, in qualche modo, a goderne i suoi effetti collaterali. La Lolita di Nabokov, prima e Kubrick (un visionario, lucido, preveggente), poi, non è più un’isolata, scandalosa scabrosa, eccitantissima, situazione borderline, ma la trasversale normalità, così permeante che ha livellato anche le differenze genetiche, partorendo un esercito di buone guaglione (come scrisse, musicò e cantò Pino Daniele nel 1977), un’agguerrita e ancor più perversa concorrenza per un mercato maschile sempre più facoltoso e meno accontentabile. L’abbiamo riassunto così, Never Young, un progetto di Biancofango, scritto da Andrea Trapani e Francesca Macrì, con quest’ultima che firma anche la regia e portato in scena da Marco Gregorio Pulieri, Irma Ticozzelli, Andrea Trapani, Sara Younes e Cristian Zanondella, oltre la collaborazione di una dozzina di cittadini/comparse/attori che agitano la scena, prodotto da Elsinor e Fattore K, in prima regionale ieri sera al Cantiere Florida di Firenze, ma di carne a cuocere, in realtà, ce n’è stata molta altra ancora, ammassata, forse in modo anche asfissiante, nel breve volgere di poco più di un’ora. Abbiamo esordito che, a nostro avviso, il peggio debba ancora venire, perché non vediamo all’orizzonte una seppur flebile inversione di tendenza; anzi, la situazione, già fortemente compromessa e che necessiterebbe di una serie, razionale, poderosa revisione, ha tutta l’aria di inabissarsi ancor più profondamente e velocemente, soprattutto pensando alle mamme Lolita e ai papà Lolito che diverranno, nel giro di tre lustri, i genitori del tempo che verrà. Dobbiamo essere onesti e cospargerci il capo di cenere: siamo noi, presuntuosi genitori illuminati che lambiscono, prima e dopo, i sessant’anni, i veri responsabili di questa, per null’affatto inesorabile, decadenza. Perché non abbiamo opposto le minime opposizione e resistenza quando lo star system ci ha chiesto, in prestito, le nostre bambine poco più che ragazzette, garantendo a loro e a noi che sarebbero diventate grandi in un batter d’occhio e che le avrebbero trasformate, anziché in frustrate ragioniere, impiegate, anonime donne da supermercato, in inarrivabili divinità da feste esclusive. Gustose damigelle di compagnia che avrebbero saltato a piè pari l’età dell’adolescenza e sarebbero entrate direttamente nel mondo dei grandi. Certo, il dazio da pagare è stato naturalmente sottinteso, ma lo sapevamo tutti, soprattutto noi genitori, che le nostre figlie sarebbero state appetitosa carne da macello. E da quella tragica esperienza generazionale, la società successiva, invece che uscirne ammaccata, ha pensato bene di assorbire gli scompensi, trasformando quegli eccessi in normalità, crescendo una nuova generazione di mostri, dove appena si intuisce di poter avere un prezzo, occorre mettersi sul mercato. La rappresentazione, un tecnoringraziamento a Andy Warhol ed Edorado Bennato, termina, dopo un incestuoso divorare di pop corn, con una raccapricciante sequenza di messaggi on/off line, con una speranza, che i Peter Pan del futuro riescano a smettere di piangere, in modo che le stelle smettano di morire. Ma dipenderà ancora una volta dai genitori; e sarà dura, molto dura.
PRATO. Quando sul megaschermo è partita la clip con una delle indimenticabili interpretazioni di Ornella Vanoni della sua, della nostra, Domani è un altro giorno, abbiamo seriamente pensato che Il Risveglio (oggi, domenica 3 novembre, alle 16,30, ultima replica al Metastasio di Prato) volesse sondare gli anfratti della Rinascita e coniugarsi con il diritto/dovere, resiliente, di Continuare. L’ultimo spettacolo di Pippo del Bono, invece, è, senza sperticarci in beatificazioni, né in acrimoniose condanne, un Requiem per il suo Bobò, nato ottantasette anni fa, in manicomio, con le generalità rispondenti a Vincenzo Cannavacciuolo, resuscitato, con quello pseudonimo quasi onomatopeico, sui palcoscenici di tutto il Mondo come giullare, inseparabile e inseparato, di Pippo Del Bono e morto, cinque anni fa, all’età di ottantadue anni, tra le braccia di un Teatro che lo aveva riscattato, con gli interessi, dalle sue disabilità. La nostra impressione sulla perseveranza dello spettacolo che deve continuare nonostante la solitudine, le guerre, la ferocia umana, l’indifferenza, si è andata poi consolidando con il trascorrere della messinscena, visto e considerato, che sulle onde della colonna sonora che ha accompagnato la recita, c’è stato il momento/tributo dei Jefferson Airplaine e poi quella degli Who, due gruppi musicali/militari che hanno fatto del pacifismo la loro ragion d’essere. Accanto a Bobò, l’autore ha anche voluto ricordare la regina delle danzattrici, Pina Bausch, che consegnò proprio al reietto resuscitato il passaporto della danza. Credevamo – e ne eravamo giustamente convinti – che questo Risveglio fosse un altro e un nuovo Manifesto di Resistenza, che prendesse spunto dalle ceneri dei suoi indimenticabili personaggi per librarsi ancora in volo verso orizzonti che senza il Teatro e la sua forza si fanno cupi, minacciosi, pericolosi, letali. E invece – e da qui muove la nostra clemenza – lo spettacolo si articola attorno alla paura, chimica e comprensibile, della vita che sfugge, che lascia lungo la corsa vertiginosa verso il nulla brandelli di amore, ricordi indelebili, speranze accuratamente riposte in cassetti sconosciuti a quell’umanità che crede e ha deciso di rinunciare alla riflessione. E invece – e qui la nostra clemenza diventa molto meno sensibile – lo spettacolo decide di autoeliminarsi dai meccanismi perfettamente oliati del Teatro per trasformarsi, in un gioco grottesco e tragicomico, in una conferenza, dove anche la sua Compagnia, altamente pasoliniana (Dolly Albertin, Gianluca Ballarè, Margherita Clemente, Ilaria Distante, Mario Intruglio, Nelson Lariccia, Gianni Parenti, Giovanni Ricciardi, Pepe Robledo, Grazia Spinella e chissà chi c’era, davvero, sul palco), si autoreclude nella gabbia dorata del suo domatore, recinto nel quale finisce per essere involontariamente risucchiato anche il violoncellista Giovanni Ricciardi, il cui suono dello strumento viene, in più di una circostanza, assorbito e confuso dalle note della registrazione sonora. Uno spettacolo che trasuda decadenza, stanchezza, che passeggia con precaria deambulazione accanto al suo profeta ammalato, ferito, impaurito, che non ricorda i pochi appunti figli di un’interiorità che non dovrebbe aver bisogno di alcun sostegno, se non quello di qualcuno che lo accompagni fin sul limitare del tramonto. Sulle cinque dune di sabbia, che sono forse la micro rappresentazione del deserto medio orientale, sulle quali vengono appoggiate tre croci, che sono quelle dei morti in battaglia, tanto a Gaza quanto a Kiev, ma senza dimenticare tutti gli altri scenari bellici che non hanno rispondenza mediatica e politica, si chiude il sipario, con alle spalle uno dei tanti balletti di Bobò; l’ultimo. Con il grido, soffocato, dell’invito a danzare.
di Letizia Lupino
PISTOIA. Si parte bene. Joni Mitchell che con la sua estrema dolcezza scandisce l’incipit dello spettacolo di stasera, The Koln Concert come prima regionale al teatro Manzoni di Pistoia. Le poltrone della platea gremita trasudano aspettativa nel bisbiglio concitato delle luci di sala che non si spengono, ma che, anzi, palesano la loro presenza nonostante l’avvenuto ingresso di una prima ballerina-attrice che darà, infatti, il via alle danze. Un’assenza importante dovrà, però, essere gestita. Il genitore dell’opera, Leone d’Argento Biennale Danza 2024, Trajal Harrell, non sarà presente per cause di forza maggiore. ma prima che tutto cominci, terrà a farci sapere che il ballo è il suo posto e proprio in virtù del fatto che ha più danza alle spalle che non davanti avrebbe voluto fortemente esser lì, a calcare le scene di un teatro di provincia di tutto rispetto. Alfine le luci si abbasseranno definitivamente in una lunga attesa di un qualcosa che forse non comincerà mai. Sette panchetti sul proscenio disposti linearmente sfalsati attenderanno anche loro e accoglieranno poi in un continuo cambio turno i sei ballerini che popoleranno la scena. Un andirivieni preciso e senza sbavature, movimenti puliti che acquetano e guidano. Corpi preparati e armoniosi nella loro differente natura cercheranno di dare sostanza ad una colonna sonora che sarà perno centrale per tutta la durata dell’esibizione, The Koln Concert appunto, l’opera del 1975 di Keith Jarrett che, così com’è, dà anche il nome allo spettacolo, senza, quindi, timore di fraintendimento alcuno. Un sogno? Una scommessa? Un capriccio? Un omaggio alla più grande improvvisazione solista jazz? È una domanda che rimarrà appesa dall’ultimo applauso fino ai giorni a seguire per poi sopirsi in un angolo remoto dei ricordi. Ce lo chiediamo, perciò, cosa abbiamo visto. Sorpresi e stupefatti di continuare a non capire, sorpresi e stupefatti di star forse cercando di risolvere una strana funzione algebrica della danza. Ripercorrendo ciò che abbiamo guardato cercando fortemente un senso, il senso nascosto. La fissa ripetizione dei movimenti quasi fine a sé stessa che come un automa imbocca un vicolo cieco senza tornare indietro, come il CD quando si bloccava nel lettore riproponendo all’infinito le solite due battute. E così, per un tempo seppur decisamente breve, lo spettacolo si è attorcigliato su sé stesso potendo, ma non esaudendolo. Un poteva essere che non ce l’ha fatta. La crisalide rimasta tale nella poetica forza di quel pianista jazz che stava dando tutto sé stesso in un’improvvisazione che segnerà i venti anni successivi della musica. La palpabile sensazione è che se la cantino e se la suonino per conto proprio. L’improvvisazione dentro l’improvvisazione, uno specchio riflesso dentro l’altro che deforma e ci lascia incapaci di capacitarsi.
PRATO. Ogni volta che eravamo convinti di essere sul punto di capire, il frame successivo ci ha ulteriormente disorientati, facendoci arrendere all’idea che di Strangely familiar. Di un uomo che incontra sé stesso fosse opportuno ricordare quel che se ne voleva, senza avere poi la presunzione di spacciarlo, nella recensione, come il punto di vista unico e oggettivo. Il Metastasio di Prato decide di battezzare la stagione 2024-25 con la surrealtà (ce ne vorrà tanta, per sopravvivere, d’ora in avanti), affidando il volano dell’illusionismo distopico alla Compagnia Jakop Ahlbom, a quell’istrionico, duttile, poliedrico, genio incompreso, incompreso fino al suo arrivo in Olanda, dopo un frenetico errabondare tra Svezia e Danimarca, dove nessuno, ma proprio nessuno, gli riconosce l’estro del fuoriclasse. La storia, par di capire – impressione confortata anche dalla lettura del comunicato stampa -, si aggira in un ufficio di giovani aspiranti broker (abbigliamento da bancari, indiscutibilmente) dove, improvvisamente, dopo un immaginario suicidio, arriva, in sostituzione, come nelle migliori tradizioni delle catene di montaggio, un ragazzo uguale identico a uno degli impiegati (sono i fratelli, italofrancesci, Fabio e Luca Maniglio), che riesce a ottenere tutte le attenzioni e i successi professionali che il suo sosia perdente insegue, inutilmente, da sempre. Su questo sdoppiamento figurativo, emozionale e fisico occorre inderogabilmente intervenire e sottolineare come il regista su questo terreno di frustrazione lavori, praticamente, da sempre. Come non si può non dare il giusto rilievo all’asfissiante cromatura scenografica, dai toni lugubri, post industriali, un elastico in perenne tensione che rimanda al futuro confidando nel passato, composta da vani in movimento che finiscono per essere una ragnatela dalla quale nessuno riesce a svincolarsi, dove ogni varco altro non è che l’ingresso di un nuovo labirinto, un saggio, immediato e immanente, di riferimenti cinematografici, letterari, filosofici e architettonici sui quali non ci soffermiamo perché abbiamo sempre il timore di dare l’impressione di essere quello che non siamo e che non vorremmo mai essere. Ai quali, però, vorremmo aggiungere, ma solo per emozioni ricevute all’istante e che abbiamo avuto la fortuna di ricordare il giorno dopo, mettendoci a scrivere, oltre che alla spudoratezza di Buster Keaton, anche la rivoluzionaria gentilezza di Charlie Chaplin. È una costruzione teatrale muta, senza parole, sostituite da una maniacale precisione ginnica e trasportata altrove da una musica che avremmo scommesso, in un preciso istante, si sarebbe affidata al postindustrialismo dei Pink Floyd. Occorre uno sguardo tridimensionale, per non perdere per strada elementi di spicco che servono indispensabilmente a confezionare il commento. Ma soprattutto, occorrerebbe vederlo nuovamente, e più di una volta, lo spettacolo; perché è oggettivamente perfetto, seppur esteticamente trasandato e poi perché siamo profondamente convinti che il meglio e il grosso ci siano inesorabilmente sfuggiti, concentrati, come lo siamo stati per lungo tempo, a cercare di capire. Vorremmo rivederlo tenendo al guinzaglio i ricordi della prima visione per aggiungere e/o sostituire un impatto ad altre considerazioni. L’ansia che ci ha pervaso all’inizio nel dover tenere a bada la nostra voglia di urlare ma dite qualcosa, cazzo, si è andata, lentamente ma inesorabilmente, a placare quando ci siamo sintonizzati sulle lunghezze d’onda dello spettacolo e abbiamo condiviso con tutto l’ambiente che le parole, le didascalie, le conversazioni e i colloqui avremmo dovuto gestirli noi, nel nostro immaginario collettivo, anche senza voler ossequiare, con fedeltà, la volontà dell’autore, che delle nostre obbiezioni, probabilmente, come delle nostre condivisioni, non sa che farne. Nella settimana di celebrazione di Luca Ronconi nell’atelier del Magnolfi, il convento oltre il Bisenzio, curata da Fabrizia Bettazzi, papà Metastasio, come se si trattasse di un inevitabile risvolto, va oltre e arriva al teatro del terzo millennio. Si replica oggi, sabato 19 ottobre, alle 19,30 e domani, domenica, alle 16,30; consiglio spassionato: non perdetevelo.
di Letizia Lupino
PISTOIA. Non lo so. No, davvero. Non lo so proprio. Il pensiero di cosa ho visto rimane in sospeso nella perplessità di uno sguardo a x e la bocca che si frastaglia in un sorriso, un poker face; esattamente l’espressione sventolata sul palco. Spazi Aperti 2024 si fa vanto della nuova edizione con uno spettacolo decisamente particolare: Hallo! I’m Jacket-Il gioco del nulla si fa largo sul palco della Fortezza Santa Barbara di Pistoia. Pochi spettatori, rubati forse da Panariello in Piazza del Duomo. Poco male, uno spettacolo intimo per noi soli pochi eletti. Il caldo ci abbraccia, gli occhi sfarfallano quando vengono catturati da una figura totalmente nuda, escluso per i boxer e un paio di scarpette che somigliano vagamente a quelle per gli scogli. È l’inizio di una parodia del contemporaneo lunga sessanta minuti. Dai nove ai dieci rintocchi. Il rumore fisso del tic-tac dell’orologio. Un’ora durante la quale succede di tutto, quel tutto forse figlio di un pomeriggio tremolante di luglio quando la noia, spaparanzata come un gatto al sole, decide di sgranchirsi le zampe correndo sulle pareti di casa. È come se avessimo sbirciato nella cameretta di due adolescenti alle prese con il tempo che sgocciola lento e loro, rendendosene conto, giocassero più forte e più sguaiatamente facendo finta di non essere visti. Federico Dimitri e Francesco Manenti lo sanno invece e lo sanno talmente bene da agganciarci continuamente con gli occhi: guardateci, vedeteci, riconosceteci, dateci un valore. Un valore qualsiasi. I due attori/performer/danzatori/artisti… tutto il contrario di tutto animano il palco vuoto aiutandosi con solo un armadio come scenografia. La loro Narnia personale dalla quale tirano fuori orpelli di ogni sorta e foggia solo per il pubblico ludibrio. Qualcuno ride, molti altri invece tacciono perplessi forse quanto me. Scoprirò solo alla fine che le risate erano di proprietà di un’amicizia di lunga data con uno dei due attori. Il teatro come contenitore fisico del nulla che svuota e riempie, che urla, che pizzica, che si ripete allo sfinimento come un Peter Griffin qualunque. Un amaro ridicolo che si sfastidia negli occhi e nella bocca. E se questo sia il loro obiettivo ancora non so dirlo, ma se lo fosse, se davvero lo fosse, allora avrebbe dovuto essere il pubblico a salire sul palco per abbracciare i due attori.
ROSIGNANO MARITTIMO (LI). Ma esiste davvero, Nikita? Da qualche parte sì, assicura Francesca Sarteanesi, ma non è così importante. È come la moglie di Sergio, il suo spettacolo precedente; la surrealtà dell’attrice drammaturga della Piana non è mai fantascientifica. Disallineata sì, con convinzione, coraggio e dolo, ma lungo quella bisettrice dove i sogni si infrangono, confondendosi, con la realtà e dove la realtà, per riuscire a sopravvivere e raccontarsi, ha bisogno di sognare. È una nobile decaduta, Nikita, nobile nella sua mediocrità, certo, ma da giovane ha potuto dire la sua e l’ha detta. È stata una troya; ora, con l’incedere del tempo e le esperienze, è diventata una grantroya, ma sta sempre alla cassa del luna park. Il suo mondo si interfaccia con i clienti che vengono alle giostre: con alcuni di loro interagisce; alla maggiorparte, in verità, stacca, semplicemente, il biglietto, ma la linea di congiunzione degli sguardi tra acquirente e venditore crea quell’alchimia che scatena fantasie e spolvera i ricordi. Il suo pubblico non c’è mai stato e seppur sia stato sempre numeroso, non le ha mai tributato un applauso. Parlerebbe anche da sola, Nikita; in realtà lo fa, ma da qualche tempo, nelle sue lunghe reminiscenze giovanili, ha finalmente trovato un suo alter ego, anzi, una spettatrice privilegiata, Nadia (Alessia Spinelli), la sua estetista, o meglio, la sua pedicure. Che l’ascolta o finge di ascoltarla senza mai perdere di vista la professionalità del suo impiego, grazie al quale, almeno, ha l’opportunità di ricevere tutte quelle informazioni che chiunque altro ignora. E poi è lì, dietro il bancone del luna park e anche Nadia, che non potrà mai ambire ai trascorsi di Nikita, può dire di esserci stata, soprattutto quando ascolta e afferra che alla sua Nikita è successo qualcosa di incredibile, una storia d’amore, seppur lunga solo una notte, con Julio, uno dei miti della sensualità, che si stenta a credere, figuriamoci a raccontarlo. In quel preciso istante, quando la cascata indiscriminata di informazioni assume i connotati specifici e sagomali dell’immaginario collettivo, prendono il sopravvento tutte le più morbose attenzioni e il dialogo, fino ad allora sordo, per un verso, muto, per l’altro, diventa ideale. Lo spettacolo, prodotto da Scarti, Centro di Produzione teatrale d’Innovazione e dal Teatro Metastasio di Prato, con il sostegno di Teatri di Pistoia e che ha debuttato stasera (venerdì 5 luglio) al Teatro Nardini di Rosignano Marittimo, nell’ambito del Festival Inequilibrio, di Armunia, è una nuova scommessa di Francesca Sarteanesi/Tommaso Cheli, due amanti di un linguaggio senza rete, di tempi scenografici ampliamente asfittici, di quel teatro/non teatro che si alimenta di supposizioni e che delega a immagini spesso minimaliste e clownesche il lato povero, ma altamente significante, della scrittura. Senza premesse, senza epiloghi, in un’immersione totale a profondità siderali senza bombole, giusto il tempo di una profonda boccata d’ossigeno dei protagonisti, in un’altalena tragicomica fatta soprattutto di profonda solitudine, con dialoghi abortiti sul nascere e interazioni mai diventate adulte. Una scrittura convincente, provocatrice, indignata, che necessita della complicità di un pubblico al quale raccomandiamo profonda, possibilmente totale, oggettiva immedesimazione; un carnevale carioca senza samba, sorretto dalla tragicomicità dei suoi carri più sgangherati che invece di passare tra due ali di folla in festa, tra pelli abbronzate e lucide e stese e occhi lucidi di saudade, cercano riparo in una vecchia stalla di campagna, lontano da qualsiasi sguardo. Alla tristezza della quotidianità esistenziale, quella dei colori, sgargianti, ma fittizi, delle giostre, fa eco il sadismo di chi non ha alcuna intenzione di edulcorare la mestizia e l’ingiustizia, chimiche, della vita, infierendo sulle debolezze, sulle precarietà, sulle incertezze, dando il colpo di grazia agli agonizzanti alla ricerca della sopravvivenza. Così Nikita, che finirà la sua vita dietro la cassa del luna park, è quella che vorrebbe essere stata, quella che è e quella che non immagina potrà diventare, una trilogia esistenziale/temporale senza pause, dove il passato si fonde nel futuro e trova nel presente la sua più corretta didascalia. Una cascata di informazioni, figli di ricordi, sogni, aspirazioni; un getto continuo di aneddoti, raccontati più per non dimenticarli, che per dar loro un senso. La foto fornitaci dall’ufficio stampa non è stata scattata (da Gabriele Acerboni) sotto l’effetto di sostanze allucinanti o all’indomani di un’epica sbronza; è una scelta divisa e condivisa dalla Sarteanesi e dal suo staff, da una memoria che spesso confonde e ci confonde e che ci rende, virtualmente, solo sagome indecifrabili, difficili da ricordare, impossibili da definire. È il teatro neorealista, il teatro dell’impegno, il teatro delle parole e della sua forza; è quello che non può e non vuole smettere di recitare, ma che sa benissimo che il tempo delle pantomime è finito ormai da tanto e che occorre rimboccarsi le maniche per provare a essere ancora creduti, seguiti, applauditi.
PISTOIA. I napoletani, si sa, si trovano ovunque si vada; è un popolo errante, senza pace, ma nessuno di loro, allontanandosi, anche per sempre, recide le radici. Anzi. E anche ieri sera, a Pistoia, al Funaro (per l'ultimo appuntamento stagionale, curato, come i precedenti, da Lisa Cantini), ad assistere a L’ammore nun’è ammore, spettacolo interamente recitato in partenopeo, anche se con il supporto musicale, dunque globale, senza frontiere, di Marco Vidino, qualcuno, tra il pubblico, perché napoletano trapiantato altrove, ha potuto seguire e capire, letteralmente, le meravigliose, soprattutto perché audaci, traduzioni e tradimenti che Dario Jacobelli, anni or sono, fece di trenta sonetti di William Shakespeare. Paradosso, esaltante, teatrale ha voluto però che a godere, massimamente, della magistrale rappresentazione di Lino Musella, napoletano doc, che si trapianta ovunque lo chiami il lavoro, ma che dalla sua Napoli non si muove, sia stata quella fetta di pubblico, la più nutrita, tra l’altro, che il napoletano non lo sa e dunque non lo capisce. A fare da traduttore, da simultaneo, da interprete poliglotta, anche stavolta, come succede sistematicamente quando occorre, ci ha pensato il Teatro, che è quel filtro magico, mastodontico e invisibile, poderoso e leggero, acquistabile, ma non trattabile, solo attraverso studi matti e disperatissimi, che hanno, tra le banconote e i documenti nei loro portafogli, tutti gli attori che possano definirsi tali. E siccome Lino Musella è uno di quei fortunati possessori, ecco che il suo spettacolo, un monologo sapiente tra cappelli, parrucche, accappatoi, Ceres e sigaretta, ma fatta con tabacco, cartina e filtrino, che si avvicina al pubblico, per poi violarlo nella sua intimità, non solo perché bendato chiede a qualcuno di loro di sorreggerlo con le mani, né perché attraverso un tubo flessibile, racconta, privatamente, un suo pensiero nel cono auricolare del fortunato destinatario, in quello slang che è musica e teatro, poesia e morte, ammore che nun’è ammore, diventa un’onda meravigliosa di sensazioni, una flebile, ma vigorosa, orazione, una serie innumerevole di carezze e schiaffi dati e distribuite su entrambe le guance, fino al punto di non riuscire a capire, né decifrare, quale sia la parte offesa e quella adorata. Ma non basta. Non basta la bravura professionale di Lino Musella; per arrivare fin nei meandri dello stomaco senza passare dalla bocca, dalla triturazione dentale, dall’amalgama salivale, bisogna servirsi di qualcosa che non necessiti di alcun supporto. Ci vuole la lingua napoletana, che non è soltanto un dialetto alla stregua delle decine e decine di altri che colorano e diversificano l’Italia, ma è, chimicamente, uno stato avanzato della comunicazione verbale-non verbale; in parole povere, è il linguaggio teatrale. Mentre scriviamo ci rendiamo immediatamente conto, e per questo chiediamo scusa – sapendo comunque che non ce ne vorrebbero – a Gilberto Govi, Macario, Aldo Fabrizi, Gigi Proietti e a pochi altri menestrelli fuoriclasse che hanno avuto la sfortuna di nascere e crescere altrove; la vis poetica, drammaturgica, musicale del dialetto napoletano non ha eguali sulla faccia delle terra. Su questo dato indiscutibile e incontrovertibile si può poi impiantare un discorso, anche senza fine, per arrivare alla conclusione, inconfutabile, come la premessa non ammetta repliche. Ma non basta, non basta la fiorente congenita fortuna della lingua napoletana, l'esperanto teatrale, a fare Teatro; se così fosse, in quel lembo di terra benedetto/maledetto, non ci sarebbero musicisti, pescivendoli, fiorai, meccanici, impiegati, camorristi e tutta una serie di figure più o meno professionali che non occorre che si snocciolino: tutti farebbero gli attori. E invece, per diventare un Lino Musella qualunque, oltre che essere napoletano, occorre studiare, studiare, studiare, studiare, studiare…
PISTOIA. Stavolta, recensire, più che una volontà professionale, è un inevitabile dovere. Perché ad assistere a Fumatrici di pecore, gemma straziante e delicata di poesia, ci siamo trovati di fronte a qualcosa senza capo, senza coda, senza tempo, senza ritmo, senza trama, senza pace. Riassumere è impossibile; e allora, via a tutte le emozioni ricevute, che sono state una cascata delicatamente fragorosa, a volte devastante. Antonella Bertoni, coreografa di fama internazionale, ha deciso di farsi collaborare da Patrizia Birolo, che di internazionale ha l’anima e dunque, non ha bisogno di parole. Come per i lungometraggi muti di Charlie Chaplin; vero, ci sono i sottotitoli, ma nessuno li legge, si capisce benissimo l’oggetto delle conversazioni tra Charlot e i suoi interlocutori: basta guardarli negli occhi. Ieri sera, al Funaro di Pistoia, è successa la stessa identica cosa; il pubblico osserva le due protagoniste, mamma e figlia, docente e discente, vittima e carnefice, a ruoli sistematicamente invertiti, senza prestare attenzione, ma nemmeno ascolto, a quel che dicono. Si sono sorrette, dall’inizio alla fine, in questo incontro con il pubblico, regalandogli momenti di imbarazzante pudore, debordante tenerezza, luttuosa allegria. E due grandi abilità: scontata, la prima; inimmaginabile, la seconda. Ma, mai, durante la rappresentazione, che una abbia potuto fare a meno dell’altra. E non perché lo spettacolo, altrimenti, non avrebbe avuto senso, ma perché è proprio così. Scalze, con una sottana nera, coperta a sua volta, da uno spolverino, anch’esso nero, quello che si vede abitualmente indosso alle custodi degli istituti scolastici. L’intero palco è coperto da un telone bianco e sull’estrema sinistra, a ridosso della prima fila di spettatori, un tavolino, dove verranno appoggiate, via via, tutte le pecore (bianche) che animeranno la scena, comprese le due destinate a essere aspirate; all’unica, nera, che rimarrà fuori, consentiranno (chissà) di arrivare a stare con il resto del gregge grazie a un asse di legno inclinato sul quale potrà raggiungere il resto del pascolo. Non chiedeteci di cosa parli Fumatrici di pecore perché non lo sappiamo e non sapremmo descrivervelo nemmeno domani, per fortuna. Però ci siamo portati via, con il fumo delle candele, quella carica commovente di gentilezza e compassione, eleganza e simpatia, tenerezza e sensualità e non siamo disposti a condividerla con nessuno, perché con il trascorrere del tempo, degli altri, siamo sempre più propensi a non fidarci. Vorremmo infatti poter suggerire la visione dello spettacolo solo alle persone che riteniamo vicine alla nostra lunghezza d’onda; ci dispiacerebbe che animi non disposti alla leggerezza, all’amore, alla trasmissione di caratteri, potessero avere il lusso di assistere a un lavoro così profondo e apparentemente casuale, a cappella (O forse è proprio a questi ultimi che dovremmo raccomandarne la visione. Chissà). Dietro invece, oltre all’immancabile Michele Abbondanza, c’è un concerto di organi, fiati, violini e tamburi e anche Tiziano Ferro e tutto quello che appare è figlio, legittimo e riconosciuto, di una meticolosa, ma allegra, condivisione laboratoriale, attoriale, umana. Un’ora, abbondante (qualche segmento potrebbe essere tagliato) di uno scambio infinito di emozioni e suggerimenti, fatalità e ostinazioni, vittorie e sconfitte, interrogazioni finite a tarallucci e vino, dove la (con)fusione rende credibile l’inverosimile e lo storico, con una linea così sottile di demarcazione che sembra voler giocare a non farsi trovare, dove le perfette movenze ginniche di Antonella sono lo specchio, fedele e pulito, nel quale Patrizia può e deve rifrangersi. E non certo perché un domani qualsiasi Patrizia assumerà il candore elegiaco di Antonella; non succederà, né potrà succedere. La vera scommessa, sulla quale si cimenta lo spettacolo, è che Antonella riesca, senza perdere un atomo di professionalità, a confondersi e a cibarsi della dabbenaggine atletica di Patrizia, che la vita ha deputato a insegnare senza che lei se ne sia potuta minimamente rendere conto. Le felicità delle due protagoniste, al termine della rappresentazione e dopo la doccia, si somigliano maledettamente; Patrizia, senza Antonella, non avrebbe mai scoperto di essere un’artista e Antonella, senza Patrizia, lo sarebbe, seppur di una sola unghia, forse, meno. Del resto, lo spettacolo, termina sulla scia della preghiera, laica e apocrifa, che le due protagoniste fanno, inginocchiate, al cospetto del tavolino dove invece della capanna di Betlemme, ci sono, seppur manchino Gesù, Giuseppe, Maria, il bue, l'asinello e i Re Magi, pecore, e in grande quantità.
PRATO. In assenza di nuovi agognati sussulti, tutti i grandi vecchi del teatro si sentono in diritto/dovere di dare ancora il loro contributo alla causa delle Produzioni e alle casse dei botteghini. Compreso Alessandro Benvenuti, in scena, in questi giorni, al Metastasio di Prato (si replica oggi, due volte, alle 16 e alle 19,30 e domani, domenica 21 aprile, alle 16,30) con Lieto fine. Sulla surrealtà e sul nonsenso, il 74enne fiorentino ha fondato tutta la propria biografia: teatrale, televisiva, letteraria e cinematografica, ritagliandosi, già dai tempi dei Giancattivi, un prestigioso lembo di notorietà, che lo hanno sempre visto caracollare tra Samuel Beckett e Woody Allen. E nulla e nessuno potrà, anche qualora volesse, inficiarne o solo sminuirne il prestigio. Dall’alto della sua parecchio britannica vis comica, però, non può consentirsi tutto, come allestire un palcoscenico dall’aria di un Ritorno al futuro granducale, vestirsi da esploratore ambientalista e sciorinare, per poco più di un’ora, un’infinità di luoghi, memorie, voci plurifoniche, mesti e pii ricordi, togliersi qualche sassolino dai mocassini, specchiarsi orgogliosamente nelle sue battute anche se nessuno ride più e gongolarsi su un’infallibile memoria fotografica e didascalica che non teme rivali, con l’aggravante, non certo modesta, di dire complessivamente e praticamente nulla. Un saggio di gramelot, una padronanza sintattica, anche se vernacolare, maestosa, impreziosite dall’assenza, totale, di leggii, gobbi mimetizzati e pause riassuntive. Un esercizio personale e collettivo (soprattutto per chi ha ancora il coraggio di avvicinarsi al mestiere d’attore) letteralmente svuotato da qualsiasi contenuto. Mario, Marzio, Mara, gli amici, i rivali, l’amore (perduto), il bilancio di una vita, gli opportunismi e le cattiverie, i rimorsi e i rimpianti, per fortuna alleviati dalle problematiche quotidiane. In un’atmosfera a volte dark, sovente hollywoodpartyana, anche brancaleonica, però, dove sibilano rumori agghiaccianti, che fanno il paio con lampadine intermittenti care al Benigni de L’altra domenica. Tutta la frutta che conoscete e della quale avete solo sentito parlare messa in un frullatore e, una volta pappa, versata in una coppa e degustata, fingendo, goffamente, di riconoscerne i singoli aromi, le terre originarie, l’esposizione al sole, le stagioni delle maturazioni. Silenzio liturgico, in platea, così come si conviene e si dovrebbe convenire, ma più per capire il momento topico della rappresentazione e correlarlo a tutte le informazioni che lo precedono e verranno dopo. E invece, su e giù per le montagne russe, cercando di spiazzare così abilmente lo spettatore e indurlo, al termine del sontuoso monologo, a un inevitabile, ma inconsapevole e incomprensibile, applauso.
PRATO. Succede con parsimoniosa frequenza di assistere a uno spettacolo teatrale che non fa una piega, dall’inizio alla fine, anche mettendo, contemporaneamente, sotto la lente dell’inflessibile ingrandimento, la recitazione dei protagonisti, la regia, la scenografia, l’impianto musicale e la fedeltà, più o meno distopica, visto l’argomento, che la rappresentazione vuole o vorrebbe avere nei confronti del testo originale. Ci è successo ieri sera, al Fabbricone di Prato, dove è andato in scena Il fuoco era la cura, liberamente e surrealmente ispirato a quel libretto meraviglioso che è Fahrenheit 451, di Ray Bradbury, il nuovo lavoro di quelli di Sotterraneo, che stavolta, però, han deciso di restare, ma senza nascondersi, dietro le quinte e mandare allo sbaraglio Flavia Comi, Davide Fasano, Fabio Mascagni, Radu Murarasu e Cristiana Tramparulo (in ordine alfabetico, non ne conoscevamo uno). Il risultato, tra l’ormai affidabilissimo marchio di fabbrica di Sara Bonaventura, Claudio Cirri e Daniele Villa (in ordine alfabetico, ma li conosciamo da sempre, per fortuna) e la felicissima, seppur immaginiamo faticosissima, trasposizione sul neonato quintetto, è senza mezzo termine alcuno, straordinario. L’idea, geniale e ormai felicemente collaudata, è quella di dare l’illusione di alzare o abbassare, dipende quale sia la monade che ha voce in capitolo, il lavoro teatrale a un quiz televisivo, a un puzzle consollistico, a un’irriverente parodia. Con il trascorrere delle immagini, del tempo, della trama e del collante attoriale tra quelli che popolano il palco, però, chiunque, tra il pubblico, ha l’obbligo di fare parecchia e forbita attenzione, perché quello che aveva l’aria di essere un divertente e dissacrante gioco di (alta) società, è in realtà, un’immersione, totale, in un altro mondo, nel quale, per ineludibile ironia, non può che finirci anche quello dei singoli manovratori e del loro background. La voglia, doverosa e parecchio attinente a ciò che la sorte e la perseveranza ci han dato in dote, potrebbe e dovrebbe essere quella di scandagliare, con dovizia di particolari, riferimenti, richiami e allitterazioni teatrali, sempre targati Sotterraneo, del nuovo lavoro della compagnia, prodotto, con manifesta cupidigia, dai padroni di casa del Teatro Metastasio, in collaborazione con la compagnia stessa, il Piccolo Teatro di Milano, Teatro d’Europa, Emilia Romagna e Teatro ERT/Teatro Nazionale. Invece, della scanzonata fedeltà al testo, della riverenza bibliografica e cinematografica e della tragica contemporaneità di quelle previsioni che all’epoca parvero tanto esagerate, quanto fuori luogo, e che si sono invece rivelate drammatico presagio di quello che vivremo, se riusciremo a viverlo, non spenderemo nemmeno una sillaba, affogando, al contrario, nell’orgia edonistica di una rappresentazione maiuscola, con i cinque protagonisti preparati, soprattutto atleticamente, a questa meravigliosa dimostrazione di snobistica coordinazione psicofisica, a tratti eccelsa e sublime, soprattutto quando riesce a spezzare, con movenze ridoliniane e urla letteralmente disarticolate, senza dimenticare gli improvvisi passaggi, a bassa quota, di jet supersonici e bolidi stradali che sfrecciano, oltre ogni ragionevole limite, nelle vie cittadine, una trama volutamente arzigogolata e contorta, onirica e ironica, feroce e divertente, innovativa dall’angolazione del teatro che si sta formando, ma impeccabile da quella del teatro di cui non si può fare a meno, per la cui totale comprensione occorre necessariamente attendere, con premurosa tenzione, i titoli di coda. Abbiamo avuto il timore, non lo nascondiamo, che Sotterraneo, alla soglia dei festeggiamenti dei venti anni di attività, con una valanga di premi e riconoscimenti assegnati, in ordine sparso, a Dies Irae, Il giro del mondo in 80 giorni, Be legend!, Overload, Be normal!, L’angelo della storia, Post-it, War now! e qualcosa dimentichiamo sicuramente, non certo la loro duttile, intelligente, bravura, rischiassero un po’ troppo delegando una rappresentazione così articolata, impegnativa, con un saliscendi simile a infernali montagne russe, a quattro giovani e uno pseudoveterano le loro gesta sceniche; la paura è passata in men che si dica tanto che ci permettiamo il lusso di suggerire, e addirittura ipotizzare, un giro del mondo di questo spettacolo, con Sara, Claudio e Daniele che seguono le rappresentazioni via internet, stravaccati sui divani, con birra e pop corn sui tavolini in vetro nelle sale da pranzo e la consolle, a portata di mano, per giocare, ogni tanto, ai clown bianchi.
PESCIA (PT). Resta uno dei mestieri più difficili, quello dei genitori; in particolare, la mamma, perché checché ne dicano le nuove irritanti antologie, i figli son cosa loro, non foss’altro per quei primi interminabili, silenziosi, solitari e magici nove mesi di grembo. I padri arrivano sempre e soltanto dopo, senza tra l’altro avere la minima certezza di esser loro quelli della componente Alfa, quando i figli, ormai, seppur minuscoli, ma esseri umani al completo, nascono e, spesso, fan solo disastri. Florian Zeller, nonostante la giovane età (teatrale), sulla famiglia ha già portato a compimento la trilogia e con La madre, ieri, al Teatro Pacini di Pescia, ha chiuso il circolo triangolare, affidando ad Anna, alla pugliese Lunetta Savino, oneri e onori materni. Che sono prestigiosi e impeccabili fino a quando la situazione non mostra l’inesorabile naufragio; con le prime schermaglie coniugali, infatti, quelle intraprese con il marito (Andrea Renzi) impegnato in convegni e in tutto ciò che lo possa tenere lontano da casa, i suoi cenni di cedimento nervoso prendono la giusta piega umoristica, satiricamente cinici quando descrivono un amore decisamente meno sconfinato che nutre per Sara, la figlia, che non arriva mai in scena. Poi, però, sembra quasi preferire non lasciarsi risucchiare del tutto dal lancinante, ma immotivato, dolore causato dall’inevitabile, perché chimico, distacco di Nicola, il figlio (Niccolò Ferrero), proteso a vivere la sua vita in compagnia di Elodie (Chiarastella Sorrentino), la bella fidanzata. L’afona scenografia chirurgica, illuminata da luci al neon da guerre stellari, che si avvale di un tavolino, tre sedie, un frigorifero, un microfono che esce, a richiesta, da una botola posta sul palco e una serie di varchi senza porte, rende perfettamente l’idea che Marcello Cotugno, il regista, vuole imprimere allo scoccare temporale delle immagini, sulle quali volteggia, inesorabile, lo sdoppiamento realtà/illusione, con le scene e i dialoghi che vengono, talvolta, ripetuti in modo ossessivo, per differire, l’un dall’altro, per soli pochi, piccoli, insignificanti dettagli, che sono poi quelli che innescheranno, in Anna, il germe della follia, alla quale, però, la storia concede una grande opportunità: addomesticarsi all’idea che i figli (che il figlio maschio) crescano e facciano la propria vita. Succede nella stanza dell’ospedale, dove è stata ricoverata perché ha ingerito una quantità spropositata di sonniferi abbinandoli all’alcol; la visita e la vista di Nicola, che le porta un vistosissimo fiore rosso, rosso come il vestito che si è comprata per provare a uscire dalla monotonia, casomai ringiovanendo, casomai uscendo a cena proprio con il figlio, l’unico maschio di casa in grado di sostituire l’assenza del marito, con il quale ha perso da tempo qualsiasi tipo di speranza di poterlo riavere accanto almeno come uomo, visto che il padre non è mai riuscito a farlo, la induce infatti a tentare, almeno, di risollevarsi dal torpore nel quale ha deciso di lasciarsi cadere, alzandosi dal letto e andando, sorridendo, incontro al figlio. Il barlume ottimistico che si intravede sul fondale della rappresentazione non muta, di un solo atomo, l’inesorabile – e forse anche per questo ancor più irritante, ingratitudine nei confronti delle donne nutrita, con sconcertante assiduità nel tempo, cadenzato con chirurgica precisione, tanto dai mariti quanto dai figli, un lento compulsivo oblio che le donne sembrano essere condannate, più che destinate, a subire, perdendo, con il trascorrere del tempo, lo scettro femminile nei confronti dei mariti e quello dell’Amore non più corrisposto dai figli, come ha cantato Fiorella Mannoia, con quel meraviglioso manifesto dedicato alla forza, sorda e cieca, di Quello che le donne non dicono.
FIRENZE. Lo sanno bene tutti, in particolar modo i musicisti, quelli con la m minuscola e quelli con la M maiuscola, che il fenomeno cosmico, e senza tempo, dei Beatles, sia quasi impossibile da spiegare. In quell’incredibile decennio (1960 – 1970) infatti, limitando l’attenzione introspettiva al solo campo musicale, con i quattro ragazzi di Liverpool, alla ribalta, ci arrivarono, da vari angoli planetari, un sacco di altri musicisti. I primi che ci vengono in mente sono i Rolling Stones, ad esempio, che di rock and roll ne macinavano assai di più e con testi non certo morbidi, né per donzellette che vengon giù dalla campagna; c’erano i Doors, maledetti sin nelle viscere, senza contare, ad esempio, tutti i padri e le madri del Blues, da B. B. King a Muddy Waters, da Etta James ad Aretha Franklin. Ma come John, Paul, George e Ringo nessuno mai seppe influenzare, in modo così decisivo e calamitico, la scena sociale. Su questo, forse, Eugenio Nocciolini (suoi il testo e la regia), Andrea Casagni e Gabriele Giaffreda hanno deciso di soffermarsi e concentrarsi per dare alla luce Scarafaggi – Across The Beatles (prodotto da Primera in collaborazione con CasoZero Media), in scena al Teatro Rifredi di Firenze (si replica stasera, ore 21). Senza forse, probabilmente, ma non per impiantare un dibattito convocando addetti ai lavori e critici sontuosi, ma per allestire un gradevole excursus esistenziale e farne uno spettacolo su quei quattro adolescenti che si trovarono, inavvertitamente e senza alcuna spiegazione plausibile, in cima al mondo, non solo nelle hit dall’Inghilterra agli Stati Uniti, ma anche e soprattutto nell’influenza totale che esercitarono su quella contemporanea generazione di coetanei da zenith a nadir. I tre giovanotti, di Firenze, non di Liverpool, arrivano sul palcoscenico dal fondo della platea inscenando una delle tante prove della rappresentazione. Escono ed entrano dai personaggi con disinvoltura, confidando nei video che proiettano sullo schermo che campeggia alle spalle della scena; alcuni, paiono inediti, quasi, altri, appartengono all’immaginario collettivo che ha fatto la storia, anzi, la leggenda, dei Beatles. Un racconto, gradevole, che spazia dalle rispettive adolescenze dei Fab Four per arrivare, ripercorrendo alcune tappe della loro fulmicotonica carriera passando anche attraverso il filtro delle loro singole storie sentimentali, che hanno quasi sempre invaso il territorio artistico del quartetto più famoso del mondo, allo scioglimento del gruppo, arrivato dieci anni dopo la nascita, una consensuale interruzione del sodalizio che dette poi vita alle loro singole carriere (una delle quali, quella di John Lennon, tragicamente interrotta), senza comunque smettere mai di continuare a godere di quell’effetto collettivo di mirabolante fascino e magia quasi inspiegabilmente maturato in quel meraviglioso decennio. Entrano ed escono dai mitici personaggi dei lord inglesi, dicevamo, senza permettersi mai il lusso di canticchiarne alcuni motivi che sono di commestibilità mondiale; sono senza strumenti, perché loro sono tre attori che stanno provando a mettere in scena il loro spettacolo e l’esperimento, vista la totale approvazione del pubblico che ha gremito la sala di Rifredi, non può che dirsi riuscito.
FIRENZE. La cosa più difficile, spesso, è riuscire a farsene una ragione, convivere e condividere, con dolcezza, naturalezza e il dovuto distacco, con una madre che, lentamente e inesorabilmente, si trasforma in altro. Quella stessa mamma che è stata, per una vita intera, faro e punto di riferimento di un’intera famiglia e che improvvisamente abbandona inconsapevolmente le redini del comando senza nominare un successore, diventando, tra l’altro, il soldato più indisciplinato, meno governabile, del quale, nella caserma/famiglia, se ne farebbe volentieri a meno. Fabiana Iacozzilli chiude la trilogia esistenziale e si affida, per la rappresentazione della vecchiaia ultracontaminata da malattie neurodegenerative, a Giuseppina Merli (81 anni il prossimo 26 marzo), protagonista disinvolta e perfettamente sintonizzata con l’incomprensibile trasformazione umana de Il grande vuoto, in scena ieri sera in uno stracolmo Teatro Cantiere Florida. La figlia, Francesca Farcomeni, meno adorata del fratello, Piero Lanzellotti, è l’ultima ad arrendersi alla tragicomica follia della madre, anche perché, in questa battaglia senza frontiere, il padre, suo grande estimatore, Ermanno de Biagi, è morto prima che la situazione della moglie degenerasse, anche se, in vita, aveva avuto occasione di toccare, con mano, i primi segnali di abbrutimento. Si apre così, infatti, il sipario della rappresentazione, con i due vecchi coniugi che devono, a bordo di una Fiat Panda rossa (targata Roma 15043B), fare pochi chilometri di strada per rientrare a casa dopo essere stati a fare un po’ di spesa in un supermercato della città. Come se non bastasse lo schizofrenico atteggiamento della moglie a caricare di ilare e sconfortante tensione il quadro, ci si mette anche la macchina, che di accendersi non ne vuol sapere; certo, è vecchia, ci vorrebbe la nuova Peugeot 206, ma per quel che deve fare, per ora, basta e avanza. Di macchine, di compravendite automobilistiche, di uova e olio da riporre, con cura, nel bagagliaio, non se ne parlerà più. Da quel momento in poi, scomparsa la vecchia automobile, tutto ruoterà attorno al dissolvimento cerebrale dell’anziana madre, un’attrice da tempo tramontata che vive il presente confidando soltanto nei pochi dettagli che la memoria artistica le offre ancora, un’angosciante ripetizione a oltranza di cose, città, dettagli, stracci, bambole e indumenti intimi accatastati un bauli e quella magnifica rappresentazione a Pietroburgo del Re Lear, l’unica cosa che riesce ancora ad inorgoglirla e che scatena la trafila della narrazione con una delle due matriosche (quella color oro) conservata nella dispensa. Succede tutto nel salone dell’abitazione, attorno al lungo tavolo sul quale la famiglia ha puntualmente consumato pasti e cene, con uno dei due posti di capotavola rimasto vuoto e che l’anziana signora invece vuole che sia ancora apparecchiato, compito, che sovente, svolge la governante, la debuttante Mona Abokhatwa. Unica compagnia, la televisione accesa su immagini calcistiche, della Lazio, per la precisione, con il capitano Ciro Immobile che contamina i ricordi della vecchia malata insinuandosi, addirittura, tra i personaggi della sua gioventù, che con il calcio non hanno mai diviso un solo atomo. Più che sui tentacoli della malattia che a volte coinvolge e stritola la terza età, Il grande vuoto perlustra i meandri di chi, della malattia, è tragico, inerme e inerte spettatore; l’incapacità, oggettiva e soggettiva, di interfacciarsi con una persona non più riconoscibile e che, con sadica inconsapevole naturalezza, riesce a disintegrare un’intera vita di affetti, soffocando, proprio sul breve limitare dell’esistenza stessa, innumerevoli stagioni di amore, sacrifici, complicità. Un senso di totale inadeguatezza parentale che Fabiana Iacozzilli ha voluto provare a smussare decidendo di affidare l’epilogo della rappresentazione a una seppur patetica simulazione teatrale, capace, però, forse, di rendere, a vincitori e vinti, vittime e carnefici, compresa la totale inadeguatezza sociale, politica e civile, il senso, leggero, della vita.
PRATO. Iniziò a sentirsi improvvisamente male, Claudia, la strega. Era il primo pomeriggio di un’estate uguale a mille altre. Bivaccavamo sull’erba di piazza san Giovanni, tra la basilica e la statua di san Francesco, zona frequentata solo e soltanto da compagni; alcuni erano involontariamente in procinto di sbagliare, altri stavano già sbagliando, ma erano convinti di fare la cosa giusta. La strega apparteneva al secondo gruppo. Iniziò ad avere delle convulsioni; Francesco e io l’accompagnammo verso la fontanella. Iniziò a vomitare; vomitava fango. Perché non provi a smettere, Claudia – ci permettemmo, sommessamente, di suggerirle; ma io c’ho du’ mamme, rigà: la mia e la robba. Correva, a velocità supersonica, il 1978. Siamo a Roma, tra smog e cemento; la Banda della Magliana fa il buono e il cattivo tempo. In Puglia, invece, tra ulivi e mare, di lì a poco nascerà la Sacra Corona Unita. Cambiano solo i colori e le longitudini, ma il dolore criminale e la totale dissoluzione sono esattamente le stesse. Per questo, mentre Oscar De Summa racconta, al Fabbricone di Prato (in prima nazionale; si replica oggi, alle 19,30 e domani, domenica 10 marzo, alle 16), dieci anni dopo, Stasera sono in vena, noi affondiamo la memoria in quella tragica stagione e ricordiamo perfettamente tutto, nonostante il tempo e la nostra fortuna di aver potuto studiare potrebbe farci dimenticare. Ma non si può, non si deve. E allora, questa rilettura concertistica di uno dei mosaici della trilogia della provincia (che si completa con Il diario di provincia e La sorella di Gesucristo), ce la gustiamo tutta, senza lasciarci travolgere dalla nostalgia e senza perdere nemmeno per un istante di vista che siamo a teatro e non a casa di amici a vedere un filmino di quegli anni. Come cornice, a emiciclo, attorno a Oscar De Summa, che si è salvato perché ha dato retta a chi gli consigliò, con una pistola rimessa nella cintura dei pantaloni, dopo avergliela mostrata, di andarsene, da quell’inferno, ci sono la coreografia musicale composta da Corrado Nuccini, Daniele Rossi e Francesca Bono (diaframma prezioso), che partono dalla Fine, dal baratro, di Jim Morrison, per arrivare fino ad Alleluia, alla resurrezione, di Leonard Cohen, passando attraverso alcune canzoni simbolo di quegli anni di buio accecante, gli inni alternativi di ottimi musicisti e involontari catti maestri, come Lou Reed, David Bowie, i Doors. Siamo nella provincia di Brindisi che si avvicina, con giustificabile presunzione, al Salento. Oscar è un rocker che sogna i grandi palcoscenici; ha una bella voce e non ha ancora riposto le velleità artistiche. Frequenta una compagnia di coetanei che non hanno vis artistiche e alcuna voglia di studiare; appetitosi per l’eroina che inizia a serpeggiare, soprattutto dove il nichilismo la fa da padrona. La storia di quei tre amici è vera, giura l’autore/interprete, addirittura autobiografica, con qualche aggiunta cromatica teatrale e alcuni opportuni omissis. Racconta della visita, inaspettata, quanto gradita, di una ragazza di Trieste e l’arrivo, in rapida successione, dei suoi due amici d’infanzia. Non è una rimpatriata estiva; si va a caccia di eroina; il fumo c’è, e in abbondanza, ma quello sballo non basta, è troppo lieve, non si sogna nulla, non somiglia a cento orgasmi tutti insieme. I quattro si rivolgono ai vecchi e sicuri spacciatori, ignorando che quel mercato, da qualche tempo, è preda di persone che ignorano l’amicizia. A loro, in una frenetica circumnavigazione dell’entroterra pugliese, si aggiunge anche un quinto tossico, che non si buca da oltre due settimane; quella pera gli è fatale. Il racconto, che fino a quel momento ondeggia tra onirismo e paura, diventa drammatico, soprattutto perché l’amico che non regge lo sballo è il nipote di un boss emergente. Oscar De Summa continua a far oscillare la memoria e la narrazione tra il sogno infranto di rocker e l’eroina che improvvisamente ha scalzato tutto il resto e che rischia, seriamente, di compromettere tutto ciò che potrebbe ancora succedere alla sua vita, che, quel giorno, scarta via, lascia intatto il suo passato e sale al nord, per provare a ricominciare. Il palcoscenico, le rappresentazioni solitarie, direttissime, invernali, diventano il suo pane, alimento prelibato e prezioso che spartisce e condivide, parallelamente, con altri crooner teatrali. Nelle sue vene, da tempo, scorre altro, per fortuna e grazie alla solita, identica piacevole coincidenza, ha deciso di non dimenticare, trasformando quella triste stagione della sua adolescenza nella potenza attoriale della sua maturità, in questa meravigliosa sinfonia tossica.
PISTOIA. L’equazione che (col)lega il commediografo Roberto Valerio al proprio pubblico è rigorosa e tassonomica. Lo abbiamo visto crescere e diventare uno dei più applauditi registi senza distinzioni regionali, senza che il successo lo abbia mai indotto a esagerare, bearsi e crogiolarsi ed esonerandolo da improvvide sperimentazioni. Lui si (ri)conosce nelle commedie e da queste non ha la minima intenzione di allontanarsi. Come ieri sera, al Teatro Manzoni di Pistoia, dove ha debuttato la sua nuova messinscena de Il giuocatore, una delle innumerevoli scritture di Goldoni, nello specifico autobiografica e terapeutica e ancora, ahinoi, mostruosamente attuale, visti i numerosi ricoveri di soggetti dilaniati dalla ludopatia in strutture di reinserimento, quelle che una volta erano stabilmente occupate da eroinomani. E ancora una volta, la scena, se l’è presa il progettista e il suo viavai di personaggi che popolano il vascello che conduce alla deriva vincitori e vinti, traditori e traditi, furbi e sciocchi, con un esemplare dosaggio di personaggi principali e figure carismatiche così interscambiabili tra loro che quando cala il sipario non si ha ben chiaro su quali mani deporre lo scettro del mattatore. Certo, Florindo Aretusi (Alessandro Averone) è il perno attorno al quale gravitano tutte le vicissitudini, lo sciupafemmine di turno, lo sposo promesso alla giovane Rosaura (Mimosa Campironi), che tra una sciagurata scommessa e l’altra non disdegna il bene effimero di Beatrice (Roberta Rosignoli), l’amante, ma non solo, visto che anche con lei si è ufficialmente impegnato e, all’occorrenza, di ingannare, per poche centinaia di zecchini, l’amore e l’ardore non ancora tramontati della vecchia Gandolfa (Alvia Reale), sorella del futuro suocero, Pantalone de’ Bisognosi (Davide Lorino), imbufalito oltre ogni ragionevolezza, ma che prima della chiusura del sipario offrirà al futuro genero ancora un’opportunità. L’andirivieni che alimenta, senza tregua, la scena ha bisogno anche, e in modo vitale, della simpatia chimica di Pancrazio (Nicola Rignanese), l’anello di congiunzione ideale tra il dramma della ludopatia e la tragicomica verve goldoniana, proprietario del Casinò dove Florindo dilapida tutti i suoi risparmi, fino ad arrivare a impegnare monili e dignità, e dei due astuti farabutti, Agapito (Massimo Grigò) e Tiburzio (Mario Valiani) che conoscono le adrenaliniche debolezze del gioco sofferte dal protagonista. La trama, che risulta impeccabile anche da un semplice punto di osservazione cronologico (la piaga della ludopatia sta acquisendo contorni drammatici, con la complicità di uno Stato che produce gratta e vinci, lotterie d’ogni sorta, ma con la subdola avvertenza riservata ai consumatori degli smisurati rischi dell’azzardo), non gode e non soffre di suspence, ma si mantiene, dall’inizio alla fine, senza mai perdere ritmo, vivacità e simpatia, lungo i binari del puro intrattenimento. Così è Roberto Valerio e così il pubblico, il suo pubblico, lo vuole, con tutta la carovana di attori e attrici al seguito che ne caratterizzano, inconfondibilmente, la traccia. Quasi sempre, nei suoi lavori, l’adattatore/regista Roberto Valerio si ritaglia una piccola gemma, con la quale, oltre a dividere e condividere con l’intero cast la fatica delle prove e l’emozione della rappresentazione, riesce soprattutto a sigillare l’intera operazione-simpatia che corona, puntualmente, ogni suo spettacolo. Stavolta, invece, l’artista romano, ha preferito restare dietro le quinte e dietro la macchina da presa, confidando nel felice sodalizio produttivo con Teatri di Pistoia – Centro di produzione teatrale (il Manzoni, quando arriva Roberto Valerio, si riempie) che a sua volta si è affidato ai costumi di Guido Fiorato, alle luci di Emiliano Pona e alle musiche, nella fattispecie dal vivo, della pianista Mimosa Campironi, che senza svestire i panni di Rosaura ha fatto vedere cosa altro sa fare, l’illusa innamorata.
di Adriana Casalegno
NAPOLI. Seduti al Teatro Area Nord nella negletta periferia napoletana, aspettiamo i ballerini. In mano abbiamo un foglio su cui rispondere alla domanda: quale è la tua vergogna? In testa indossiamo una corona d'oro con una stella: happy new shame. Sul palco, illuminato da neon blu e bianchi, arrivano quattro donne e un uomo, occhi accesi, altezze e misure diverse, biancheria intima personalizzata, pellicce dai colori scuri, taglie diseguali. Veniamo catturati da una danza potente, da un ritmo cadenzato, da una luce intermittente. I performers si fermano, ci dicono i loro nomi, i paesi di provenienza: Italia, Giappone, Macedonia. Con i loro corpi che si intrecciano, si districano in movimenti grotteschi e liberatori, ci racconteranno contesti di vergogna personale, collettiva, sociale, dal Farking al decalogo per l'uccisione dei cani, alla Shame Parade. Gradevolissima la musica, dalla lirica al pop. Sono passaggi profondi e leggeri, seri e ironici. La quarta parete viene bucata con domande dirette agli spettatori, esortazioni a raccontare le proprie vergogne, con l'invito a sperimentare il contatto tra persone che non si conoscono: guardarsi negli occhi, baciarsi, abbracciarsi. Ogni indicazione ci lascia perplessi, poi, divertiti.
Humana Vergogna (che deve la creazione artistica ad Antonella Lallorenzi, Mattia Giordano, Mariagrazia Nacci, Simona Spirovska ed Ema Tashiro, i costumi a Lia Zanda, la consulenza per i testi a Jeton Neziraj e la direzione tecnica e delle luci ad Angelo Piccinni) è uno spettacolo che unisce teatro e danza, i testi arrivano in voce e movimenti. Il lavoro del corpo è continuo, ogni performer ha le sue caratteristiche, tutti assieme compongono un'unità. In ogni racconto le voci tenui e i gesti appena accennati crescono, ci incalzano, via via ci avvolgono e ci travolgono in ritmi orgiastici. È un processo creativo nato da incontri con comunità sociali, la Casa Circondariale di Matera, scuole medie e superiori, secondo il metodo di ricerca scelto dagli autori Silvia Gribaudi e Matteo Maffesanti, che sono anche gli inventori e i drammaturghi. La compagnia teatrale Petra di Satriano Lucania è il partner attuatore e responsabile del progetto Poetica della Vergogna inserito nel programma ufficiale di Matera 2019, Capitale Europea della Cultura. E Matera, denunciata da Togliatti nel 1949 Vergogna d'Italia, con Humana Vergogna continua il suo riscatto. Il Teatro Area Nord ha presentato lo spettacolo nel concept CONFINIAPERTI. Situato a Piscinola, il quartiere di periferia che confina con Scampia, in quei territori, in parole povere, in cui vivere e sopravvivere diviene faticoso ogni giorno che passa, è considerato il Teatro della Periferia e della Resistenza. Lo stabile di cemento su cemento faceva parte di un centro polifunzionale abbandonato che veniva indicato come posto surreale, ottimo set per foto e film drammatici. Lello Serao, della direzione artistica assieme ad Helenia De Falco, lo ha pian piano messo in agibilità. È da tempo luogo di incontro, confronto, parte integrante della vita quotidiana. Gli spettacoli sono esperienze di cambiamento per chi li rappresenta e per chi vi assiste. Ci siamo arrivati col Polibus, la navetta messa a disposizione dal Comune di Napoli. Nel viaggio, uno scambio tra noi. Inizia l'avventura teatrale.
FIRENZE. Stavolta, le lacrime, non scendono incontrollate lungo le gote solcando orgogliosamente il viso. Con Il tango delle capinere restano lì, in attesa. Emma Dante, stavolta, si allontana, ma solo per un attimo (questo è il solo nostro augurio, eh; non abbiamo anticipazioni sulle sue produzioni future), dal dolore più intenso, da quel dolore così profondo che per riuscire a sopravvivere bisogna, necessariamente, che si trasformi in energia, e plana su una poetica, fisica, sensualissima, storia d’amore, quella di un Ginger e Fred, o Paolo e Francesca, se preferite, ma della Sud Costa Occidentale. Manuela Lo Sicco e Sabino Civilleri non sono però due ballerini, vecchi amici, che si ritrovano, per una circostanza mondana, a dare un saggio delle loro doti artistiche sulla via del tramonto o un uomo e una donna sul cui amore la letteratura e la filosofia si sono poi sbizzarrite fino a mitizzarne anche le più pure e innocenti semplicità. Manuela e Sabino sono una felicissima, seppur stanca e provata dalla vita, coppia di coniugi. La danza è stata il loro sodalizio giovanile, la coppia numero 74 di una saga paesana nella quale vinsero stracciando, inesorabilmente, tutta la concorrenza. Lì, però, ci si arriva dopo, quando il nastro della loro fantastica, anonima, esistenza, si è già riavvolto e continuerà a farlo fino all'ultima immagine, di quell'amore puro che è riuscito a mantenersi tale così come promesso nel suo rito adolescenziale propiziatorio. Il Teatro Rifredi è pieno in ogni ordine di posti: prima della prima replica (stasera, sabato 17 febbraio, la terza e ultima, prima che la carovana si trasferisca all’Era di Pontedera), Giancarlo Mordini, direttore artistico del Teatro prima dell’assemblaggio con la Pergola, legge un comunicato; nessun riferimento esplicito alla tragedia consumatasi, nella mattinata, a poche centinaia di metri, in un cantiere, dove sono morte tre persone (quattro, quando scriviamo, in attesa di inserire nel tragico listino la quinta), ma una lode al lavoro. E alla sicurezza. Ci sono gli abbonati storici e quelli che, di Emma Dante, non si vogliono perdere nemmeno un quadro. La scena è la solita dei capolavori precedenti; sul palcoscenico c’è poco o nulla: due bauli, per l’esattezza, che custodiscono gli abiti indossati dai protagonisti durante le loro esistenze. All’inizio sono vecchi, stanchi, logori, seppur ancor perfettamente dignitosi, con l’amore che ancora li unisce dopo tutto quel tempo trascorso insieme, dopo tutti quegli anni, nei quali sono partiti dal nulla per arrivare fin nei paraggi del capolinea, che li sta aspettando, anche se senza fretta alcuna, con tutta l’inesorabilità delle circostanze. In sottofondo, senza legami storici definiti e impeccabili, le canzoni che hanno accompagnato la loro vita; da Mina a Rita Pavone, da Luigi Tenco a Francesco De Gregori, in ordine sparso, senza che il motivo che aleggia in Teatro corrisponda a quello dell’epoca che i due mattatori stanno rappresentando e danzando, fino ad arrivare al motivo che da’ il titolo alla rappresentazione, Il tango delle capinere, appunto, di Luciano Tajoli, ma con la voce di Nilla Pizzi. La non folgorazione di questo spettacolo dipende, unicamente, dalle aspettative con la quali abbiamo erroneamente caricato l’attesa della visione; siamo parzialmente giustificati, però, perché da Vita mia in poi, abbiamo freneticamente seguito la scia della fuoriclasse palermitana e soprattutto dopo Le sorelle Macaluso e Misericordia eravamo convinti che le sacche lacrimali avessero ancora parecchio da fare. Stavolta, invece, la poesia, la sensualità, la forza fisica, il linguaggio del corpo, la purezza delle nudità, con tutte le loro inevitabili, e non solo perché chimiche, imperfezioni, prendono il sopravvento, ma senza che il dolore, l’angoscia, il nichilismo e la sconfitta che perseguita le anime del sud di tutto il mondo ne giustifichino l’utilizzo. Stavolta si parla solo ed esclusivamente di Amore, della sua meravigliosa, inimitabile e intraducibile unicità, nonostante la storia somigli chissà quante altre storie, ognuna inconfessabilmente e gelosamente legata ai suoi ricordi, conservati con cura, perché no, in due bauli.
PISTOIA. I muscoli, per nulla intorpiditi, delle cosce e dei polpacci, tradiscono trascorsi ginnici di eccelsi livelli. L’orologio della vita e dei suoi irresistibili vizi tentacolari, anche. Oliver Dubois resta e resterà, senza probabilmente, uno dei migliori venticinque danzatori al Mondo, senza correre il rischio che qualche giovanotto lo faccia scendere da quell’Olimpo. Superata la soglia dei cinquanta, però, la vita, soprattutto per taluni mestieri, offre altre opportunità, diversi linguaggi, nuove comunicazioni. E non è quello che ha fatto lo sceneggiatore francese ieri sera al Funaro portando in scena My body of coming forth by day? Sì, ma almeno noi, esigua, quasi unica, testimonianza (sono usciti tutti estasiati, ringalluzziti, animati da un nuovo anelito esistenziale), non ne sentivamo alcun bisogno. Anzi. Abbiamo avuto l’impressione che la sua sistematica ricerca dissacratoria dei ricordi del suo corpo e delle gocce di sudore lasciate su centinaia di palcoscenici siano, ormai, l’unico modo per restare, ancora per un po’, sotto i riflettori, perché fuori da quel cono di luce, forse, non riesce proprio a starci. E visto che non ci sono più corpi di danza disposti a ironizzare, fino alla derisione, il suo passato, Olivier Dubois cerca complici tra il pubblico. Qualcuno si posiziona su una delle tre seggioline in fondo a destra perché obbligato da chi gli siede vicino; altri, la maggior parte, si lanciano a fionda nell’arena, perché hanno capito che in quella situazione ci sarà spazio, per quei famigerati cinque minuti, anche per la loro totale inabilità. Basta scegliere una delle buste esposte a ventaglio dal mattatore e nelle quali ci sono custodite e scritte alcune delle centinaia di performance, con musiche relative, delle sue esibizioni. Prima di ogni dimostrazione, un goccio di champagne, qualche tirata di sigaretta e una parziale svestizione: la scarpa destra, la sinistra, un calzino, la giacca, i pantaloni e anche i boxer, abbassati, sul tergo, fino agl’inguini, a natiche scoperte. Il pisello ha preferito non mostrarlo, ma senza sottrarsi alla necessità di posizionarlo al meglio. I movimenti, la tensione e gli sviluppi muscolari, sono quelli di chi ha danzato per una vita; molta ironia, parecchia drammaticità, ricordi affievoliti nell’intensità, non certo nella memoria, che li conserva gelosamente e che possono essere estratti e sguainati in un qualsiasi momento. Quattro, cinque, pillole della sua magnifica carriera artistica racchiusi in un cofanetto di poco più di un’ora e mezzo offerti in avari trailers raccontati in un francese sistematicamente sporcato da coloriture anglofone e traduzioni in italiano con accenti sbagliati. Sulle note di Frank Sinatra, Celine Dion, sui ritmi dei Massive Attack, su arie classiche e techno, Olivier Dubois rivive i suoi commoventi fasti offerti nei Saloni di tutto il Mondo approcciando sé stesso e le sue indelebili memorie rivisitando gli schemi delle sue performance e abbozzandone solo qualche passo. Il fisico non lo supporta più, ma lo aveva detto prima di esibirsi, scherzando con il pubblico al quale aveva chiesto rumorosa complicità, che lo spettacolo sarebbe stato, perché avrebbe voluto essere, una lode di ringraziamento alla danza e alla sua vita. Danzante. Costellata di ricordi, successi, applausi, sudore, sangue. E oblio. Prima dell’amplesso finale, in una tribù che sembrava non aspettare altro, nel sacrificio del toro ferito, sanguinante, esanime, accerchiato dagli indigeni suoi fedeli/spettatori, che lo hanno stretto in una morsa gioiosa, ma letale, lo ha ripetuto più volte: ho bisogno di voi. Anche noi, tutte le volte che andiamo a teatro, abbiamo bisogno di attori; a loro deleghiamo i suggerimenti di cui abbiamo vitale necessità, ma in una sacra, intimistica, comunione, gelosi destinatari di emozioni, che spartiamo, malvolentieri, anche con chi ci sedeva accanto.
PRATO. Irriverenti. Dissacranti. Ciniche e sadiche. Ma divertenti, molto divertenti e soprattutto, dolcissime. Al Fabbricone di Prato, dove sono state, in scena, fino a domenica scorsa, non torneranno più, ma i vostri bambini, quelli addomesticati alla violenza, alla cruenza, alle morti violente dai telegiornali, prima ancora che dai videogiochi, portateceli a vederle e spiegate loro che la vita, e la morte, possono essere un gioco, al quale, prima o poi, nessuno può sottrarsi. Loro sono il gruppo canadese Old Trout Puppet Workshop e il loro ultimo spettacolo, quello che fa macabramente il giro del mondo, si chiama Famous Puppet Death Scenes, burattini mutilati, con sguardi inquietanti, che muoiono sotto i colpi, irremovibili, di gratuite cattiverie, animati dietro le quinte, che sono le seste, ma anche davanti, cioè le quarte, dalle tre attrici (tre versioni, meravigliose, di Uma Thurman: la vera, la mora e l'asiatica) che a furia di immedesimarsi nei loro personaggi inanimati han finito per somigliargli, assumendo, anche loro, smorfie, deambulazioni e corpi clowneschi. Una mattanza di innocenti burattini che non hanno la minima intenzione di far ridere a crepapelle i loro spettatori, ma desiderano, riuscendoci perfettamente, a intimorirli, vista la loro lucida, agghiacciante, cattiveria, fino al punto che, onde evitare incubi, inizino a ridere, ma solo per paura. In Italia, per fortuna, stavolta, non arriviamo in ritardo; dalle nostre parti, con meno crudeltà, ma altrettanto cinismo, ci pensa Marta Cuscunà e i suoi manufatti, immersi addirittura in storie di noir poliziesco, a dare il senso del vero senso dei burattini. Restiamo al Fabbricone e al piccolo sipario nel bel mezzo del palco, sotto un orologio che segna perfettamente l’orario di inizio dello spettacolo, anche se sul quadrante, oltre alle lancette delle ore e dei minuti, ce n’è un’altra, che non riusciamo a collocare. Mentre la gente prende posizione in platea, alcuni motivi fanno da sottofondo musicale al posizionamento degli spettatori; canzoni di estrazione popolare slava, sound sconosciuti e quello scherzo, perfettamente orchestrato e splendidamente riuscito, escogitato da Adriano Celentano e la sua Prisencolinensineinciusos. Che relazione possa esserci tra quel brano italico, profondamente ironico e altamente patriottico, dell’autodidatta milanese e il Canada non riusciamo a comprenderlo; ma non è questa l’unica relazione che sfugge alla nostra intuizione. È lo spettacolo nel suo insieme a spiazzarci del tutto, regalandoci, comunque, del cattivissimo inaspettato piacere e non solo per non averlo capito. Si ride di gusto della totale mancanza di rispetto, della sorda ignoranza, della totale assenza di clemenza. I burattini costruiti sono destinati, come polli d’allevamento, a morire per il gusto di saziarci, senza voler dare la più pallida lezione di bontà, tra sparatorie, annegamenti, suicidi, tragici incidenti di caccia e improvvise apparizioni di cannibali mostri deformi, che arrivano in scena clandestinamente e fanno il loro porco dovere, proprio mentre un pugno gigantesco, che ricorda la sagoma stilizzata dei meravigliosi tempi di Lotta Continua, cade a piombo dall’alto schiacciando, inesorabilmente, quei poveri burattini, nati per i grandi, che per non aver paura, fanno meglio a farsi accompagnare dai più piccoli, che a certe scene, sono ormai abituati.
di Alagia Scardigli
PESCIA (PT). Si spengono le luci, inizia quello che sembra la copertina di Treasure, l'album dell'84 dei Cocteau Twins. Viola (Ambra Chiara Michelangeli) e violoncello (Laura Bisceglia) da una parte - il sogno -, la drammaturgia sonora a fianco, la sperimentazione. In mezzo, la visione. Paradiso XXXIII, di e con Elio Germano e Teho Teardo, al Teatro Pacini di Pescia, é uno spettacolo il cui solo testo dell'ultimo canto della Divina Commedia, recitato dalla voce anacronistica di Elio Germano, sarebbe potuto bastare per riempire la sala; ma lo spettacolo audio-visivo ha reso la visione dell'immensità un concerto new wave, in cui i tre cerchi diventano la leggendaria copertina di Blue Monday dei New Order. La scena descritta da Dante Alighieri, già di per sé onirica, diventa un'esperienza teatrale, musicale, cinematografica e strumentale, pienamente calata nella mente di un ragazzo del 1983, come è il nostro Elio Germano: la sola generazione che, sperimentata la fine della storia (anche quella della musica), può vivere l'approdo in Paradiso come un momento trascendentale simile a quello trasmesso dalla musica industrial, che, complementariamente, sembra la discesa agli Inferi. Quando il nostro Elio-Dante compie il suo viaggio celeste, sta in realtà entrando nell'iconica copertina di Aenima, l'album dei Tool del 1996. Le macchie bianche e nere, tipiche di chi è a metà tra il sonno e la veglia, che ci accompagnano per il viaggio, sembrano uscire direttamente dal cerchio bianco e nero di The Sky's gone out (Bauhaus, 1982). Insomma, per gli amanti del genere, un'esperienza da assaporare. Ma il bello di Dante è che, anche per chi non è un amante del genere, né ha idea di cosa noi si stia scrivendo, lo spettacolo merita comunque, perché il testo di Dante, interpretato da Elio Germano, sarà, qualsiasi sia il vostro gruppo preferito, musica per le vostre orecchie.
PISTOIA. E tutti uscirono felici e contenti: quelli per i quali il Teatro lo fanno solo Ronconi e i suoi seguaci; quelli che, seppur irrimediabilmente attratti dal passato, sostengono la necessità di rileggerlo, il trascorso; quelli che sono convinti che le parole valgano più del corpo; quelli che sostengono esattamente il contrario e quelli che, e sono la stragrande maggioranza degli spettatori, vanno a Teatro per consolidata abitudine, perché è un salotto nel quale si sentono a proprio agio e che, nonostante siano fruitori distratti, pigri e spesso non opportunamente informati e per nulla coinvolti, chiedono agli attori rappresentazioni in grado di catapultarli in un limbo surreale e sottrarli così dalla meschina fatica della routine quotidiana. E anche noi, che non apparteniamo, per censo, a nessuna delle categorie citate e che facciamo parte di quella ristrettissima schiera di privilegiati, ieri sera siamo usciti dal Teatro Manzoni di Pistoia felici e contenti. Felici e contenti di aver goduto, per l’ennesima volta, la vista, l’udito e l’incontrollabile ammirazione di Maria Paiato, un talento genuino, semplicemente mostruoso, della carovana attoriale italiana. Un’Attrice esemplare, cosmica, che non ha alcun bisogno di acclimatarsi: entra in scena ed è come se lo fosse da oltre mezz’ora, indifferentemente superlativa, che indossi abiti struggenti, comici, lancinanti, ironici, dolorosi, satirici, con una sintonia vocale/corporea al limite dell’irritazione, una Maschera del Teatro capace di essere al vertice recitativo tanto nell’interpretazione del Classici, quanto con i testi contemporanei. A Maria Paiato si può dare, come copione, il menù di un ristorante, non necessariamente stellato, anche di una modesta trattoria e ottenerne un’amalgamatissima decantazione. Non è un monologo, Boston Marriage, del drammaturgo americano Boston Mamet, che ha tanto divertito gli statunitensi alle soglie del Duemila e che Giorgio Sangati, grazie alla produzione del Centro Teatrale Bresciano e del Teatro Biondo di Palermo, ha portato in scena a Pistoia in esclusiva per la Toscana; accanto alla fuoriclasse rovigina - Anna, una lesbica sulla via del tramonto che ha trovato un marito insoddisfatto che ha deciso di mantenerla - in scena un’altra bellissima e consolidata realtà italiana, la piacentina Mariangela Granelli, Claire, la sua antica compagna, che accetta ufficiosamente l’invito di essere la seconda mantenuta ma solo perché vuole e deve confidarle una sua nuova passione. Con loro anche Ludovica D’Auria, una giovane cameriera, Catherine, figlia di una modesta famiglia contadina irlandese ed emigrata negli Stati Uniti in cerca di un’esistenza per lo meno urbana, se non metropolitana. L’intreccio delle realtà delle protagoniste è pieno di passione, divertimento, giochi sintattici e umorali, un affresco tridimensionale della filosofia femminile, in una casa di bambole che scomoda, perché vuole davvero scomodarlo, il testo di Ibsen, almeno da un punto di vista scenografico. Siamo usciti dal Teatro Manzoni felici e contenti, ieri sera (si replica oggi, domenica 7 gennaio, alle 16) non perché il testo abbia rinvigorito in noi la giusta necessità del mondo femminile di affrancarsi da quello maschile; non perché nella scrittura aleggi la necessità, vitale, dell’idea più nobile dell’Amore; non ne avevamo alcun bisogno: abbiamo le idee chiare, a proposito e non solo. È la bellezza e la potenza delle interpretazioni, la duttilità corporea su e nelle parole, la ritmicità musicale di una gestualità adorabilmente esasperata che si lascia schiaffeggiare, durante le erudite citazioni delle vecchie amanti, dall’elementare, indifesa e logica praticità, spesso colorita da innocenti volgarità, della giovane cameriera, alla quale sfuggono, perché vergine da infrastrutture, tutte le furbizie, contaminazioni ed espedienti adottate dalla sua padrona. Un triangolo femminile di Lesbo ed eterosessualità che diventa, al di là e oltre ogni (in)difendibile collocazione, un inno alla vita, alle sue eterne debolezze, ai suoi secolari piaceri, uno scrigno di incontaminata felicità tradotto dalla magistrale forza del Teatro.
di Mattia Vanni
PISTOIA. Inizialmente non eravamo così entusiasti, quasi scettici, forse, nei riguardi di una rivisitazione che toccava uno dei mostri sacri della drammaturgia francese, il testo di Edmond Rostand, e sicuramente i primi minuti dello spettacolo hanno rafforzato questa nostra tesi. Dettaglio voluto, il quale fa da netto contrasto con un cambio repentino di scena e di atmosfera, che introduce l'argomento principe di Cirano deve morire, in scena al Teatro Manzoni di Pistoia, prodotto da La Biennale di Venezia, da La Fabbrica dell’Attore, Teatro Vascello, Elledieffe e Fondazione Teatro della Toscana, con la direzione artistica di Antonio Latella: Rossana e il suo rancore, trasformato a piccoli passi nella voglia di andare avanti, come per dire che, alla fine dei giochi, era rimasta l'unica ancora in piedi. Questo elemento porta a un totale rimaneggiamento del copione, che diventa uno spettacolo a sé stante, solamente ispirato al precedente e in grado di raccontare una storia cruda, che arriva impetuosa e coinvolge lo spettatore, anche grazie all'ausilio del genere di denuncia e provocazione per eccellenza: il Rap. L'impronta teatrale degli attori (abbastanza evidente) arricchisce però i brani, che risultano una fusione tra il genere e la recitazione, creando quasi una parodia di quest'ultima atta a valorizzare il tema principale. Il pubblico è coinvolto, catapultato in un vortice di emozioni (letteralmente, grazie anche a un uso magistrale delle luci, di Simone De Angelis e Giuseppe Incurvati che sfondano il limite del palco e si riversano sulla platea) che non possono lasciarlo indifferente; la caratterizzazione psicologica dei personaggi -il bello e maledetto, il bamboccio da spiaggia, la donna indipendente - è marcata e indagata approfonditamente dalla bravura degli attori. Le scene (di Giuseppe Stellato) struggenti sono intervallate da un vero e proprio coinvolgimento degli spettatori, chiamati a mettersi in gioco on the track, diventando, momentaneamente, coprotagonisti. Il linguaggio utilizzato, crudo e senza veli, ha lati negativi e positivi. Degna di nota è sicuramente la bravura del Dj, figura nuova in un teatro, ma che in questa situazione si amalgama con l'atmosfera del palco e ne diventa parte integrante. Il confronto finale (un faccia a faccia tra l'autore Leonardo Manzan, gli attori Paola Giannini, Alessandro Bay Rossi, Giusto Cucchiarini e il pubblico) è stato molto utile a comprendere il lavoro che sta dietro allo spettacolo, e l'idea chiave che ne è fondamento: questo non è un sequel della storia, ma qualcosa di totalmente diverso. Scordatevi il Cyrano de Bergerac; Cirano deve morire.
di Adriana Casalegno
FIRENZE. Al tavolo ampio, scuro, i volti illuminati di Elio Germano e Teho Teardo; dietro, una luce blu; ai loro lati una fisarmonica e piccole campane sospese ad un filo; ai nostri lati il suono vivace dell'acqua dei torrenti. Al teatro La Pergola di Firenze (inutile segnalare le repliche; sono tutte esaurite) inizia Il sogno di una cosa, prodotto da Pierfrancesco Pisani per Infinito Teatro, Argot Produzioni, Teatro della Toscana, con il contributo della Regione Toscana, con la voce intima di Elio Germano e i gesti di Teho Teardo su tasti di consolle e computer che generano la rete dei suoni. In una versione di parole e musica, dalla platea del bel teatro fiorentino i palchi sono stati esclusi per una migliore resa acustica; seguiamo la storia di tre ragazzi che, nell'indigenza, nella miseria del secondo dopoguerra, decidono di emigrare spinti dal sogno di rivoluzione, dal desiderio di un mondo libero, luminoso, migliore. Lo vediamo quel sogno, quel confine all'orizzonte: la Jugoslavia. Ci arriva dai toni di Germano, dalle sue mani verso di noi. Ne abbiamo sentito l'attesa attraversando le sue parole che ripercorrevano la confusione di una festa; ne abbiamo sentito l'attesa attraversando i suoni acustici combinati con l'elettronica resi da Teardo nello spazio dentro e attorno a noi. Sì, il senso privilegiato è l'udito, il corpo in scena è quello dello spettatore. Un corpo che vibra, che cerca le sorgenti del suono, che, all'inizio, ė immerso nella festa, in un ritmo quasi orgiastico di un'antica danza. Un corpo che sentiremo nel fango, nei boschi lungo il pellegrinaggio, nella burocrazia degli slavi, nel sogno rimasto eco, nei suoni etnici della casa dei clandestini, nei gruppi dei manifestanti che occupano le ville dei signori, un corpo minacciato da camionette dell'esercito. Molte delle voci di allora, registrate, come indicava la ricerca degli anni '50, tornano a farsi ascoltare da noi, in un tempo di ieri e di oggi. Il cantastorie Germano racconta, mentre il corpo dello spettatore è inondato da suoni e dialoghi che arrivano da dodici casse poste attorno alla platea. Lo spettatore è messo alla prova circa la propria sensorialità. L'evento innesca sensazioni conflittuali e complesse: seguire la voce narrante e i dialoghi riportati, o i suoni pervasivi? Qui l'arte, nella sua ricerca composita, rende attraenti spazi di possibilità, offre emozioni conosciute e non. Già nel racconto di Pasolini, dalle prime pagine, sgorgano descrizioni di suoni, rumori di giovani, canzoni, bicchieri che vengono rotti, risate, fragore che si propaga nell'aria, parole ubriache di vecchi. Tutto si ode, persino il silenzio è fresco e sonoro, scrive l'autore. Ora i suoni vivono. Sono il labirinto onirico. Mentre seguiamo il duro e illegale viaggio verso la Jugoslavia, pensiamo al nostro presente capovolto, alla rotta balcanica. Pensiamo ai desideri legittimi di speranza di una vita migliore. Pensiamo anche al ripiegamento dovuto al proprio tornaconto e al desiderio che Pasolini vedeva già negato: il desiderio della rivoluzione, della resistenza.
PISTOIA. Il Teatro dell’Assurdo nacque per cercare di dare risposte a domande che nessuno si sarebbe mai immaginato che qualcuno e la Storia decidesse di porre. Il Teatro dell’Assurdo è stata una delle poche risposte plausibili che l’umanità è riuscita a darsi senza impazzire e trovando la forza e la voglia di continuare. La Storia, di quesiti surreali, inimmaginabili, devastanti, con risposte a volte improbabili, altre introvabili, ha continuato a darne, ma l’umanità, che pensava di aver superato l’ultima frontiera del baratro resistendo alla seconda guerra mondiale, non ha più saputo rispondere. E allora la vita, sotto forma di due anonimi visitatori, arriva nella locanda sul mare e presenta il conto; a tutti quelli che sono lì, capitati anche per caso. Certo, la vittima designata, preferita, sacrificale, un timoroso esempio per tutti gli altri, è Stanley (Alessandro Averone), un pianista che crede di sottrarsi alla logica quotidiana delle responsabilità, dei ricatti, dei doveri, degli inganni, del mercato, trovando rifugio nella modesta pensione, seppur segnalata sulle guide turistiche, gestita da Meg (Maddalena Crippa) e suo marito Petev (Fernando Maraghini). Ma un giorno arrivano le guardie, Goldberg e Mc Cann (Gianluigi Fogacci e Alessandro Sampaoli), dei cattivissimi Blues Brothers, per conto di Dio, probabilmente, e quel precarissimo equilibrio che tiene in piedi atmosfera, sopravvivenza e rapporti, esplode. In una festa, e ci mancherebbe altro, per Il Compleanno di colui che era convinto di essersi riuscito a sottrarre dalla lista di proscrizione e di essersi salvato in quella modesta pensione sulle rive del mare, dove poter ripudiare tutto e tutti, financo sé stesso, ma senza rinunciare alla colazione, la gioia, vera, di ogni albergo. Il testo ha più di sessant’anni, è di Harold Pinter, personaggio chiave della cultura del ventesimo secolo e il fedele, sin troppo, a nostro avviso, riadattamento teatrale è di Peter Stein. La collaudatissima coppia è sbarcata a Pistoia, al Teatro Manzoni, ricevendo una timida e forse giustificata accoglienza. Perché quella scrittura, che tanto scandalizzò e indignò il Regno Unito, per poi ricevere un consenso oceanico solo dopo aver sbarcato il lunario delle diffidenze e diventare, addirittura, uno dei manifesti più importanti accanto alle intuizioni premonitrici di Samuel Beckett e Franz Kafka, avrebbe bisogno di un tagliando di revisione. È vero, la volontà di cenni tragicomici traspare, ma non pesa quanto dovrebbe e il pubblico, in sala, aspetta trepidante, ma inutilmente, che una battuta, un nonsenso, tipicamente inglesi, tra l’altro, interrompa il filo nichilista che sorregge l’intero impianto. Maddalena Crippa è sempre toppo austera e non riesce a scendere mai dal piedistallo – cosa che non ha mai fatto, del resto, ma nel tempo pensavamo si fosse alleggerita un po’ -; anche Fernando Maraghini subisce troppo passivamente tutte le disattenzioni della moglie e nonostante l’unica cosa che importi è che l’azienda di famiglia resti in piedi e che lui possa continuare a sopravvivere fingendo di non sapere, beh, qualche risentimento potrebbe pur lasciarlo trasparire; la coppia della Gestapo è forse quella che non ha compiti collaterali e che i cinici, gli avidi, i cattivi, insomma, riescano a farli alla perfezione. Anche Lulu (Emilia Scatigno) potrebbe destare con maggior complicità il vecchio porco che alberga nell’anziano profanatore e reagire con maggior energia, sdegno e disgusto all’indomani di un abuso perpetrato tutta la notte e favorito da un’energica mescita di alcool. La fedeltà alla linea, invece, ha tenuto tutto e tutti sotto controllo, pubblico compreso, che avrà pensato che quelle questioni, quelle surrealtà, quelle dinamiche appartengano a un’epoca passata, dimenticata, ignorando, invece, che il tentativo di normalizzazione è nuovamente in atto e che questa generazione di viventi non sembra in grado di intercettare.
PRATO. Ha perso, parecchi, chili e ha deciso di lasciarsi allungare, molto, i capelli. Il resto, è tutto come prima, ossia una meravigliosa macchina da guerra enigmistica, che Alessandro Bergonzoni continua a caricare, non proprio a salve, per fare fuoco nei suoi imperdibili spettacoli. Sì, è vero, prima recitava a braccio, o almeno, memorizzava tutto; ora, ha bisogno di sfogliare gli appunti, a(b)braccio, ma resta, comunque, un inimitabile genio assoluto. Al Metastasio di Prato è successa la solita identica cosa; parte da un punto qualsiasi e plana, con metodica nevrosi, incalzante sinonimia, a velocità supersonica, senza concedere spesso allo spettatore il tempo di capire e sorridere all’ennesima irridente battuta (che nemmeno i tennisti, sovente, riescono a cogliere), dove desidera, ossia l’immarciscibile attaccamento alla pace come minaccia vera e propria dell’industria di guerra, costellata di attenzioni verso gli ultimi, gli emarginati, i dimenticati. Anche questo show, come tutti quelli che ha allestito in quarant’anni di rappresentazioni, che non ha titolo, ma che potrebbe averne qualsiasi, è un altro, seppur riassunto di molti di quelli fin qui portati in scena, straordinario comizio contro tutti i luoghi comuni, a cominciare dalla guerra, che tra i luoghi comuni è forse quello che ci accomuna con paradossale facilità, per lambire una serie di fatali, idiote, legiferanti banalità. Con quel linguaggio, con quel linguaggio del corpo e un’irrazionale razionalità che si materializza e si rende inevitabile solo dopo che l’ha proferita. Un’escursione costante tra i meandri consonantistici, vocali e sillabici della lingua italiana, un inserto fisso della rivista settimanale di enigmistica per antonomasia, tra le parole crociate senza schema di pagina 46 e i due rebus rompicapo della successiva, prima delle ultime tre pagine, che sono, in ordine, le soluzioni potabili della rivista stessa e quelle dei giochi più complicati del numero precedente. Un genio della parola, delle sue trasformazioni, uno sciaradista incallito, un inventore di parabole, una mitragliatrice di ultimissima generazione che riesce a uccidere, di risate, senza concedere il tempo, alla sua vittima spettatrice, di capire, percepire e avvertire l’entrata del bossolo nella pelle. Nel suo fiume di agganci, riferimenti, arrocchi letterali, siamo oltremodo convinti che, sovente, alcune paradossali, meravigliose, intuizioni sfuggano anche a lui, autore divertente e divertito delle sue illazioni linguistiche che non si può permettere il lusso, per ovvietà scenografiche, di divertirsi insieme al suo pubblico. Questo spettacolo innominato è la summa di una serie fantasmagorica di esibizioni dalle quali ha attinto, travasato e riassunto, alcune delle sue gemme, che ricordiamo con lucido divertimento, come pietre miliari de Le balene restino sedute, Predisporsi al micidiale, Nel, Urge, Trascendi e sali e altri spettacoli nei quali scenografia e canovaccio sono sempre stati gli stessi: lui nel suo ricchissimo nulla. Per queste quattro serate al Metastasio di Prato, però, con la benedizione di Emergency, il pirotecnico autore bolognese ha voluto farsi accompagnare, al termine dello straripante rosario apocrifo e pseudoblasfemo (la battuta su poco dio e poca madonna ricorda, da vicinissimo, quella di Roberto Benigni in Berlinguer ti voglio bene, quando pensa alla destinazione ultraterrena della mamma morta: inferno, purgatorio, paradiso; 1, X, 2), da quattro personaggi (uno per serata). Giovedì, per l’esordio, all’altro lato della lunga tavolata coperta da una tovaglia rossa, si è seduto il politico e sociologo Luigi Manconi; stasera, sabato, sarà la volta di Edoardo Camurri, scrittore e conduttore televisivo, mentre domenica, la quarta e ultima serata vedrà la partecipazione, nel breve dibattito che succede allo spettacolo, della collega critica teatrale Sara Chiappori. Ognuno di loro darà il proprio contributo alla causa dell’arte, in ogni suo aspetto, in tutte le sue possibili sfaccettature. A noi, fortunati (perché accreditati, dunque non paganti) spettatori del venerdì, è toccata in dote la collega critica d’arte Manuela Gandini, che oltre a qualche forbita informazione ha anche tessuto le lodi dell’artista serba Marina Abramovic (che vive a New York, naturalmente), una delle tante eredi di Andy Warhol, il capostipite dei trapper. Non sappiamo su cosa verteranno le chiacchierate che Alessandro Bergonzoni tesserà, stasera e domani, rispettivamente, con Edoardo Camurri e Sara Chiappori e lungi da noi malaugurarvi nulla, ma se voleste evitare l’eventuale inconveniente che abbiamo sofferto noi ascoltando Manuela Gandini, vi suggeriamo, a fine devastante monologo, di abbandonare il teatro: il prezzo del biglietto è già abbondantemente giustificato.
PISTOIA. Non sapevamo che Castrovillari, comune del cosentino, vantasse tanti emigrati in Toscana. E ancor più ignoravamo che molti di loro fossero attratti dal teatro. Non può essere che così, visto e considerato che ieri sera, al Funaro di Pistoia, ad assistere a Via del Popolo, un’altra narrazione, stavolta autobiografica, di Saverio La Ruina, tra il pubblico ci fossero così tanti calabresi, anzi, castrovillaresi. Non è insolito, anzi, è abitudine, che al termine delle rappresentazioni teatrali parte del pubblico aspetti, all’uscita, i protagonisti. Al Funaro di Pistoia, poi, è quasi inevitabile, visto che dai camerini si passa direttamente al foyer dell’associazione, una specie di patio interno alla struttura. Ma ieri sera, ad aspettare il monologhista calabrese e la sua naturale grazia non c’erano gli spettatori degli autografi o quelli dei complimenti, bravissimo, spettacolo delicato: mi sono commosso, mi creda; c’era tutta gente di Castrovillari, che si è ritrovata piacevolmente invischiata nei suoi ricordi, quelli di un Comune risucchiato e risputato dal tempo in un tempo passato, indimenticato, ma avvilito. È il destino che accomuna il tempo nelle sue trasformazioni, che cambia i negozi, gli inquilini, i condomini, le usanze, i riti, le dinamiche sociali, cambiamenti epocali che i libri di storia non possono contemplare dettagliatamente, soprattutto sapendo, gli storici, che a fissare indelebilmente nel tempo i momenti salienti delle singole generazioni ci penserà il Teatro. Saverio La Ruina, della narrazione della sua gente, della sua terra e delle sue dinamiche ne ha fatto il suo teatro, alternando pagine di pura emozione/commozione ad altre di denuncia, sempre con la solita, meravigliosa, flemma artistica, quella che conviene alle favole per i più piccoli. La scenografia di Via del Popolo, ideato e scritto dal quattro volte Premio Ubu e prodotto da Scena Verticale, una sua cocreazione, è esemplarmente minimale: un mastodontico orologio di daliana memoria che campeggia il proscenio e una serie di lumini in terra, che sono le lapidi del cimitero di Castrovillari, dove Saverio e il suo amico incontrano quelli che del loro paese hanno fatto la storia. Sono tutti morti, naturalmente, ma nella rappresentazione vengono resuscitati per dare vita, energia e bellezza ai ricordi del protagonista. Via del Popolo non è solo il corso principale di Castrovillari, dove ci sono i negozi più illuminati, attrazione fatale per la popolazione residente; è anche la via della memoria, di uno scorcio generazionale che da lì è partito alla volta della conquista del mondo personale, ma che lì, prima o poi, è necessario che torni, non foss’altro per vedere come sia cambiato, non foss’altro per raccontare, a chi non c’era, come fosse. L’interlocutore privilegiato è suo padre, in punto di morte; la famiglia, inossidabile, indistruttibile, granitica, è la macchina che gira intorno al vecchio che ha saputo costruire, con fermezza, tenacia e abnegazione, il futuro ai suoi figli, che non certo per irriconoscenza, ma inesorabilmente, sono andati a diventare uomini e donne altrove. Portandosi però, dietro e dentro, l’aria pungente di quella montagna che divideva in due le sorti e i destini della sua gente; di qua e di là dal versante del Pollino c’erano due mondi che, seppur paralleli, finivano per ignorarsi. Il Pollino è ancora lì, ma l’evoluzione tecnologica ha spianato quell’altura e tutte quelle ancor più forti e austere del mondo, dando l’impressione, e non solo ai castrovillaresi, che ognuno di noi sia, contemporaneamente, dov’è e dove vorrebbe essere. E invece è opportuno continuare a fare i conti con il Tempo, dando a ognuno dei protagonisti del passato il suo peso specifico, nel bene e nel male. È così che si riescono a tenere in piedi i fili della storia, casomai facendo la barba al vecchio padre morente con il rasoio cinque lame, anziché con il suo bic monolama. Una pagina di tenerezza, nella quale il protagonista, gli spettatori conterranei e quelli che hanno vissuto e sono cresciuti altrove, possano ritrovare e ritrovarsi negli aneddoti della loro infanzia, che somigliano, incredibilmente, a quelli che Saverio La Ruina continua a raccontare, con l’invito, esplicito ma inascoltato, a non correre verso il tempo, ma a trascorrerlo.
FIRENZE. La consecutio temporum di Ascanio Celestini – e non ci riferiamo alla regola, ferrea, dei congiuntivi e dei condizionali, ma a quella dei suoi tempi teatrali – è qualcosa di stupefacente. Certe volte è addirittura difficile seguirlo senza perdere, nei passaggi e nelle concatenazioni che sfodera a distanze siderali l’un dall’altra, il senso e la trama; immaginiamo cosa possa voler dire memorizzare l’intero intreccio semantico senza mai perdere il filo con l’apparente distacco che contraddistingue quasi tutti i suoi comizi. Quasi, perché non sono tutti così politicamente feroci come lo è, insindacabilmente, Rumba, in scena al Puccini di Firenze. Il viaggio, stavolta, dopo quello fatto in compagnia di Pier Paolo Pasolini, decide di immaginarlo con san Francesco (la s minuscola è la santa accezione laica) e una sua reincarnazione a otto secoli di distanza. Una santità, quella del predicatore umbro scalzo, che si presta a concussioni politiche anche senza volerlo; figuriamoci cosa se ne può tirar fuori quando a rileggerlo e volerlo resuscitare è Ascanio Celestini: una vera e propria istigazione a rivoluzionare, più che a delinquere, con qualche eccesso che il suo pubblico, presente, massiccio, solidale, è puntualmente disposto a perdonargli. La trasposizione storica, sociale e teatrale, in questa circostanza, è davvero mirabile; si parte da una semplice, banale, disquisizione astrologica: Quante sono le stelle nel cielo? Così tante che non si possono contare. Quante sono le stelle nel cielo? Comincia a contarle. Una, due, tre. Arrivi a cento, centocinquanta. Poi perdi il conto. Non si possono contare perché sono tante e stanno tutte sparpagliate. Anche in basso, però, sulla Terra, ce ne sono moltissime e anche quaggiù non è facilissimo contarle, ma con loro si può interagire e aiutarle a essere meno opache. Così ha fatto san Francesco della propria esistenza e così ha sempre fatto Celestini con le sue opere, un narratore di teatro che non riesce, perché non sa e non vuole, distinguere il dilettevole dall’utile. Anche con Rumba succede la stessa identica cosa, su un palco spoglio da ogni orpello se non da pochi dettagli: una sedia, un piccolo fondale di immagini dipinte da Franco Biagioni rievocanti le gesta del santo e per la presenza, da complice musicista, di Gianluca Casadei, al piano e alla fisarmonica e dalla voce registrata di Agata Celestini. E la sua voce, pseudonasale, senza alcuna variazione di tonalità, come se leggesse un menù di una trattoria fuoriporta, che offre gli stessi identici piatti ormai da una vita. La parte della ghigliottina, che quando viene liberata dalle funi che la tengono sospesa come spada di Damocle cade velocemente verso terra tranciando di netto tutto ciò che trova, teste comprese, naturalmente, la fanno le parole, usate con lucida sentenza, ma senza venir mai appesantite o edulcorate da variazioni del diaframma o particolari gestualità corporee. Nelle sue condanne, senza appelli, trovano albergo tutte le contraddizioni che caratterizzano la società contemporanea a cavallo tra il secondo e il terzo millennio, quelle che esaltano l’intero Occidente – come scriverebbe Rémi De Vos -. Ma vengono snocciolate con un impressionante rigore temporale, intervallato da lunghissime parentesi che sembrano non avere mai alcuna relazione con il tema della rappresentazione. E invece. E invece Giobbe, il magazziniere analfabeta, Joseph, il trasportatore nord africano, lo zingaro adolescente che fuma al bar invece di andare a scuola come tutti i suoi coetanei, la puttana che è riuscita a ricomprarsi la propria libertà, il figlio malato di sclerosi che è il migliore della classe ma che procede come se la sua vita fosse a rallentatore, sono tutti a servizio della sua causa teatrale, che è, inesorabilmente, causa civile, politica, storica. La richiesta di soccorso a Pasolini non si fa attendere nemmeno in questa circostanza; lo fa a Greccio, il piccolissimo comune dell’alto reatino, alle porte con l’Umbria, dove nel 1223, esattamente otto secoli fa, San Francesco (stavolta la S non può non essere maiuscola) istituì il primo presepe, senza maddona, giuseppe e bambin gesù, ma solo con una mangiatoia, un bue e un asinello, quell’uomo che in tempo di guerre sante e dunque giuste provò a parlare con i contendenti chiedendo loro di evitare il ricorso alle armi e alle contese, di fare un passo indietro e dove Ascanio Celestini, commissionato proprio dal Comitato Nazionale del piccolo borgo laziale, ha svolto uno studio parecchio meticoloso sulle origini, povere, di quel borgo divenuto, nei secoli, simbolo, ignorato perché fastidioso, di vita francescana, titolandolo poi, come se fosse una cantilena adolescenziale, Rumba. Due ore abbondanti di nomi, date, parentele, denunce, satire, fantasmagoriche, trasposizioni temporali, agghiaccianti considerazioni, specifiche accuse politiche, con qualche discutibile assoluzione e qualche perdonabile scivolone demagogico, ma in un involucro teatrale di assoluta, rara, efficacia.
FIRENZE. Le cose, forse, non stanno proprio così. Ma pensandoci bene, molto peggio, probabilmente. Certo, le catastrofiche previsioni di Rémi De Vos hanno una data ben precisa, il Duemila, come se si trattasse delle Colonne d’Ercole, e un Paese, la Francia, culla di storie problematiche molto più profonde e ancorate di quelle che non riusciamo a superare noi. Ma il disagio resta transnazionale e allora, Occidente, in prima nazionale al Teatro di Rifredi fino a domenica prossima, 19 novembre, è veramente lo specchio, tragicomicamente fedele, della nostra società, fotografata all’interno di un anonimissimo microcosmo familiare, dove una moglie (Leonarda Saffi) e suo marito (Ciro Masella), cercano in tutti i modi di annientarsi reciprocamente, facendosi teneramente del male. Rappresentano un matrimonio nato sotto i peggiori auspici e che è riuscito a trascinarsi fin dove l’autore ha deciso di passarlo sotto i raggi ics per spogliarlo da ogni finzione e metterlo a pubblico e interiore ludibrio. Non è una coppia qualsiasi quella che Angelo Savelli, traduttore e regista dell’idea transalpinica, manda in scena; al di là del nichilismo personale dei singoli coniugi, sullo sfondo incombe un cambiamento che l’Occidente non riesce a gestire e che diventa il pretesto attorno al quale poter costruire ogni alibi che possa giustificare l’inesistenza di qualsiasi elemento affettivo e autorizzare, entrambi, a sputare fuoco, sentenze, veleni e offese nei confronti del partner. Il quadro, tetramente allegorico della scrittura, prende forma nelle interpretazioni di quel passepartout teatrale che risponde al nome di Ciro Masella, che tra le moltitudini di personaggi ha anche vestito i panni di un'altra rappresentazione di De Vos, in Alpen Stock e al candore isterico di Leonarda Saffi, una delle elette della rigorosa scuola di Emma Dante, abituata a trasformare il dolore in umoristica energia. Che arrivano in scena con uno sfondo sul quale scorrono velocemente gli anni; sono quelli che segnano i primi inganni storici della vecchia contesa Occidente/Oriente. Il tempo passa con inesorabile fretta, ma si arresta improvvisamente al cospetto della famiglia come vorremmo continuare a non immaginarcela, quella che ormai procede a stento verso il nulla, alimentando il proprio fuoco solo con l’acredine che accende la coppia, disintegrata dalla violenta volgarità del marito e dalla totale disillusione della moglie, subissata, ogni sera, dalle gratuite e laceranti offese del consorte che rincasa, puntualmente, ubriaco. Gli sketch, dal sapore televisivo, si susseguono con piccolissimi intervalli nei quali, sul palco, rotea un enorme telone sul quale gira una giostra, che qualche volta fa da sfondo obliquo, altre, da muro divisorio. In scena, la bistrattata casalinga alle prese con il ferro da stiro che può confidare in un’unica compagnia: la televisione accesa che trasmette programmi vuoti ricchi di risse, scandali, gossip della peggior dinastia e suo marito, che rientra barcollante nell’appartamento dopo aver trascorso le serate a bere nei peggiori locali in compagnia dell’amico Mohamed. Tra una puttana e ce l’hai piccolo si alimentano le misere conversazioni dei coniugi, che non riescono a nascondere, nemmeno più a loro stessi, il nulla che ormai si è impadronito dei loro destini matrimoniali. Sullo sfondo, come pesantissima aggravante, la società che cambia ritmi e costumi, le invasioni extracomunitarie, i duelli notturni per la sopravvivenza dei reietti, immagini pasoliniane che acuiscono l’inconsistenza affettiva della coppia, che però può far tesoro della propria trivialità lasciandosi assoldare e vivisezionare da una diretta televisiva di uno dei canali di maggior ascolto, nel quale Leonarda e Ciro, pugliesi doc, animano una scenetta in puro dialetto di ilare tragicità. Un Occidente inesorabile, dove la noia si uccide con l’alcool e dove si aspetta, seduti davanti alla tivvù, l’incalzare della notte; un Occidente triviale, dove le volgarità proferite vorrebbero sostituire l’impotenza anatomica; un Occidente che non riesce più a parlare e che ha deciso di sollevare il verbo dalle sue funzioni in favore di una violenza che non ha più bisogno di sintassi; un Occidente dove tramonta naturalmente il sole senza però riuscire a dargli la forza per circumnavigare la terra e decidere di sorgere ancora.
FIRENZE. L’enorme occhio che pulsa, sbatte le palpebre, che è vivo e vigile e che anticipa e chiude il sipario della Pergola a Firenze è quello di un dio che si è fatto uomo e che è lì, mastodontico, ma agilissimo, a scrutare ogni spettatore, un grande fratello, di quelli che popolano, avaramente, ma avidamente, il teatro e non di quelli che ingolfano, inutilmente, le televisioni. Che non può, comunque, non riconoscersi, in parte o in toto, in Zeno Cosini e nella sua gravità esistenziale, nei suoi falsi, fermi, laconici giuramenti, quelli che gli fanno sentenziare che quella che si sta accendendo sarà, inderogabilmente e falsamente, la sua ultima sigaretta. È tempo di bilanci, per il vecchio, malconcio, Zeno; sul palcoscenico, accanto a lui, anzi, dietro, come retrospettiva mnemonica, la gente che ha popolato la sua esistenza: la madre, il padre, la moglie, le cognate, il cognato, la sua vita, trascinata tra paure remote e aspirazioni tradite, in un incalzare ipocondriaco che ha segnato la letteratura e la società dell’intero Novecento. Il capolavoro di Italo Svevo aspetta solo di essere fatto a brandelli, dopo un’infinità di fedeli, superbe, trasposizioni teatrali. L’occasione è ghiotta; chi meglio di un vecchio e malconcio Alessandro Haber può incarnare i bilanci di una vita enigmatica e giunta, nonostante tutto, serenamente al capolinea come quella di Zeno Cosini? Pochi, onestamente e per questo, vista la presenza in scena del suo alter ego giovanile (Alberto Onofrietti), Paolo Valerio, il regista, si sarebbe potuto/dovuto permettere il lusso di sporcarsi ben bene le mani, su questo capolavoro e permettersi la licenza di tradire, con garbo, ci mancherebbe altro, ma con coraggio, l’autore. E invece, la delega allo straordinario è stata affidata a (Monica Codena e Maria Crisolini Lalatesta) una sontuosa scenografia e a retaggi pittorici, puntualmente intervenuti ogni qualvolta la rappresentazione ha corso il rischio di lasciarsi travolgere dalla stanchezza o dalla dizione, storicamente confusamente affabulatoria, del 76enne attore bolognese. Tutto il resto, compresi gli applausi, virtuali, a scena aperta che sono stati tributati ad Haber per il suo naturale camaleontismo psichiatrico e quelli ai quali il pubblico ha dovuto rinunciare per il resto dell’intera compagnia, compressa a ingiustificati singoli ruoli da comprimari, è stata una fedelissima, inalterata e inalterabile lettura del testo, nel prologo e nell’epilogo, con qualche divagazione estemporanea sui conflitti e sugli ordigni, che non hanno comunque mai dirazzato dal corso naturale della sua introversione psicanalitica dell’originale scrittura di Italo Svevo. Le famigerate ultime sigarette, i complessi edipici, la conflittualità con il padre, la ricerca, spasmodica, di una donna, che si riduce a inevitabile compresenza affettiva di facciata, terza e ultima scelta di un ventaglio femminile spudoratamente usato come proposta commerciali a sconto, i sistematici tradimenti, supposti e immaginati, con qualsiasi altra donna inevitabilmente più attraente della moglie, sono stati soltanto passati in rassegna con la stessa elegante disinvoltura temporalistica che ne fece, l’autore, un secolo fa, senza mai premere il piede sull’acceleratore, senza mai tirare il freno a mano. In questi cento anni, i rapporti introspettivi e quelli interagenti umani, che non sono cambiati di un atomo, beninteso, hanno però subìto/goduto evoluzioni involutive davvero importanti, che a teatro si sarebbero potute evidenziare, esaltando, come summa, la solita, medesima, inadeguatezza del protagonista, come quella di buona parte del genere umano, sofferente del male di vivere e incapace di cogliere l’essenza della felicità nell’esatto momento della sua consumazione, ma solo a posteriori, quando ognuno di noi aziona la leva, salvifica, della memoria, dei ricordi, delle nostalgie, consentendoci e obbligandoci a guardare, con affetto commiserevole, la nostra vbecchia consorte, nell'esatto preciso momento in cui ci accendiamo un'altra sigaretta, giurando e giurandoci, che sarà l'ultima.
PISTOIA. Essere socialisti in Germania, nella Germania che si lasciò cullare dal nazismo, era un’operazione identitaria quasi impossibile. Ma nonostante L’eccezione e la regola sia vicino a compiere cento anni, la morale di quella piccola e semplice parabola del drammaturgo Bertolt Brecht è ancora tristemente attuale; anzi, si è andata rafforzando, perché il fossato che divide il povero dal ricco si è ulteriormente allargato, con la funerea aggravante che le scosse telluriche divisorie non siano ancora finite. Rappresentarlo, dunque, oltre che teatralmente importante, diventa socialmente doveroso. E per questo, a Renata Palminiello, regista dell’omonima rappresentazione prodotta dall’Atp con il sostegno di Armunia, e alla sua fedele collaboratrice, Sena Lippi, andata in scena ieri al Funaro di Pistoia (si replica venerdì 17 novembre), rivolgiamo i nostri sentiti ringraziamenti, soprattutto in vista delle repliche mattutine (ore 10,15) che la rappresentazione effettuerà fino al prossimo 22 novembre per le scuole della città e della provincia di Pistoia. Così come ci congratuliamo con Maria Bacci Pasello, voce narrante, vocalista e moglie, in stato interessante, del portatore della disperata, tragica spedizione mongola; con Stefano Donzelli, guida troppo umana di questa corsa all’oro nero; con Marcella Faraci, infaticabile e onestissimo portatore, incapace di odiare, dunque di ribellarsi; con Mariano Nieddu (lo ricordiamo sontuoso ballerino), colonna sonora a percussione, frontaliere e giudice tribunalizio e con Jacopo Trebbi, odioso, cinico, sadico e violento mercante preoccupato solo di arrivare primo all’appuntamento con il giacimento, per la complessiva prova attoriale. Il problema, solo nostro, beninteso (il pubblico di quell’angolo meraviglioso di cultura che è il Funaro ha calorosamente applaudito lo spettacolo), è che l’avidità, il dolore, la rassegnazione e l’ingiustizia che trasudano dal testo non ci abbiano indignato come avrebbero dovuto. In platea avremmo voluto essere partigiani feroci della causa degli oppressi, avvocati infuocati e indignati dalla sentenza/farsa in tribunale, ma non ci siamo riusciti. Dipenderà solo da noi, probabilmente; siamo infatti convintissimi che il giovane pubblico degli Istituti secondari della città e delle sue propaggini che assisteranno allo spettacolo trarranno, dalla visione, prima di ogni altra cosa un importantissimo messaggio storico, sociale, politico. Questo potrebbe essere ulteriormente favorito dalla lettura del testo originale (ovviamente tradotto) che i professori che li accompagneranno farebbero bene a suggerire ai loro studenti; arrivare ad assistere a una rappresentazione teatrale conoscendo, almeno a grandi linee, il testo al quale si ispira, è buona norma, e non solo per chi siede ancora tra i banchi. Per quello che riguarda le emozioni, invece, non sappiamo fare alcuna previsione e non ci permettiamo il sadico lusso di immaginare che succeda quello che è capitato a noi. Anche se il marciare militare e ginnico con il quale si apre la scena, sia fonte, lusinghiera, di tanti buoni propositi, il resto della tensione nella visione stenta a mantenere il ritmo dell’esordio, per perdersi tra la finta ferocia del mercante, la non solidale lungimiranza della guida e la commovente inerzia del portatore, fino al processo, che non offre la dovuta drammaticità, senza alcuna ilare compensazione.
PISTOIA. Anche un testo tanto ricco e impegnativo come quello di Stephen King passa, elegantemente, in cavalleria, oltre ogni più lucida e ricercata interpretazione; anche l’inconfutabile bravura di Aldo Ottobrino, che nei panni, malconci, terrorizzati e increduli dello scrittore Paul Sheldon, trova la forza e il coraggio di sopravvivere alle cure, psicopatiche, della sua acerrima prima ammiratrice, Annie Wilkes. E anche il capolavoro cinematografico, Misery non deve morire, che William Goldman volle mandare sul grande schermo confidando in James Caan e Kathy Bates, rischia, seriamente, di essere dimenticato. Anzi, interamente assorbito da Arianna Scommegna, un vero e proprio evento atmosferico teatrale, incruento, certo, ma comunque dolorosissimo, assai, forse, ancor più maestoso delle piogge che battono morte, disperazione, vendetta e cassa sulle campagne non più accudite dalla cura umana, ma sopraffatte da quella avida dell’edilizia e dell’ortovivaismo, che collegano le province di Pistoia, Prato e Firenze. Cerchiamo di restare a Teatro, usato con l’iniziale maiuscola perché, ribadiamo, Arianna Scommegna incarna, esemplarmente, molto di quello che a Teatro si può e si deve chiedere e vedere, molto di quello che si può esigere per esserne esauditi. Un talento, quello dell’attrice milanese che sabato prossimo (11 novembre) festeggerà cinquant’anni, messo nelle condizioni ideali (ma ne esistono di poco inclini al suo camaleontismo?) da un testo, curato nella regia da Filippo Dini, dove chi più ne ha, più ne metta. E lei, in queste condizioni, teme, davvero, poche rivali. Perché se riesce a incarnare, minuziosamente, la devozione, quasi religiosa, della pia donna, per poi spogliarsi e vestire, con estrema disinvoltura, gli abiti di una sgualdrina, nei panni di una psicolabile supera, davvero, il muro del suono. Ma restiamo in platea, quella del Teatro Manzoni di Pistoia, dove ieri sera e oggi, domenica 5 novembre, alle 16, nell’augurio che il maltempo dia tregua e che il tetto dell’edificio di corso Gramsci si asciughi e non richieda, inderogabilmente, un urgente intervento di manutenzione, va in scena Misery, uno spettacolo di spettacolo nello spettacolo. Al testo, geniale, di Stephen King, risponde, nello specifico, oltre alla sconfinata bravura della protagonista, messa nelle condizioni ideali da Filippo Dini che le ha voluto cucire intorno lo scrittore impaurito e resiliente e il caparbio sceriffo Carlo Orlando (che assiste Dini in regia), il sottotesto filosofico dell’immortalità delle opere d’arte e lo sciagurato protagonismo dei suoi autori e una scenografia (Laura Benzi) che accresce, con esasperante tensione, l’intera architettura della rappresentazione. La casa roteante, in aperta campagna, lontana da qualsiasi voce, amica e indiscreta, coperta dalla solitudine della protagonista, che ha finito per sopravvivere e vivere grazie soltanto alle parole dei libri scritti dal suo autore preferito e del quale ne rivendica, tanto morbosamente, quanto perfettamente e spaventosamente, il ruolo di prima, indiscussa, pedissequa seguace, sono un corollario, straordinario, alla crescente deformazione dei sentimenti di Annie Wilkes, attorno alla cui deformazione culturale, seppur minata da una claudicante immaginazione esistenziale, si potrebbero aprire innumerevoli scenari didattici e apocalittici studi psichiatrici. Resta, senza rischiare voli di improba destinazione che potrebbero condurci in zone nelle quali non sapremmo muoverci con la dovuta, indispensabile, familiarità, incancellabile, l’ennesima straordinaria prova sul palcoscenico di un’attrice che continua a mietere indiscutibili oceanici successi figli di maestose esibizioni con la grazia, meravigliosa, di chi sembra chiedere, costantemente, permesso in un mondo che potrebbe e dovrebbe eleggerla tra le predestinate.
FIRENZE. Il rischio di svelare attorno a cosa ruoti il paradossale gioco al massacro tra la vittima (Francesco Montanari) e il carnefice (Lino Guanciale) è oggettivamente altissimo. Perché sin da subito è chiaro che se L’uomo più crudele del mondo fosse Paul Veres, irritante, spocchioso, onnipotente proprietario di una delle aziende più forti d’armi d’Europa, il ruolo del giornalista, sfruttato e dunque malpagato collaboratore di un quotidiano di provincia, convocato proprio dal magnate di guerra per farsi intervistare in esclusiva, sarebbe oltremodo succedaneo, marginale, irrilevante. Al posto der libanese, tanto per intenderci, Davide Sacco, scrittore e regista del thriller prodotto dalla Fondazione Teatro di Napoli, Teatro Bellini e Teatro Manini di Narni in scena, fino a domenica 5 novembre, alla Pergola di Firenze, avrebbe potuto chiamare sul palco uno di noi tanti illusi aspiranti redattori e ottenere, probabilmente, un successo comunque confortante. Ma non è l’intervista l’oggetto del contendere. Dietro un colloquio decisamente insolito tra il giornalista e l’intervistato che dovrebbe semplicemente spiegare e giustificare come si senta un uomo a diventare ricco in modo spropositato vendendo materiale che servirà unicamente per massacrare uomini, donne e soprattutto bambini e vecchi, cosa voglia dire, per lui, insomma, sapere di essere L’uomo più crudele del mondo, c’è, inderogabilmente, altro, che sfugge a chiunque, anche allo spettatore più attento e che si svelerà in tutta la sua macabra crudeltà solo all’ultima battuta della rappresentazione, una confessione che consentirà di ripercorrere, a tragica velocità supersonica, tutte le insinuazioni che l’imprenditore bellico fa al suo addetto alle confessioni. Perché l’intervista, che consentirebbe al ricco imprenditore senza scrupoli di provare a umanizzarsi e all’anonimo giornalista di diventare finalmente famoso, prende subito una piega altamente inaspettata; non sarà una confessione, anche se arricchita da sconcertanti dichiarazioni, ma un vero e proprio duello, nel quale, in ballo, oltre che la vita, ci sono anche una montagna di soldi distrattamente custoditi in un anonimo borsone. Una proposta indecente senza un compromesso, una monetizzazione della morte per giustificare una vita tra due uomini che sembrano, entrambi, cercare qualcosa che possa dar loro una vera e proprio svolta esistenziale. Ma perché questo avvenga, è indispensabile che vivo ne resti uno solo. Ma chi, dei due, ha paura di vivere, e chi, invece, ha paura di morire? Un’ora di dubbi, incredulità, sbigottimento, disgusto, in un’altalena di parteggiamenti per i due contendenti, entrambi alla caccia della verità, della giustizia. Due persone ufficiosamente perbene che sembrano nascondere, tra le pieghe della loro apparente trasparenza e fragilità, una scomodissima verità. E perché, sin da subito, il tema della guerra, delle guerre tutte, e delle armi che ne alimentano il bisogno, la necessità e la realizzazione, passa, seppur tema dell’incontro, in secondo piano fino a scomparire? I due pugili, su un ring degno di definirsi tale, spoglio, sgombro, con due soli angoli ai quali, i due boxeur, si ristorano tra un gancio e un appercut, dopo le brevi schermaglie tattiche iniziali, perderanno, entrambi, la voglia di difendersi e proveranno, cercandosi, amandosi, come sintomo da Sindrome di Stoccolma, a sopraffare l’avversario. Un’ora di altissima adrenalina, di inspiegabile suspence, della quale non si riesce a capacitarsi se non sui titoli di coda, quando la snervante e macabra premessa che poggia la sua incomprensibile violenza sull’apparente sadismo di Lino Guanciale e il goffo imbarazzo di Francesco Montanari, acquista il suo peso specifico e rende, l’epilogo, un’inevitabile soluzione, spianando e glorificando la strada della vendetta.
FIRENZE. Una tragedia disegnata sulle strisce cartonate di Linus Van Pelt, sì, quello dei Peanuts, di Schulz, il mondo popolato da soli bambini che non si sa da chi abbiano imparato a vivere, ma che, pur restando piccoli, sono diventati uomini. Donne. Omosessuali. Che affonda radici lontane, negli scritti mitologici, ma che si ripresenta, tale e quale, in una Sicilia in cui il tempo sembra essersi fermato, ai giorni nostri, nostri intesi come contemporanei, quelli dei primi esperimenti laboratoriali di distruzione di massa. Sullo sfondo c’è l’Aids, infatti, spada damoclea costruita per sfoltire il vizio, ma il virus dell’Hiv rappresenta solo una terribile, mostruosa, infallibile, letale variante accidentale. Al centro, al di là dei contagi e di una morte che sembra voglia darti sadicamente tutto il tempo di pentirti, c’è la solitudine, l’abbandono, la speranza del riscatto, magari, mortificata; nemmeno contemplata, se non nei sogni di mezza estate, che durano il tempo della breve traversata da Messina a Reggio Calabria, prima della nascita del ponte sullo Stretto, naturalmente, che prima o poi, qualcuno farà. Il dolore è intenso, soprattutto quando tenta di sopravvivere a sé stesso, giocandoci, come intensi sono i tre monologhi, quelli che si incalzano tra di loro sul palcoscenico vuoto del Teatro Puccini di Firenze, dove Joele Anastasi si scrive addosso una storia cucitagli su misura dall’alta sartoria, Io mai niente con nessuno avevo fatto, confidando nella solita meravigliosa, dolcissima, materna, fisica, oscena e sguaiata Federica Carruba Toscano e nell’inconsapevole ipocrisia di Enrico Sortino, una meschina, sdrucita, deforme e, condannata all’eternità, pagina di povertà, senza vincitori né vinti, senza domani, senza futuro, con un presente che vive solo nel flebile, paradossale e surreale entusiasmo dei protagonisti, abbandonati da sempre e destinati solo a sopravvivere a loro stesi. La novella, però, seppur minimalista, verghiana e pasoliniana, nichilista nel suo aspetto più lacerante, quello umano, rischia di non esplodere e rimanere ancorata ad un’azione autocelebrativa che potrebbe essere un riscatto, una rivalsa, una vendetta, senza riuscire a diventare un movimento, un’idea, rivoluzione. L’impressione è che dopo una serie di rappresentazioni di profonda corale danzante bellezza, l’enfant prodige catanese e la sua Vuccirìa Teatro si sia sentito in diritto e perché no, in dovere, di raccontare un dolore e farlo diventare il suo e anche del pubblico. Operazione che a noi, nonostante l’incalzante omaggio di numerosi e importanti premi ricevuti dalla rappresentazione, è parsa fermarsi sul limitare del palcoscenico, senza riuscire a scendere in platea e impadronirsi del pubblico, che ormai accorre, puntualmente e giustamente numeroso, a ogni richiamo del giovane regista. Il dolore dei protagonisti, però, la loro schizofrenica idea e volontà di liberarsi da quel troppo faticoso fardello, ognuno inseguendo i propri ideali, che sono, ribadiamo, la base d’asta di una dignitosa sopravvivenza, non diventa riflessione popolare, non si insinua tra le viscere del pubblico, non viene metabolizzato come ingiustizia collettiva, storica, sociale, ma resta lavoro attoriale, mirabile e ammirevole, ma non indottrina, non scalfisce, non genera proseliti, non partorisce seguaci, non rischia di contagiare fanatismi. In sala non scende una lacrima perché nessuno sembra riconoscersi nello specchio della rappresentazione, seppur questa, rimendo ancorati alle impressioni veriste, non abbia nulla di trascendentale e somigli, da vicino, molto vicino, a un’infinità di altre storie quasi fraterne, lette, sentite, sussurrate, sofferte, piante, abbandonate, sepolte.
PRATO. La tentazione sarebbe quella di lasciarsi trasportare dall’emotività e raccontarvi, con gli occhi inumiditi dalle lacrime, gli ultimi giorni della GKN, la fabbrica quasi centenaria di Campi Bisenzio (prima era a Firenze) di componentistica automobilistica che presto, temiamo, chiuderà i battenti. E lo farà nonostante tutti gli operai licenziati, via mail, il 9 aprile del 2021, da allora, in fabbrica, ci siano rimasti, giorno e notte, notte e giorno, in un presidio permanente che non ha in alcun modo intenerito le proprietà succedutesi alla guida di un molosso artigiano/industriale, né i governi di questo paese (la p è minuscola per coerenza, nostra) che comunque, da destra o da sinistra, tendono a difendere e in alcuni casi esaltare il fatto in casa (made in Italy). E non sarebbe difficile lasciarsi trascinare dalla tristezza mista a rabbia, se, scrivendo, ripensassimo alle storie Francesco (Iorio), Felice (Ieraci) e Tiziana (De Biasio), il manutentore, l’addetto al montaggio e alle pulizie della GKN, che Nicola Borghesi e Enrico Baraldi, autori e registi, li hanno voluti al loro fianco sul palcoscenico del Teatro Metastasio di Prato, dove fino a domenica andrà in scena Il Capitale, sì, quello di Karl Marx, quello che per anni è stata la guida dei comunisti di tutto il mondo fino al ritorno, subdolo, devastante, letale, di un capitalismo che si è rinnovato e che per vincere la sfida si fornito di un'arma letale, quella che gli ha consentito di incunearsi tra le pieghe dei suoi avversari fiaccandoli proprio nel loro aspetto più intimo: il futuro, i sogni. Abbiamo pianto, come ci è successo assistendo agli spettacoli di Emma Dante, perché ieri sera, il Teatro, con Il Capitale, si è fatto Teatro davvero, spogliandosi degli abiti da palco e indossando quelli della denuncia, del dolore, della disperazione. Sul tavolo delle trattative non c’è una morale, o una questione di principio, né tradizioni secolari che il progresso tende a scalzare via; in ballo c’è la sorte di centinaia di lavoratori e delle loro famiglie che aspettano che l’operaio della GKN torni al suo posto in fabbrica o che la fabbrica, acquistata da partecipazioni statali, converta la sua produzione in altro e con essa la professionalità dei suoi dipendenti. Abbiamo pianto quando la voce fuori campo, con il megafono davanti alla bocca, dopo i proclami proletari dell’esordio, ha invitato i suoi compagni e gli spettatori a cogliere, in questa meravigliosa lotta di sopravvivenza, un aspetto che all’inizio nessuno avrebbe immaginato di poter vivere: l’amore. I pugni chiusi sollevati al cielo con i quali i protagonisti sono stati sommersi, al termine della rappresentazione, dagli applausi di una platea composta, soprattutto, da giovanissimi, dunque studenti, che della GKN ne han solo sentito parlare in tivvù, in qualche rapido servizio giornalistico, è un altro motivo per cui ci siamo sentiti in diritto e dovere di piangere, tra rabbia e commozione, soprattutto pensando alle nostre gioventù, iniettate, come lo sono state, senza pentimento alcuno, di libertà, eguaglianza, diritti. Ma è sempre più probabile che al prossimo ultimatum, fissato al primo gennaio 2024, la GKN di Campi Bisenzio, le cui maestranze, e relativi presidianti permanenti, si sono ridotte, nel frattempo, a centottantacinque operai (gli altri, nel tempo, con un insopportabile dolore nel cuore, si sono dovuti e per fortuna riqualificati altrove), chiuda definitivamente i battenti, che i macchinari, fermi, dalle ore 6 del 9 aprile 2021, vengano smantellati e delocalizzati come le commesse scippate e che gli operai, che han creduto fino all’ultimo, di poter restare lì, a lavorare, guadagnandosi onestamente da vivere, vengano insindacabilmente licenziati, senza più cassa integrazione, senza l’ausilio di alcun ammortizzatore sociale. Certo, che loro e noi tutti, ci auguriamo il contrario, ma il pessimismo, che regna sovrano laddove uno dei contendenti sia un molosso invisibile di guadagno, temiamo possa avere il sopravvento e che di questa fabbrica chiusa se ne continuerà a parlare per molti anni ancora, ma solo come se si fosse trattato di una favola. È per questo, che uscendo in fretta e furia dal teatro, per non farci vedere dagli altri con gli occhi iniettati di lacrime e tristezza, abbiamo creduto che da sconfitti, operai, registi, spettatori, cittadini, si possa e si debba comunque imparare la lezione che cinque anatre andavano a sud; forse una soltanto vedremo arrivare, ma quel suo volo certo vuole dire, che bisognava volare, che bisognava volare.
PISTOIA. La miglior testimonianza in favore di un’opera è la silente resistenza che il pubblico le tributa. E di questi tempi, dove la soglia d’attenzione è oramai prossima allo zero, vedere un Teatro (Manzoni) pieno come nei tempi migliori, che sono passati, ma che torneranno, restare scolasticamente al banco (ma in una scuola parificata, beninteso) per circa tre ore senza chiedere alle maestre di turno d’andare al bagno e senza fare i rumori del cellofan delle merendine scartate di nascosto, credeteci, è straordinario. Tutto facile, potreste obiettare, quando dietro la cattedra, oltre a vari insegnanti di sostegno che gestiscono gli effetti collaterali, c’è la professoressa Manuela Mandracchia. Verissimo, perché è un talento vero, puro, che si prende immediatamente la scena da giudicatrice implacabile accompagnando la rappresentazione fino ai titoli di coda, dove si congeda da commovente e pietosa giudicata. Dentro, ma anche fuori, ovunque, c’è la bollente, afosa, annoiatissima provincia americana, quella adorabilmente descritta da Tracy Letts e portata in scena, dopo la trasposizione cinematografica di John Wells, con Maryl Streep e Julia Roberts, a Pistoia, in prima regionale, da Filippo Dini, che come succede puntualmente, per i suoi spettacoli, assolda un esercito di professionisti capaci di adattare, esemplarmente, le singole capacità alla causa del testo, anche con la consapevolezza che nello specifico contesto, ognuno avrebbe potuto dare molto di più. Ma il Teatro di maniera è questo, anche se dopo, calato il sipario, quando si ritorna verso casa, ci restano, negli occhi e nella mente, solo e soltanto, e nulla più, le straordinarie capacità recitative e attoriali di alcuni dei protagonisti, ai quali, in più di una circostanza, abbiamo tacitamente riservato più di un WOW che si addicono e riservano solo ai fuoriclasse. La commedia, più che degli equivoci, è delle ipocrisie, dove la famiglia Weston si ritrova al gran completo (figlie, generi e nipote) a causa dell’improvvisa scomparsa del padre, Beverly (Fabrizio Contri, che indossa anche i panni dello sceriffo della Contea dell’Oklahoma), un alcolizzato recidivo che forse si è dato anima e corpo allo stordimento etilico in virtù della farmacodipendenza della moglie Violet (Anna Bonaiuto), che a sua volta difende la propria tossicità farmaceutica in virtù dell’alcolismo del coniuge. Questa è l’unica tragicità, dai contorni comici, della commedia, perché ognuno, nella villa di famiglia situata nel bel mezzo della Grande Pianura e dalla quale, tutti, appena han potuto, han preferito allontanarsi, eccezion fatta per Ivy, l’ultima figlia (Stefania Medri), recita la propria detestabilissima parte. Quella che sembra essere la figlia meno distante dalle malate alchimie coniugali dei vecchi genitori è proprio Barbara Fordhman (la docente romana), moglie di Bill (Filippo Dini), che hanno una giovane figlia, la quattordicenne Jean (Caterina Tieghi), ginnasta prestata al Teatro, che appartiene alla generazione, ahinoi, non solo americana, dei video/cellularedipendenti con una naturale propensione allo sballo. Tutti gli altri protagonisti sono cresciuti sugli agi e sui soldi costruiti dalla fatica, dai sacrifici e dalle rinunce dei coniugi Weston, detestabili personaggi di una piccola borghesia che fonda e affonda sé stessa nel perverso meccanismo delle apparenze, dietro le quali si nascondono tutti i piccoli e grandi vizi della società, dove l’unico amore declinabile, possibile, autentico, è quello claudicante, nascosto, malato dei cugini Ivy Weston (Stefania Medri) e Charlie Piccolo Aiken (Edoardo Sorgente), che sono in realtà fratellastri, e dell’amore smisurato per la vita in tutte le sue declinazioni deontologiche da parte della governante indiana, Johanna Monevata (Valentina Spaletta Tavella), l'unica che prova a inorridirsi e ribellarsi alla letale finzione quotidiana e che per sua fortuna, dell’America alla quale i suoi genitori han chiesto asilo, ne è solo nativa. Oggi, alle 16, l’unica replica e per questo, per non spoilerare un sacco di altri peccaminosi e funzionali dettagli, il nostro racconto non aggiunge altro.
PISTOIA. Non è uno spettacolo per tutti, via. O meglio. Lo sarebbe stato per tutti, ma a patto che a tutti, prima di entrare in sala, nel foyer, qualcuno dell’Associazione Teatrale Pistoiese avesse distribuito sostanze altamente stupefacenti, dunque proibite, a effetto immediato, che avrebbero consentito così, all’ignavo spettatore, di mettersi in sintonia con i giochi di prestigio scenografici della compagnia eVolution dance theater e uscire, dopo lo spettacolo, piacevolmente stordito e per nulla interdetto, anzi, divertito fino all’ebetismo, per non aver capito come sia possibile che scie luminose prendano forma e corpo e diventino funi, lacci, manti, lenzuola, che dal nulla compaia un essere umano in carne e ossa e che nel nulla scompaia un istante dopo. Certo, il soprafondo musicale ricorda, maledettamente, quando i Pink Floyd, altre volte i Massive Attack, ma anche i Chemical Brothers, così come i giochi di luce e geometrie riportano alla memoria i conflitti interstellari della fantascienza anni ’70, ma resta il fatto che la componente ipnotica di Blu infinito, lo spettacolo che ha aperto ufficialmente le danze, ieri sera, della lunga e variegata stagione artistica dell’Atp, è quella che ha rapito l’intero pubblico, composto da mamme e papà che in più di una circostanza hanno dovuto rassicurare i propri piccoli pargoli che le cose viste al Teatro Manzoni non sono vere. O meglio, le riescono a fare solo poche, pochissime persone, come gli atleti, acrobati, ballerini, ginnasti, danzattori Leonardo Tanfani, Antonella Abbate, Matteo Crisafulli, Carlotta Stassi, Giovanni Santoro, Giulia Pino, Nadessja Casavecchia, ad esempio, ma solo perché da circa quindici anni, di loro, se ne (pre)occupa Anthony Heinl, avvalendosi, per la cura e la messinscena dello spettacolo, di Simone Sparky, Adriano Pisi e Piero Ragni, rispettivamente impegnati nei laser, direzione artistica e costumistica. Per fortuna, nella seconda frazione dello spettacolo, i magnifici sette si sono fatti finalmente vedere, in tutta la loro sinuosità fisica e atletica, dando vita, su uno di quei gonfiabili approntati dai Vigili del fuoco per le improvvise evacuazioni, a giochi pirotecnici di alta, altissima, difficoltà, che loro hanno naturalmente eseguito con il sorriso sulle labbra, e gli addominali in gran spolvero, ovviamente, perché il pubblico, fino ad allora meravigliato per i misteri di luce e colori, potesse finalmente giungere alla conclusione che non si fosse trattato solo e soltanto di magia, ma anche e soprattutto di studio e sacrifici matti e disperatissimi. La scusa dello spettacolo, il pretesto per andare in scena, è legato al blu come componente cromosomica dell’acqua che consente a tutto il resto di fluire, comporsi e decomporsi, in un carosello di figure mitologiche, pesci d’ogni ordine e razza che rimbalzano da un lato all’altro del proscenio, in una festa accecante di colori, ma non di quelli pastello, morbidi, che si associano sobriamente su completi da grandi cerimonie, ma di quelli utilizzati per gli spot pubblicitari che devono sconfinferare la curiosità più nascosta, quella che non si può decifrare, chiamare per nome, ma che nei momenti opportuni corre in salvo al compratore e induce al peccato, al consumo, all’acquisto. La stagione teatrale che sta per iniziare poggerà i suoi rudimenti artistici su altre forme di aggregazione, interesse e divulgazione, ma questo prologo, a noi che non siamo mai ricorsi alla chimica, per farci sorprendere dalla vita, qualche rammarico ce l’ha fatto venire.
PONTEDERA (PI). La violenta passione di Rossana si abbina, perfettamente, con la stanchezza di Cirano. Che per non tradire la propria nobiltà d’animo, ma senza svilirsi agli occhi del pubblico, decide di trasformare la sua delusione esistenziale in una serie concatenata di situazioni oniriche, ironiche, beffarde, cercando così di voler far credere che il proprio struggimento d’amore, sia, in realtà, un’ennesima prova da superare, un carosello di esibizioni, una dimostrazione di teatralità. È l’arte, tipicamente napoletana, d’arrangiarsi, del resto e Silvio Orlando, di questa corrente filosofica, ne è uno dei rappresentanti più illustri. Senza la sua tragicommedia, infatti, il Cirano di Michele Santeramo si sarebbe dovuto stracciare le vesti e perire di stenti tra innumerevoli angosce. Certo, ci sarebbe voluto essere lui tra le braccia di Rossana al posto di quel bellimbusto di Cristiano, bello, bellissimo, vero, ma grezzo, greve e senza la minima arte, né parte, la stessa di quei meridionali che dopo essere emigrati al nord in cerca di lavoro e dignità, vorrebbero anche perdere l’inconfondibile slang natio in favore di un accento che non si addice minimamente loro. Il palco è lo stesso, quello del Teatro Era di Pontedera, quello che ha ospitato Rossana (Sonia Bergamasco) e Cristiano (Rocco Papaleo). All’analisi completa della turbolenta passione di Bergerac mancava l’anello più forte, quello dell’impavido e invincibile spadaccino, poeta d’arme e di gesta, che per chiudere il cerchio, surreale e metempsicotico, della tragedia cavalleresca, era giusto che non desse e offrisse spunti melodrammatici. Quel naso, quell’enorme naso, diventa, in un gioco di luci e ombre, la proiezione di un bicchiere di plastica sorretto solo dalla bocca con il viso rivolto all’insù e il proscenio estivo dell’emiciclo dell’Era, vuoto, lo spazio di un pubblico che non c’è, ma che aspetta di entrare in scena. Lì, da solo, nel bel mezzo della semicirconferenza che abbraccia ad arco le spalle della scena, Cirano inizia a raccontarsi. Lo fa dopo che, sabato, Rossana e domenica, Cristiano, hanno già offerto le loro proiezioni ortogonali sull’improbabilità dell’amore e sulla sua (s)convenienza. Al trittico, mancava l’arrendevolezza, l’inesorabilità, la stanchezza. Così come Cirano trascorre una vita per cercare di entrare, senza riuscirci, nell’orbita della cugina Rossana ed esserne l’unico gradito abitante, anche noi, nei nostri piccoli, grandi microcosmi, viviamo pazzamente la tensione di un amore, che spesso non ci viene ricambiato. E allora, per non impazzire, per riuscire comunque a sopravvivere e poterla raccontare, la nostra vita, finiamo per declinare le nostre energie altrove, accontentandoci di un partner che avremmo voluto fosse altro. Ma se la vita ci concede di invecchiare, ci convinciamo che tutto sommato sia andata bene così; che canuti, indifesi, doloranti, siamo il giusto rovescio della medaglia della persona che non ci ha scelto, così come abbiamo fatto noi, ma che ha finito per trovarcisi bene. E se l’amore è quel miraggio impossibile che non può consumarsi nel corpo di una sola altra persona e che, per coerenza, alla fine di una giornata qualunque dovremmo avere il coraggio di lasciarla quella donna, quell’uomo, con la quale fingiamo di essere felici; e che se l’amore instaura le proprie fondamenta sulla bellezza di un profilo, sulla veemenza di una muscolatura, sulla fragranza di un seno, sulla malleabilità di un culo, su uno sguardo dal taglio felino che però necessitano di parole dette e comprate da altri, per sentirsi appagato, fino al punto di essere disposto a mercanteggiarle, non ci resta che limitare le nostre pretese e le nostre aspettative laddove il nostro orizzonte sia contemplabile e trasformare quel che vediamo, tocchiamo e assaporiamo nella delizia più fragrante del mondo. È il verdetto emesso dalla Cassazione del Teatro dell’Era, dal giudice Michele Santeramo, che nonostante sappia che dopo di lui nessun altro giudizio potrà cambiare la storia e la sorte dei suoi protagonisti, decide di proferirlo sottovoce, senza la tragicità dell’incontrovertibile, speranzoso, più che consapevole, che almeno dal teatro si esca cambiati. Almeno un po’.
PONTEDERA (PI). La scrittura teatrale di Michele Santeramo è letteralmente inconfondibile: somiglia l’unicità del suono della chitarra di Carlos Santana, o quella di B.B. King, come di George Benson, del resto; basta che uno di loro imbracci la propria sei corde e intoni poche note che, chi li ha già sentiti, non esiti un attimo a riconoscerli. Lo stesso succede quando si ascoltano le parole di un testo di Michele Santeramo; frasi interrotte, a volte monosillabi, proferiti addirittura con cadenza incerta, quasi balbuziente, senza epiloghi, ma comunque essenziali, profonde, terminate. Un’antologia ermetica di emozioni, delle quali se ne può anche ignorare il mittente, ma che arrivano, tutte, indistintamente, proprio lì, in fondo al cuore, nella parte sudorientale, quella più vicina allo stomaco. Interprete delle sue interpretazioni, ieri sera, al teatro Era di Pontedera, è stata Sonia Bergamasco, che ha raccontato l’amore infantile, adolescenziale, straziante, totale, unico, ma inconsapevolmente bifronte, inevitabilmente melodrammatico, soprattutto dopo l’intervento teatrale, goduto, patito e sofferto da Rossana, la moglie del corpo di Cristiano e delle parole di Cirano. È sulla tragedia teatrale di Edmond Rostand, su quello che lui, come direbbe Roy Batty, il replicante, non poteva neanche immaginare, che Michele Santeramo ha concentrato studi e rielaborazioni per arrivare alla triplice drammaturgica stesura di un amore e dei suoi interpreti, Un’Era D’Amore, un concentrato enigmistico dell’omonimo teatro e del direttore artistico, Marco D’Amore, affidato, in sequenza, senza soluzione di continuità, a Rossana (Sonia Bergamasco), Cristiano (Rocco Papaleo, stasera, domenica 24 settembre) e Cirano (Silvio Orlando, domani, lunedì 25 settembre), con un sottofondo musicale cinematografico del polistrumentista Sergio Altamura, in un teatro di antiche bellezza e accoglienza, elegante, rinnovato e futuribile grazie a Revet e al riciclo della plastica, con il quale si è costruito l’emiciclo posteriore dell’anfiteatro, quello che ospita gli spettatori estivi e che ieri è rimasto, seppur vuoto, comunque presente, avvolgente, protettivo, aperto alla visione e all’aria pungente del pubblico disposto di qua dal palco. Una ciambella con il buco, l’organizzazione del teatro Era, un buco perfettamente circolare, nel bel mezzo, grazie anche alla naturale cortesia dell’intero personale di sala, dell’abbondanza del buffet, e di un clima complessivo inequivocabilmente e inesorabilmente gradevole. E poi lei, Sonia Bergamasco, completamente immersa nel mood di Rossana, impegnata in questa doppia, molteplice lettura, così come si può immaginare: bella, elegante, soffice, ironica, matura, ma soprattutto bravissima, in particolar modo nello studiare, con abnegazione, la professione di attrice, dalle Prove di infelicità, sottotitolo di Anna Karenina, fino a ieri, dove si vedono, insindacabilmente, le ore e ore trascorse in palestra ad esercitarsi e sudare sangue per capire, fino in fondo, il dono dell’amore, della sua naturale e congenita bellezza, che finisce per macchiarsi, e dunque inevitabilmente indebolirsi, a contatto umano, quando raggiunge il suo scopo, quando si materializza, perdendo, inevitabilmente, i suoi slanci e istinti primordiali per accomodarsi e accoccolarsi attorno alle abitudini, nella dinamica, perversa, di coppia, dove si offre per ricevere e si riceve con la consapevolezza di dover rendere. L’amore invece, l’amore nella sua Era migliore, persa, contemporanea, non ancora vissuta, è quello che ha bisogno della maestosa integrità fisica di Cristiano e delle suadenti, irresistibili, affascinanti parole e attenzioni di Cirano, entrambe rivolte all’adolescente Rossana, che solo fino a quando rimarrà bambina, solo fino a quando non capirà, ignara che il suo unico amore sia in realtà la congiunzione di più anime, indifferentemente indispensabili per il suo eterno, letale godimento, potrà dirsi felice.
SESTO FIORENTINO (FI). Culi così belli se ne vedono pochi, siamo onesti. Anche Nadia Cassini e Lory del Santo, che sono state, rispettivamente e indifferentemente, le chiappe onomatopeiche degli anni ’70, se assistessero a Conversations after sex, non potrebbero che complimentarsi con Gabriele Giaffreda, che, oltre a un fondoschiena indiscutibilmente di greca bellezza, è anche e soprattutto uno, nessuno e centomila nel talamo peccatore e confessorio sul palcoscenico del teatro La Limonaia di Sesto Fiorentino. Abbiamo deciso di partire dalle chiappe del coprotagonista maschile della rappresentazione teatrale, in prima nazionale nella conca senza aria del parco fiorentino, perché alla fine dello spettacolo, dopo aver assistito a una girandola di incontri, posizioni, ipocrisie, falsità, confessioni, tutte consumate e proiettate nell’angusto perimetro rettangolare di un letto matrimoniale, o meglio, a due piazze, tra Barbara Esposito e i suoi cazzi d’occasione, ci è sfuggita, se non la morale, che aborriamo, beninteso, della favola, quanto meno la sua giustificazione. Non abbiamo letto il testo irlandese di Mark O’Halloran, tradotto per la bisogna da Lorenzo Borgotallo e portato sul palcoscenico da Dimitri Milopulos, né, probabilmente, lo faremo, ma non abbiamo capito dove il testo e la sua rappresentazione scenica vogliano o volessero andare a parare. Esistono donne che si frantumano il cuore, l’anima e la fica tutte le notti regalando, senza compensi, il proprio tempo e il proprio letto a uomini ai quali non saprebbero cosa altro offrire se non intricanti intrecci erotici, con un velato epilogo che parrebbe indurla a fermarsi con uno dei suoi clienti portoghesi? L’innominata ereditiera, che ha deciso di vivere affogando la sua triste voluta solitudine in scopate occasionali, degne della migliore tradizione ninfomane, con un genere maschile estremamente eterogeneo, ma mai di livello, uomini senza arte, né parte, che liberano le loro frustrazioni solo nell’intimità con la cagna da monta di turno, non chiede e non dà, non cerca e non aspetta, ma se capita, non se lo lascia sfuggire. A scatenare il suo dissesto psicologico, che si trasforma in un atteggiamento moralmente molto discutibile, c’è un lutto non metabolizzato, quello del suo compagno, che ha deciso di suicidarsi. Da allora, il tempo, la vedova di Curley, lo trascorre in cerca del Lennie di turno con il quale uccidere le notti, ma senza progettare più nulla; piselli di circostanza con i quali stabilisce contatti non certo privilegiati, ma specifici, riuscendo, con manifesta eleganza, a non confondere mai il brasiliano con il dublinese, l’imprenditore con il tossico. A ciascuno la sua angolazione della vagina, in un carosello nichilista che alimenta la propria dissoluzione a ogni scopata. Nemmeno la sorella (Anastasia Ciullini), che ha invece impostato la propria esistenza così, come fan tante, sposandosi, diventando madre due volte e aspettando che il marito, che la tradisce, torni sui propri passi e riacquisti il suo ruolo specifico di padre e marito apparentemente indefesso, riesce a farla desistere dalla sua dissolutezza, provando a lusingarla con il quadretto della famiglia benestante che riesce a sopravvivere con malcelata dignità nonostante tutto. Le conversazioni che seguono una scopata veloce, o senza alcuna ambizione sentimentale, dunque, progettuale, abitualmente gravitano attorno al nulla e servono a far sì che lui riesca a trovare il tasto da premere per alzarsi, togliersi lo sperma seccato sulla pelle e andarsene il prima possibile e lei, nonostante ne avrebbe voluto ancora per molto altro tempo, si possa dire vagamente soddisfatta. Quando non sono a pagamento, perché in tal caso, preliminari ed epiloghi sono fortunatamente evitati, soprattutto perché non graditi, da entrambi.
SESTO FIORENTINO (FI). Come per i coniugi Lynd, con Middletown e Middletown in transition, che si sforzarono di stabilire come avessero sociologicamente provato a sopravvivere gli uomini e le donne di quella piccola comunità umana nell’arco di cinquant’anni, anche Mark O’Rowe ha deciso di analizzare le vite degli altri in spazi di tempo che sembrano essere attimi eterni. Perché ognuno di noi, in un preciso istante della propria esistenza, è esattamente lo stesso, o letteralmente l’opposto, di quello che era e di quello che sarà, poco prima, poco dopo, poco importa. Il tono drammatico, ma così surreale che sovente diventa grottesco, dunque comico, è perfettamente incarnato da Alessandra Bedino, Teresa Fallai e Giulia Weber, due sorelle e una loro amica comune che si ritrovano, mai tutte e tre insieme, sul ring della vita, nella fattispecie ai lati più distanti di un tavolino, a fare i conti con quello che sono state e quello che temono non riusciranno a diventare. L’incidente probatorio è The Approach, per questo fine settimana a La Limonaia, di Sesto fiorentino, che Andrea Macaluso, confidando nella traduzione di Anna Rusconi, ha deciso di mettere in scena lasciando onori e oneri solo e soltanto al camaleontismo delle tre attrici, ognuna delle quali, al di là delle singole e indiscusse professionalità, non ha potuto non riconoscersi nelle conversazioni delle tre donne che si ritrovano dopo aver spartito sonno e sangue giovanili, sui loro viali del tramonto. Nei quali c’è ancora spazio per sogni e progetti, con latitudini e prospettive distanti, quasi in modo siderale, ma che non esenta nessuna delle tre a immedesimarsi nell’altra fino al punto di soffrire, o fingere perfettamente di farlo, di dolori mai patiti, a volte addirittura causati, né di distribuire consigli su come continuare a crederci. Sono tre donne piacenti, che nel post adolescenza si sono tolte quegli sfizi femminili che quelli dell’altro emisfero, il popolo alfa, non riesce nemmeno a immaginare. Mark O’Rowe, del resto, l’autore irlandese, delle introspezioni personali, collettive, generazionali (The delinquent season è forse l’opera più forte ed enigmatica, così audace che in Italia han fatto di tutto per non farla arrivare) ne ha fatto la trama delle proprie ricerche, costellando tutta la sua biografia e i suoi lavori proprio sulle dinamiche personali/sociali, giungendo alla conclusione, nonostante non abbia ancora tirato le somme, che nessuno conosce nessuno, men che mai sé stesso, con la velata, seppur tragicomica, condanna al mondo maschile, che è quello che sfrutta una lodevole, simpatica, originale iniziativa sentimentale (lo schema del cruciverba, che ricorda poesie, serenate sotto il balcone, diamanti) riproducendola, esattamente nello stesso identico modo, senza la minima correzione in corso d’opera, di amore in amore, senza soluzione di continuità e l’inesorabile tragicità femminile, incapace di prendere le distanze da quello che sembra amore, anche quando si veste di soprusi, intimidazioni, svilimenti, violenze. L’afflato manifesto sul palcoscenico tra Alessandra, Giulia e Teresa, (Anna, Cora e Denise, ma in ordine sparso) è, probabilmente, di questa rappresentazione teatrale senza un prima, né un dopo, un testo senza un titolo, una recensione senza occhiello e catenaccio, il segreto della sua, inconfutabile, riuscita, con quell’anelito di paura e speranza, diplomazia e prudenza che arma le donne e gli uomini del mondo per riuscire a restare in equilibrio sul filo del rasoio dei rapporti umani e poter esultare, di tanto in tanto, con il classico te lo dicevo io, nella grigia quotidianetà di esistenze che riescono a trascinarsi in avanti solo grazie ai colori, sbiaditi, dei ricordi, sui quali, anche a posteriori, si cerca, inesorabilmente e goffamente, di barare.
BUGGIANO (PT). Alcuni mestieri (e l’arte, in ogni sua espressione, lo è per antonomasia) non hanno orari. Occorre stare sempre sul pezzo, perché spesso, al di là dei massimi sistemi, è proprio la semplice e routinaria quotidianità ad offrire spunti vitali. Di questo ne è profondamente convinta Arianna Gaudio, attrice indipendente, scrittrice, famelica osservatrice di luoghi comuni che, in quanto tali, lo sono veramente, comuni. Tanto che, a forza di oltrepassare spazi e spazi senza fermar in alcun d’essi il piede (Gradini, Hermann Hesse), ha collezionato una serie di visioni, quasi tutte metropolitane, e ne ha fatto un libro, La scoria infinita, che per necessità di successo è diventato un podcast e, ciliegina sulla torta, anche uno spettacolo teatrale. Per andare in scena, a leggere alcune delle sue involontarie ficcanasate, ha bisogno delle sovrapposizioni ritmiche alla consolle di Pietro Sermonti, dell’interpretazione attoriale di Federico Vigorito e delle voci di Caterina Guzzanti, ultimo diaframma di una sadica, cinica e meravigliosa trilogia (Corrado e Sabina i primi due). Perché on the road succede praticamente quasi tutto popoli e intasi il nostro immaginario personale e collettivo: servitevi, senza meta, di una linea della metropolitana; fingete di dover salire su un treno (in ritardo) alla stazione; aspettate, con febbrile e costruttiva pazienza, il vostro turno a una cassa di un qualsiasi supermercato; popolate, in una giornata particolarmente torrida, una sala d’attesa di un pubblico ufficio; gustatevi un gelato seduti a un tavolino di un bar, ma assaporate i suoni e i rumori che fibrillano intorno, non le delizie commestibili. Fate tutto questo a Roma, però, casomai affidando a un google map civico (tra la Cassia e Lamaro non ci sono solo quaranta chilometri di distanza, ma una totale diversa concezione esistenziale e fonetica) perché altrove, a nord e a sud, indifferentemente, l’effetto non sarà mai lo stesso e vi accorgerete che Arianna Gaudio, i suoi meritati proventi, dovrebbe equamente distribuirli tra tutti quelli che, senza aver mire recitative, le hanno offerto, sul suo scaltro piatto d’argento, la narrazione. Ne parliamo solo ora de La scoria infinita perché ieri sera, i quattro dell’Ave Maria (fotografati da Gabriele Conti), sono passati da Borgo a Buggiano, dal Centro Sperimentale OX, per la precisione, un giardino ristrutturato con cassette della verdura adibite a panche e affidato alla cura di uno stuolo di giovanissimi che ha tutta l’aria di poter diventare (ma non succederà, purtroppo) una piccolissima Comune alternativa ai grandi circuiti. Lo spettacolo, iniziato con un’abbondante mezz’ora di ritardo (ma dovevano calare le luci della sera perché quelle sul palco sortissero effetto) gode e subisce la leggenda cinematografica, visto che a piè di pagina, ogni aneddoto (telefonate in stereofonia, conversazioni surreali, improbabili colloqui) sono riassunti e titolati da esilaranti storture delle grandi pellicole hollywoodiane, dimostrando così che anche i grandi registi, prima di dar vita ai loro kolossal, sono probabilmente passati da Tor Bella Monaca.
di Letizia Lupino
CASALGUIDI (PT). Oh Sergio, me lo porti un caffè? Si immagina facile una domanda così, una banale quotidianità che via via perde forma e volume per poi riacquistarli come quei disegni tridimensionali che devi muovere tra le mani per indovinare profondità e consistenze altrimenti piatte e sopite. La risposta poi non si farà attendere perché non ci sarà; un’occhiata certo, l’illusione del dialogo quando invece è una monolitica resa dei conti, non un punto e chiuso, ma un punto e virgola: Guarda Sergio a che punto e virgola siamo arrivati. Si snocciola in questo modo lo spettacolo che è andato in scena al teatro Francini di Casalguidi in una serata tanto uggiosa e antipatica, quanto avvolgente e atroce invece è stata l’opera di Francesca Sarteanesi. Niente fronzoli, nessun orpello e nemmeno un sipario da aprire, solo le luci che si abbassano in sala e lei che sale sul proscenio, di tre quarti, pronta a dialogare sì, ma fondamentalmente con sé stessa. La sommessa necessità di dare voce ai moti dell’anima e dello stomaco per renderli veri, reali, visibili. Per cercare, sottovoce, di non raccontarsela più. E poco importa se Sergio non c’è, non esiste nonostante il suo figurato silenzio comunichi in modo forte e chiaro. Sergio è il pretesto di una fuligginosa vita di coppia, comune, fatta di piccole cose, di merletti sui mobili giusto un po’ polverosi, di piccole porcellane di dubbia eleganza sparse in casa, di gambaletti color carne e sandali comodi ma così comodi Sergio. E schemi sociali così forti che carezzano a mano aperta il ridicolo. È atroce ascoltare questo frammento di vita sgualcito perché tutto pare molto stretto o piccolo, come piccolo è il tempo - solo cinquanta minuti - come piccoli sono i turbamenti narrati, senza picchi, e così piccolo lo spazio di manovra nonostante un palco, nonostante la totale mancanza di scenografia. Lei è quasi completamente immobile rappresentando alla perfezione ciò che lei racconta: l’inerzia di una relazione opaca, di finestre chiuse e pochi spiragli. Anni o mesi che si dilatano e si restringono fino a scomparire in un’estrema ordinarietà, affidandosi esclusivamente e interamente alla parola. Uno spettacolo che pare fatto di niente, un niente calibrato sui silenzi, su domande senza risposta, su una luce che si abbassa piano, su movimenti educatamente piccoli, su sguardi mai diretti, su un abbigliamento pissero che si lega in questa ordinarietà sfrangiata ad un linguaggio semplice, usato, sgualcito anch’esso in un equilibrio forse precario - si strapperà prima o poi? - ma Sergio, quant’è difficile costruire un equilibrio?
di Ilaria Fontana
PISA. È semplice non fare più di quel che l’indole umana vorrebbe esigere da sé stessa per non essere travolti dall’ansia del vacuo quotidiano; è possibile liberarsi dalla paralisi dei sentimenti non corrisposti. Basta, dannarsi, nella ricerca di relazioni senza legami spontanei! È davvero spaventoso accorgersi che è inutile fare incastrare con tenacia le tessere di un puzzle esistenziale che invece diventa grazioso seppure con spazi vuoti? Sì o no? Su un palcoscenico orfano di scenografia, privo di sipario, ma in un teatro pieno di persone, è stata la “La Grazia” a insegnarlo, l’opera scritta e messa in scena da Luca Oldani. Questo il debutto al Teatro Nuovo Pisa dello spettacolo che ha visto protagonisti, insieme all’ideatore, Francesca Camurri e Giorgio Vierda, sapientemente guidati dalla regista Irene Serini. Con freschezza e dinamismo, i tre giovani attori hanno preso possesso di uno spazio in attesa solo di essere riempito delle loro voci e dei loro vivaci movimenti. Così, con danze e canzoni, i personaggi hanno evocato emozioni e fragilità in cui lo spettatore non può non rispecchiarsi, riuscendo a evocare immagini con la sola forza delle parole e dei loro corpi. È un’opera ricca di dialoghi privi di una logica - sequenziale, caratterizzata da una successione surreale di eventi che si ripetono ciclicamente, a metà tra il tragico e il comico i cui personaggi, con l’aiuto di semplici oggetti in apparenza eccentrici, si confrontano, discutono e desiderano trovare la soluzione all’assenza di concretezza. Nessuna emozione è sensata se dettata da una società che impone di non fermarsi. La soluzione, forse, è ricorrere alla grazia di fare meno e capire che il vuoto non esiste se esiste la consapevolezza che per riempire le giornate è sufficiente la spontanea abilità insita in ciascuna persona. Allora può bastare non cancellare le tracce di gessetto che disegnano la griglia del gioco della campana oppure osservare le orme di un cerbiatto. Graziose sono le immagini evocate, graziosi sono i pochi oggetti maneggiati, graziosa la meringa, simbolo di leggerezza contro la pesantezza della gabbia del dolore. Gradita, infine, la canzone Le Meringhe, interpretata da Bernardo Sommani, con la quale il pubblico è stato accompagnato all’uscita del teatro.
PISTOIA. Anche stavolta, anche in questa Uno sguardo dal ponte, il dubbio che Massimo Popolizio si piaccia troppo e che il suo super ego lo trascini, inesorabilmente, verso l’interpretazione di sé stesso, oltre che non allontanarsi, si è addirittura fortificato. La sua bravura, intatta e inviolabile, si scontra, sistematicamente, proprio con la sua caratura, fino al punto di concedersi pericolose licenze, come quella, ad esempio, che si è presa, ieri sera, al Manzoni di Pistoia (ultimo appuntamento della stagione in prosa 2022-23; si replica oggi, domenica 23 aprile, alle 16), facendo dialogare Eddie Carbone, siciliano emigrato negli Stati Uniti, in romanesco. E attorno a un solo dettaglio si può costruire una critica? Beh, se si tratta di una caratteristica che contraddistingue la rappresentazione di uno degli ultimi dinosauri della scuola di Ronconi, sì, soprattutto riavvolgendo la pellicola dello spettacolo, diretto dallo stesso Popolizio, un crescendo, inesorabilmente letale, della passione, morbosa, con la quale si prende cura, in un’altalena di emozioni che rimbalzano dalla cura paterna al desiderio erotico, di Catherine, la giovane nipote (Gaja Masciale), che non ha ben capito fin dove possa arrivare l’attenzione dello zio, nonostante le raccomandazioni e gli ammonimenti della zia Beatrice (Valentina Sperlì), moglie insoddisfatta che comunque non farà a meno di prendersi cura e dare degna ospitalità ai parenti clandestini siciliani (Raffaele Esposito – Marco - e Lorenzo Grilli – Rodolfo) del marito che arrivano al porto di New York in cerca di lavoro e soprattutto di un’altra occasione.
FIRENZE. Fino all’avvento del telefonino, la trilogia di Gabo era insindacabile. Ognuno di noi, infatti, vanta una vita privata, una vita pubblica e una vita segreta. Dalla telefonia mobile in poi, però, quello che un tempo consideravamo privato sta ora chiuso in una scatolina; pubblico, privato e segreto appartengono a una sola dimensione e solo chi è davvero senza peccato può scagliare la prima pietra. E così, dopo l’oceanico successo cinematografico raccolto immediatamente sin dai primi giorni dell’uscita, Paolo Genovese, il regista, al settimo anno, ha pensato bene di trasferire, sul palcoscenico teatrale, l’identica virtuale fotografia che anima la pellicola della cena delle beffe di Perfetti sconosciuti (alla Pergola di Firenze fino a domenica prossima, 2 aprile), senza cambiare una virgola. Certo, il cast cinematografico, che appena uscito il film, nel 2016, fece incetta di premi, a cominciare dal David di Donatello e una serie indefinita di candidature come migliori attori a Giallini, Mastandrea e alla Foglietta, addirittura a Fiorella Mannoia per la colonna sonora, è completamente diverso da quello teatrale, ma i personaggi, con le loro simpaticissime, irritanti, ipocrisie e falsità ottengono lo stesso graditissimo risultato, guidando il pubblico, sotto l’egida della sempreverde volgarità romanesca, dalle risate sguaiate della prima parte fino all’inevitabile epilogo intimistico, morale, rispettoso e tollerante delle altrui diversità, imbuto nel quale ognuno, cadendoci, non saprebbe assolutamente come venirne fuori, se mai dovesse succedere.
PISTOIA. Come si fa a dire di no ad Andrée Ruth Shammah che ti nomina erede, unica e universale, di Adriana Asti, affidandoti lo scettro di Maria Brasca nell’anno del centenario di Giovanni Testori che coincide, a sua volta, con i cinquant’anni del Teatro Franco Parenti di Milano? Non scherziamo, via, impossibile. Marina Rocco, milanese doc, tra l’altro (nonostante parli in romanesco perfettamente), una delle anime più malleabili del teatro italiano, non si poteva certo sottrarre da questo onorevolissimo onere professionale e decidere di non incarnare il ruolo, passionario, fisico, rivoluzionario, di una donna simbolo destrutturante degli anni ’60 ma di cui oggi, la società tutta, e soprattutto le donne, oltre che non esserne fiere, guardano con un certo imbarazzo. Ed è per questo che siamo convinti che in cuor suo, la poliedrica, sensuale, poliglotta e inimitabilmente ironica Marina Rocco, seria e impeccabile come Teatro comanda, avrà avuto eccome voglia di dire alla regista ma rimettiamoci le mani, che diamine, su questo magnifico testo, ormai scaduto e rinnegato e facciamogli vivere, in questa resurrezione, una nuova giovinezza! L’esame attoriale (soprattutto quello femminile), scenografico e di garbo storiografico è superato a pieni voti; ieri sera, al Manzoni di Pistoia (si replica oggi, domenica 26 marzo, alle 16), il pubblico, che si rinnova con sconcertante lentezza e nella quasi totale assenza di interscambiabilità generazionale, ha applaudito, calorosamente e con convinzione,
FIRENZE. Riuscire a far tacere, per poco più di un’ora, un’orda di studenti liceali convincendoli, con la sola lusinga del teatro, a silenziare o addirittura spegnere i propri telefonini, è già un inestimabile successo. Non poteva essere altrimenti, perché i suoni che giungono dal palco della preistoria suscitano, contemporaneamente, fascino e mistero e lo spettatore non può fare a meno di cercare di capire a quale fiera appartenga quel sibilo stordente, coperto da ululati dimenticati, a loro volta soppiantati da conversazioni familiari, classiche, usuali, estraibili da qualsiasi contesto domestico. A rimbalzare dal jurassico ai giorni nostri ci pensano, con le loro ugole, le loro voci, le anime perse chissà in quale girone dantesco, Marco Cavalcoli e Monica Piseddu (abituati a frequentare i piani alti dei riconoscimenti Ubu), affiancati, lungo la stessa bisettrice scenica, da Ivan Graziano e Arianna Pozzoli, che completano le voci ad archi e a cappella, di Ashes, lavoro metropolitano della Muta Imago, esibizione senza tempo, né storia, senza corpi, né contesti, ma con un indispensabile sottofondo musicale, quello abilmente prodotto da Lorenzo Tomio, alla chitarra, al violino, alla consolle, andata in onda, ieri sera, al Teatro Cantiere Florida, con una platea di giovanissimi ammutoliti dall’emozione di scoprire che gli effetti speciali sono quelli che ci accompagnano, sistematicamente, lungo tutto il nostro cammino, da quando iniziamo ad avere percezione fino a quando non l’avremo più, per sempre e che spesso è sufficiente prestare la dovuta attenzione a quel che ci succede attorno per riuscire a capire che cosa ci siamo venuti a fare.
di Letizia Lupino
PISTOIA. Ah, che bello correre dopo lavoro verso il Funaro di Pistoia con la palpabile sensazione di un sorriso compiaciuto e presto soddisfatto. Ciò che ci attenderà sarà dunque rapidamente svelato: il palco ingombro mostra la sua stretta ampiezza, sei quinte che nascondono altrettante impalcature di luci; un tappeto di fiori inebria il pavimento e poi sedie e tavoli, alcuni rovesciati a terra e altri no, bottiglie e bicchieri, lampadine e stelle filanti tutto intorno: l’indiscutibile passaggio umano, la fine della festa. Fabio Troiano guidato da Giorgio Gallione guiderà noi, attraverso Il Dio bambino, nei meandri di una normalissima storia d’amore, a tratti quasi banale, nell’annoso confronto relazionale tra uomo e donna. Un cicerone che ci traghetterà per più di un’ora tra maree, cavalloni e secche con l’indubbio salvagente ironico. Trent’anni. Sono passati esattamente trent’anni dalla stesura di questo testo da parte del Signor G e Luporini che stasera vive e pulsa di un rinnovato vigore con la lapalissiana certezza che fra altri trent’anni continuerebbe a brillare fulgido. È una strada che si consuma parola dopo parola, gesto dopo gesto, passo dopo passo. Un tragitto fisico oltre che figurativo quello che Fabio fa, perché è come se donasse nuova tridimensionalità raccontandoci la sua vita, una porzione, forse la più importante, sicuramente la più travolgente.
di Chiara Savoi
SIENA. Ci sono spettacoli che funzionano perfettamente come una macchina con gli ingranaggi ben oliati e Festen, ai Rinnovati di Siena (si replica stasera e domani, domenica 12 marzo, nel pomeriggio) di Marco Lorenzi è proprio uno di questi, uno spettacolo che, nonostante la crudezza del testo, ti fa uscire felice dal teatro. In scena Danilo Nigrelli, Irene Valdi, Carolina Leporatti, Yuri D’Agostino, Elio D’Alessandro, Roberta Lanave, Barbara Mazzi, Raffaele Musella e Angelo Tronca, quasi sempre sul palco a svelare i segreti della famiglia Klingenfeld in occasione della festa di compleanno del patriarca Helge. C'è un problema con tua madre; e quale sarebbe - chiede Christian, il figlio maggiore? Si è stancata delle mie barzellette - risponde Helge. Magari i problemi della famiglia fossero questi. In realtà sono i peggiori che si possano immaginare e vengono fuori proprio durante il discorso di Christian per omaggiare suo padre. Deve togliersi il peso della violenza, quello stesso peso che ha ucciso sua sorella gemella e che si intuisce fin dall'inizio quando il primogenito torna alla casa paterna dopo tanto tempo e sia la musica che le luci contribuiscono a farci respirare un ambiente torbido e soffocante. Qual è la verità di questa famiglia? Quella della gioia della festa del sessantesimo di Helge? Quella della famiglia riunita? Quella dei sorrisi quando il nonno cerca di parlare? Quella delle gelosie tra i fratelli? Quella della ricchezza dei Klingenfeld? Oppure questa è tutta una facciata falsa che nasconde violenze sessuali, omertà, silenzi che esplodono.
PISTOIA. L’incontro con il pubblico del Teatro Manzoni di Pistoia al termine della rappresentazione (si replica oggi, domenica 5 marzo, alle 16) che l’intera compagnia di Pupo di zucchero (giunta nuovamente sul palcoscenico, ma stavolta in borghese, alla spicciolata) ha avuto con la moderazione, appropriata, delicata, professionale e saggia, come non poteva essere altrimenti, di Massimiliano Barbini è la scusa, spudorata, ma inevitabile, di parlarne ancora di questo spettacolo, già recensito, lo scorso inverno, dopo l’esibizione al Teatro di Rifredi. Confermiamo punto per punto e virgola dopo virgola quello che abbiamo scritto allora, aggiungendo quei friccichi d’emozione che sono arrivati ieri sera e che non salderanno certo il conto emotivo se avessimo l’opportunità di vederlo ancora, lo spettacolo. Rispetto a Vita mia, Le sorelle Macaluso, Scortecata, Misericordia, le opere precedenti, Emma Dante, l’ideatrice, la regista, l’architetto, ha solo smaltito la rabbia, conservando, intatta, la poesia, che scevra dall’acredine giovanile, si è addirittura impreziosita. Probabilmente, dopo anni di studio, ricerca, fatica e lavoro certosino, la disillusione cosmica ha preso, inconsapevolmente e inesorabilmente, il sopravvento. Non è un trattato di resa, ma il limite, invalicabile, dello scibile e del rivoluzionabile, oltre il quale non c’è altra soluzione o via che scendere dal palcoscenico e imbracciare le armi.
FIRENZE. Nel titolo abbiamo cercato di sintetizzare tutto quello che, a nostro funereo presagio, dovrà ancora succedere sulle famiglie nate e uccise dalla loro stessa inconsistenza e che prima di noi è già stato sentenziato da un giovanissimo Florian Zeller, che ha previsto catastrofici riflessi con la sua trilogia familiare: La madre, Il padre e Il figlio. Su questo intimo triangolo generazionale si è a sua volta concentrato Piero Maccarinelli, che dopo la traduzione del testo francese dell’autore ha deciso di portare in scena le sue inquietitudini, affidando a un giovane, ma ormai scafatissimo, Giulio Pranno i disagi e i dolori di un figlio che non riesce a capire, men che mai a metabolizzare, la separazione dei propri genitori, che alla Pergola di Firenze (stasera ore 21 e domani, domenica 5 marzo, alle 16) sono interpretati da Cesare Bocci e Galatea Ranzi. Il problema lo crea Marta Gastini, la nuova e più giovane moglie del papà, che ha da poco coronato il suo sogno: diventare madre con il navigato e vincente professionista e dare così al giovane tormentato Nicola un ulteriore fardello psicologico, un fratellastro molto più piccolo (Riccardo Floris e Manuel Di Martino, rispettivamente medico e infermiere del reparto di psichiatria dell’ospedale dove il giovane farebbe forse meglio a restare un po’ più a lungo concludono il cast).
FIRENZE. L’atto di denuncia che la colpa sia sempre e soltanto attribuibile all’altro e alle malevole coincidenze che non ci hanno consentito di diventare quello che avremmo sognato di essere, viene benevolmente inghiottito dal tono surreale delle conversazioni che i tre orfani hanno tra loro e, singolarmente, con la madre deceduta. La fabbrica degli stronzi, del resto, gradita tappa del cartellone del Teatro Cantiere Florida, non poteva esentarsi dalla ragione dei suoi ideatori, l’incontro tra le compagnie Maniaci d’Amore e Kronoteatro, che approfittano, da sempre, per la stesura dei loro lavori, di questa generazione di falliti/frustrati/inetti imbevendola, onde evitare pericolosi incrementi suicidi, con ben visibili pozioni melbrooksiane. Sulla scia di fa’ del tuo meglio, miraggio apicale di quello che riusciamo naturalmente a produrre senza l’aggiunta di null’altro, l’hashtag psicologa Luciana Maniaci e i suoi due fratelli Francesco D’Amore e Tommaso Bianco sono alle prese con la preparazione funeraria della salma della loro mamma, Maurizio Sguotti. Tra i tre orfani non c’è la minima complicità, men che mai consanguineità; ognuno di loro imputa a uno degli altri due il proprio fallimento esistenziale e perché no, generazionale e tutti e tre, più o meno consapevolmente, inevitabilmente ai genitori, che non hanno saputo creare le condizioni connettivali dell’amore da trasmettere, organicamente, ai figli.
PRATO. La luce biancosterilizzata che si irrora dal palcoscenico lascia intravedere che più che un set teatrale ci si trovi al cospetto di un salone psichiatrico, dove però non si capisce bene e sempre chi siano i pazienti. Perché anche quelli che sembra abbiano il potere di dare a questi ultimi un’esaustiva spiegazione dell’operazione/memoria che andranno felicemente a intentare non è che diano inequivocabili segnali di equilibrio. Il paziente più serio è Lello Serao, che dopo una veemente introduzione con e contro la nipote Lisa Imperatore (è lei che avrebbe il desiderio di ricomporre le fratture generazionali della sua famiglia), sembra scivolare, inesorabilmente, nel letale imbuto degli psicofarmaci ai quali viene, virtualmente, sottoposto. Ma Ex – Esplodano gli attori è, probabilmente, tutt’altra cosa, un’invisibile macchina del tempo che riporta nel salone di un appartamento rispolverato per la bisogna i componenti di una famiglia, dai nonni ai nipoti, passando anche per il fidanzato dell’ultima della dinastia, per fare in modo che i dissapori vissuti e sofferti in costanza d’esistenza vengano, tardivamente e solo grazie a un esperimento, chiariti e sanati.
PISTOIA. Ci vogliono coraggio e disciplina registica (Rimas Tuminas), saggezza e lungimiranza d’adattamento (Fausto Paravidino), lungimiranza produttiva (Teatro Stabile del Veneto) e impeccabili protagonisti per ridurre a novanta minuti un interminabile dramma secolare di tre atti. Perché prima o poi, il passato, soprattutto quello tenuto demagogicamente nascosto, riemerge e i suoi effetti sono generalmente catastrofici. Perché non c’è più tempo di riparare al danno e gli scheletri, tenuti ben nascosti negli armadi, prendono forma e corpo, iniziano a parlare, a raccontare e sui piccoli e grandi castelli di sabbia costruiti con la menzogna basta si imbatta una semplice onda, non un’imponente mareggiata, per cancellarli. La storia è vecchia, circa un secolo e mezzo, ma la sentenza degli Spettri di Ibsen è ancora attualissima, perché l’ipocrisia, non solo quella borghese, ma anche quella che circola un po’ ovunque, anche nel sottoproletariato, la fa ancora da padrona. Soprattutto se si affida il racconto e dunque il ruolo, doppio, di abile e indispensabile protettrice/mistificatrice prima e di esasperata rivelatrice di verità dopo, a una femmina di rare fascino ed eleganza come Andrea Jonasson, (81 anni il prossimo 29 giugno), una tedesca con il vezzo francese della erre blesa che non a caso è stata compagna e collega per ventiquattro anni di uno dei mostri sacri del teatro italiano, Giorgio Strehler.
di Letizia Lupino
PISTOIA. La difficoltà dell’incipit sbuffa palese; da dove cominciare quindi se ancora si cerca il finale? Sempre se un finale ci sia stato, non voluto, apparentemente cercato per l’inevitabile chiusa. Il palco del Teatro Manzoni si appresta perciò ad abbracciare una caotica scenografia per un’esclusiva tutta toscana. Dystopia, la nuova creazione di Poyo Rojo, che ha già all’attivo parecchi chilometri. E ben ci crediamo per quel che vediamo. È un laboratorio informatico? Un osservare neanche troppo di nascosto il making of di un film? Un esperimento? Una prova aperta? Una caccia al tesoro in sotterranei inaspettati?! Inequivocabilmente più facile capire quello che non è: non è un soggiorno, non è una pista da ballo, non è un dietro le quinte di una stazione televisiva, non è un camerino, non è un talent show. Non è un sacco di cose che però, incredibilmente, le include tutte. Allora di tutto ciò che non è, appare lampante tutto ciò che riesca a contenere come se i manici di questo ghiotto calderone sorreggessero nuvole serene. I cuochi che condiranno la scena scatteranno prontamente sul palco. Alfonso Barón e Luciano Rosso si presenteranno inguantati in tutine verdi da Chroma Key facendo già, bene o male, presagire una lunga lista di ingredienti.
PRATO. Non conosciamo la vita privata di Massimiliano Civica e non sappiamo se nella notte tempestosa e shakespeariana nella quale è ambientata la sua ultima fatica, La stoffa dei sogni, ci siano anche e soprattutto, oltre ai successi che non gli hanno fatto lievitare il conto in banca, le sue incomprensioni, le sue sconfitte, i rapporti mancati, perché dai quali si è voluto e dovuto sottrarre, con mogli e figli. Avremmo potuto chiederglielo, alla fine della rappresentazione, visto e considerato che al Metastasio (che ha prodotto la spettacolo), dopo lo spettacolo, scritto da Armando Pirozzi, si è messo lì, il regista, a farsi infilzare dalle domande del pubblico. Ce ne siamo andati, preferendo evitare qualsiasi interferenza, anche salvifica, probabilmente, soprattutto in vista della recensione e privilegiare, con la presunzione che goffamente ci distingue, la nostra metabolizzazione di spettatori privilegiati, quelli che siedono alle prime file senza pagare mai il biglietto. Abbiamo preferito non sentire le sue spiegazioni perché ci siamo voluti accontentare delle nostre percezioni, che sono, traslate, le nostre, quelle che ci hanno imposto per una vita intera inseguire le nostre chimere. Le sue, quelle di Massimiliano Civica, sono costellate da una vita trascorsa a teatro, in quella sala/parola magica che è inferno e paradiso, gioia e dolore, successi e sconfitte, andate e ritorni, glorificazioni e condanne.
PISTOIA. Antonio Latella, delle nuove tacite disposizioni teatrali, quelle che raccomandano spettacoli brevi, novanta minuti al massimo, ma possibilmente meno, se ne fotte altamente. Fa bene, perché se lo può permettere. Sì, perché è uno sperimentatore indefesso, con uno sguardo maniacale ai dettagli, quelli che sono religiosamente osservabili e osservati da attori modello-Ronconi, la scuola generazionale con la quale, chi sale sul palco, non può non farci i conti. La dimostrazione, l’ennesima, è arrivata al Teatro Manzoni con Chi ha paura di Virginia Woolf, di Edward Albee, uno dei testi più malleabili per le rappresentazioni perché ci si può fare praticamente tutto. La duttilità del testo e l’intelligenza visionaria del regista sono poi amplificate dalla bravura dei quattro protagonisti, che non sono due prime donne e due affiliati, ma quattro attori che non perdono di vista, mai, i loro ruoli, di vittime e carnefici, di spettatori e protagonisti. A cominciare dalla poetessa Sonia Bergamasco, che prima di vestire gli abiti dell’infelice alcolizzata Martha, ha presentato, alla libreria Lo Spazio, la sua raccolta Il quaderno (La nave di Teseo), a conferma della poliedricità artistica della 57enne milanese che è la dimostrazione lampante di come lo studio e l’applicazione (dieci anni fa, al Funaro, non ci impressionò affatto) paghino eccome.
PRATO. Lo storico fallimento di una certa branca dell’impegno politico si è trasformato, prima di disintegrarsi in un insucceso che chissà per quanto tempo dovremo ancora subire senza poter avere diritto di replica, in demagogia, che rappresenta, a qualsiasi latitudine, la peggior sepoltura, senza nemmeno l’onore delle armi. Giuliana Musso, che conosce il teatro e i suoi maledetti tempi, quando ha deciso di riproporre, a venti anni dalla nascita, il suo Sexmachine, in scena al Fabbricone di Prato, avrebbe dovuto dolcemente mutilare alcune parti iniziali della prima stesura e ampliare, a dismisura, affondando oltre ogni ragionevole tristezza il coltello nella piaga, l’epilogo originale, quello nel quale il piccolo industriale del nordest confida a una mignotta qualsiasi il suo fallimento economico, d’impresa, che si ripercuoterà, inevitabilmente, su quello personale, familiare, con moglie e figlie che disconosceranno il loro marito e il loro padre. Perché una volta abbandonato il sarcasmo sinistrese, che infiniti lutti addusse agli Achei, e immersa nell’intimismo fallimentare di quegli uomini che si sono fatti da soli, stringendo forse troppo il laccio emostatico o esagerando nell’inocularsi stupefacenze, Giuliana Musso, accompagnata, come di rito, dalla chitarra funk e dalla voce carioca di Gianluigi Meggiorin, diventa irresistibile, una maschera teatrale di rara bellezza e tristezza, amplificata da quel diaframma che ricorda, in più di una circostanza, i gregari di un ciclismo d’altri tempi e doping.
Leggi tutto: Si stava meglio quando si stava peggio, comunque
PISTOIA. A certi spettacoli, riservati a un pubblico tristemente massivo, ci pensano, da parecchi anni – e si vede –, la televisione e buona parte del cinema. Il teatro, deputato ad altro, seppur non possa esentarsi dal mercato, può e deve censurare, altrimenti, compie e traccia l’ultimo segmento circolare di un anello che finisce per genuflettere definitivamente l’utenza e convincerla che non ci sia altro oltre quello che il Convento corrotto passi. Una volta, infatti, tanto, tanto tempo fa, quando si stava meglio perché si stava peggio, i grandi mattatori teatrali passavano, saltuariamente, negli studi televisivi e sui set cinematografici perché il loro sottopagato indiscutibile talento da palcoscenico necessitava, inderogabilmente, di liquidità. La situazione, da tempo, si è letteralmente capovolta, soprattutto per gli operatori del settore; se si vuole riempire un teatro, occorre necessariamente chiamare un personaggio che spopola in tivvù. Ieri sera (si replica oggi, domenica 15 gennaio, alle 16), al Teatro Manzoni di Pistoia, è successa una cosa del genere. In scena: Scusa sono in riunione… ti posso richiamare? una sagra panettoniana di battute oltremodo prevedibili, seppur talvolta divertenti (con varie strizzatine d’occhio a Proietti, Montesano e tutta la commedia italiana anni ’80), scritte da Gabriele Pignotta (uno che di sitcom se ne intende) e che vede in scena, oltre all’ideatore, Fabio Avaro, Nick Nicolosi, l’effervescente figlia dei fiori (lo scriviamo per l’egida battesimale; non potrebbe essere diversamente) Siddhartha Prestinari e lo specchietto per le allodole, Vanessa Incontrada, adorabile e insostituibile a non prendersi sul serio negli studi Mediaset al fianco del co-conduttore Claudio Bisio, ma decisamente meno brillante sul palco.
PISTOIA. Geniali, cazzo, fin nel midollo. Li conosciamo bene quelli di Sotterraneo, ma con L’angelo della storia sono andati oltre. E non è certo il Premio Ubu (che bissa quello ottenuto un lustro fa con Overload) che è stato loro conferito per questa rappresentazione che infilza il tempo e la storia, un balletto senza coordinate, con un inizio e una fine programmati, uno start e un arrivo affidato ai telefonini degli spettatori, tra cori a cappella, ritmo forsennato, incursioni grammaticali e temporali a orologeria, brevi semiseri proclami politici e morali, coreografie danzanti alla John Landis e la solita, straordinaria, glaciale presenza scenica a spingerci così tanto nel campo delle glorificazioni, ma stavolta Sara Bonaventura, Claudio Cirri e lo scrittore dietro le quinte Daniele Villa hanno esagerato davvero, portando a compimento un piccolo, immenso, capolavoro. Il Teatro Bolognini, a Pistoia, che ha ospitato la compagnia, in molte circostanze, residente proprio all’Atp, ha avuto il piacere di mangiarseli vivi a suon di applausi, ieri sera, i protagonisti, che per questo concerto a più strumenti hanno assoldato, alla causa sulla scena, Lorenza Guerrini, Daniele Pennati e Giulio Santolini, straordinari soldati per questa guerra di tutti sconfitti, senza nemmeno un vincitore.
FIRENZE. La linea di demarcazione è sottilissima; al di là, c’è lo studio, la memoria, la provocazione, la lotta per la sopravvivenza, l’arte; al di qua, divisa da una lastra quasi invisibile di metallo che non esclude pericolose altalene emotive e culturali, checazzomenefregasenoncapitenienteperchénonc’ènientedacapire. E siccome abbiamo avuto il dubbio che potessimo appartenere, indistintamente, all’una e all’altra fetta di spettatori, ieri sera, al Teatro Cantiere Florida di Firenze, al termine di Senza, siamo rimasti in silenzio, senza battere nemmeno una volta le mani. Gli altri, tutti gli altri, le mani se le sono spellate, rinforzando il gradimento sonoro con ululati approvatori e non nascondiamo che per alcuni istanti ci siamo sentiti, contemporaneamente, dei gonzi e/o dei lungimiranti. Non abbiamo assistito al prologo esplicativo, né ci siamo messi a leggere il foglio di sala; ci siamo lasciati trasportare da Matteo Pecorini (Mr Bean de noantri) e dal suo incomprensibile, ma chiarissimo, parolare, che è quello ereditato e custodito, nel tempo, lasciatogli in dote da una persona che la vita, prima della società, aveva insindacabilmente relegato ai margini, concedendogli il solo lusso di conservare le proprie emozioni su un magnetofono.
PRATO. La risposta alla deriva, al nichilismo, a questa corsa supersonica verso il nulla, forse, è molto più semplice di quello che si creda, o che ci convenga credere, quasi banale. Perché la Rivoluzione – ed è quello di cui abbiamo indistintamente bisogno tutti – ha una formula alla portata di chiunque, di tutti quelli che decidono, scientemente, di fare qualche passo indietro e fermarsi: a guardare, ad ascoltare e a pensare. Non è di un incontro insurrezionalista che vi stiamo parlando, o forse molto peggio, ma del nuovo saggio poetico della Compagnia Scimone/Sframeli, che ha debuttato al Fabbricone di Prato (si replica fino a domenica 11 dicembre) con il loro Fratellina (prodotto dal Metastasio, in prima nazionale), una preghiera asessuata che potrebbe salvarci, forse, prima che il vortice del nulla risucchi tutti e tutto. Due letti a castello, che sono postazioni di prigionia, gabbie, dai quali nessuno degli occupanti scenderà mai, se non per rifugiarsi, epilogo di speranza, nell’atollo della rinascita, separati dalla platea e dal mondo da delle veneziane, che vengono riavvolte al suono della sveglia, dopo un lungo ticchettio al buio che precede l’inizio della rappresentazione. Lo scandire del tempo è il sole e la luna che si susseguono l’uno all’altra e uno specchio, calato dall’alto, è la decisione che scatena l’incontrovertibile consapevolezza del totale abbrutimento umano, al quale occorre dare una risposta vera, efficace, dolorosa.
PISTOIA. Lo spettacolo è nuovo, contemporaneo, drammaticamente reale; la recitazione, però, è antica, strutturata, vista e rivista molte altre volte, forse tiepida nella denuncia, vista la sua inflazione, ma oggettivamente sublime. Dipende dalla grazia di Mariangela Granelli, sposa promessa e annunciata, disillusa donna di mezza età che ha improvvisamente riacceso il fuoco del desiderio e della speranza, in attesa che la casa dove andrà a vivere con il suo futuro marito, l’uomo che l’ha fatta ricredere, sia pronta; che dovrà però fare i conti con lo spettro di un cadavere, quello di Cristina Parku, trovato, completamente nudo, nella piscina condominiale, sposa nascosta, perché ingiustificabile e impresentabile a una società che non potrebbe e non vuol capire, che non ha un nome, un cognome, né si sa da quale parte dell’Africa sia partita per arrivare nell’androne di un lussuoso condominio di una città italiana. Su quest’altalena emotiva dondola, tra paurosi scatti d’ira e tenere/violente sessualità, l’eleganza di Valerio Binasco, fuoriclasse puro del teatro italiano, che dirige e interpreta, al Teatro Manzoni di Pistoia (si replica oggi, domenica 4 dicembre, alle 16), Dulan la sposa, tratto dal romanzo della scrittrice romana Melania Gaia Mazzucco e prodotto dal Teatro Stabile di Torino.
di Letizia Lupino
PISTOIA. Un primo pensiero spontaneo arriva direttamente lì, gli indizi elementari ci sono tutti: una sorta di porta d’ingresso, valigie sparse, la finzione di essere all’aria aperta, le poltrone per l’attesa e l’attesa stessa. C’è voluto un po’ per tentare di mettere a fuoco, in confini a noi riconoscibili, il quadro che ci si para davanti, anche se, un tappeto verde a mo’ di prato, una cornice sospesa e un ramo di acero a mezz’aria ci fanno pensare che più che una stazione il Funaro di Pistoia abbia allestito un sogno, con accostamenti senza senso durante la veglia, ma che si agganciano perfetti come un puzzle quando ci lasciamo andare posando la ragione sul comodino. Allora le voci tacciono, i cellulari si spengono e le luci si abbassano; Giuseppe Cederna entra sul palco come se fosse in ansia da ritardo, dando l’impressione di non sapere bene dove andare, le valigie in mano, uno sguardo perso verso l’oltre e una voce che dall’alto si fa largo nelle nostre orecchie: Mia cara Lison… Ed è così che inizia il viaggio, sembra proprio il caso di dirlo, di un corpo. Giuseppe Cederna incarnerà, battuta dopo battuta, il ragazzino dodicenne che si fa giovanotto, poi adulto, poi anziano fino a spegnersi all’ottantasettesimo anno di età, è un discorso confidenziale tra lui e noi, è la messa in scena di un diario segreto ma non intimo, sai quante riserve ho sul resoconto dei nostri mutevoli stati d’animo.
PRATO. Quando si alza dal suo malandato scranno per scendere, con attenzione, vista l’età e l’enigmistica coreografia, e immergersi nella vasca rosa dove i suoi ricordi, demoniaci, lo intratterranno fino alla morte (?), leggendo, canticchiando, le deliranti considerazioni dell’inesorabilità del suo suicidio, che non si consumerà certo, l’attenzione è già andata a farsi benedire, perché la visuale, kitch fino al parossismo, ha già lasciato intendere che di Libidine violenta non c’è assolutamente nulla da capire. Enzo Moscato, del resto, ideatore e regista di questa ennesima provocazione che replicherà al Metastasio di Prato fino a domenica prossima, 27 novembre, dopo aver ricevuto il placet dai propri conterranei partenopei, ha già detto, scritto e scandalizzato tutto e tutti, con una serie innumerevole di rappresentazioni puntualmente applaudite dal pubblico, italiano e straniero, e puntualmente insignite da riconoscimenti ufficiali, a partire dal primo, nel 1985, a Riccione e fino ad arrivare all’Ubu, quattro anni fa, immancabile suggello alla carriera. Dai Quartieri Spagnoli, dove è nato, a Recife, dove è andato a tenere lectio magistralis, passando dalle cattedre di parecchi atenei, Enzo Moscato è, insindacabilmente, un autore cardine e di riferimento di tutta la drammaturgia degli ultimi quarant’anni.
FIRENZE. Ride divertita, Concetta, come se non fosse lei la bestia trascinata dal padre che la venderà al mercato in cambio di una capra gravida. Ride divertita, Federica Carruba Toscano, ideatrice di Immacolata Concezione (uno spettacolo Vucciria Teatro prodotto dalla Fondazione Teatro di Napoli - Teatro Bellini), come se quel corpo, nudo, indifeso, disumanizzato, trascinato a forza bestiale da una catena fissatale al collo, seppur desiderato dagli uomini, invidiato dalle altre puttane e schernito, tra indignazione e pietà da tutto il resto, che gira tra gli spettatori del Teatro di Rifredi, a Firenze, dalla parte più alta della platea fino a guadagnare il palcoscenico, non fosse suo, ma appartenesse a un’altra vittima, che fosse carne di altro macello, che fosse merce di scambio di altra povertà. Siamo nella Sicilia degli anni ’40, a due passi dal secondo conflitto mondiale; il Fascismo è all’apice della sua demenza, a un passo dalla sua tragica e cruenta fine, ma rende ancora l’idea del potere, che lo glorifica in tutta la sua aberrazione. L’acquirente di Concetta, con un seno prorompente, una pelle inflaccidita che fa curiosità e sangue tra i suoi futuri clienti e un sorriso disarmante che la proteggerà e la condannerà, è la tenutaria di un bordello di infimo ordine. Il tempo, però – e sono più di ottant’anni -, non sembra essere passato. Non ci sono più i bordelli (purtroppo), vero, e le ragazze costrette a vendere il loro piacere non vengono più trascinate al mercato legate con una catena al collo, ma il commercio della carne è ancora florido, attivo.
Leggi tutto: Una Madonna violata, una Bocca di rosa sprovveduta
FIRENZE. Il dolore, stavolta, si affievolisce un po’; non è la solita Emma Dante, quella di Carnezzeria, Vita mia, mPalermu, tanto per intenderci, o quella, avvicinandoci al contemporaneo, Le sorelle Macaluso, Scortecata, o Misericordia. Con Pupo di Zucchero, con due tutti esauriti al Teatro di Rifredi, la regista siciliana si allontana qualche centimetro dal dolore genuino, quello che strappa lembi di stomaco e consegna al nichilismo e alla riflessione alcune pagine riservate a gli ultimi. Però resta lì, attorno alla poesia, alla pittura, alle coreografie umane, alla melodia, alle rivisitazioni del sacro e del profano, con al centro dell’attenzione ancora una volta il camaleontico Carmine Maringola, l’ultimo sopravvissuto di una dinastia familiare ormai consegnata alla morte, e alla sua memoria, non contemplata all’Anagrafe, figuriamoci dalla storia. La scena è quella di sempre, con poco o nulla sul palco. Ma i ricordi prendono vita e ci trascinano indietro nel tempo, attorno alla lenta e irrisolta lievitazione del pupo di zuccaro, inderogabile rituale culinario della festa dei morti, quella del 2 novembre, quando nella modestissima casa vivevano tutti insieme: il figlio, ormai invecchiato, tremulo e deforme, con la madre francese, il padre marinaio sempre lontano e risucchiato dai flutti, Rosa, Primula e Viola, le tre sorelle in attesa di matrimonio, zia Rita e zio Antonio sistematicamente avvinghiati dal sesso e dalla violenza, Pedro, lo spagnolo innamoratissimo di Viola e Pasqualino, il figlio di colore adottato, per pietà, dalla mamma.
FIRENZE. Datemi una foto e vi spiegherò il mondo. Almeno il mio. Ma non perché dalla foto si possa risalire ai genitori, alla famiglia, al quartiere, agli amici. No. La foto è un meraviglioso tragico pretesto grazie al quale, senza andare in analisi, l’osservatore riesce a vomitare tutto quello che ha tenuto involontariamente, ma gelosamente in seno, per una vita intera. E un giorno, il 21 maggio 2004, per l’esattezza, il Washington Post pubblica quel macabro rituale della prigionia di Abu Ghraib dove una ragazza, una teen agers qualsiasi, capelli corti, corpo minuto, occhi anonimi, ma in divisa militare, tiene al guinzaglio un uomo da poco torturato e che poco dopo continuerà a subire torture. Claudine Galea, che aspettava un momento propizio per liberarsi di dosso tutte quelle sovrastrutture che fino a quel momento l’avevano appesantita fino al soffocamento, in quella foto non vede quello che ogni spettatore inorridito scorge e impietosito invoca la carità, ma ben altro, che poco o nulla sembrano avere a che fare con quell’immagine inequivocabile. E si mette a scrivere: Au bord, un viaggio a ritroso iniziato proprio da quella fotografia che fa il giro del Mondo così come l’autrice riesce a rovistare sé stessa.
di Letizia Lupino
PISTOIA. Un’unica data quella di stasera al teatro Manzoni di Pistoia. Un’unica data in questo molle giovedì che accompagna il fine settimana. Sorprende la scelta o forse no, ma il teatro non sgomita, la platea è morbida, i palchetti pressoché vuoti. Sembra quasi che lo spettacolo che andrà in scena sia per gli addetti ai lavori o per chi lo ha organizzato. Facce fresche riempiono fin dove lo sguardo può abbracciare: non sembra certo il solito posto di qualche giorno prima. Le eco cambiano. I target anche. Evidentemente. Il palco è sgombro, bianco il fondale e il pavimento. Una poltrona gonfiabile fucsia da un lato, un microfono ad asta dall’altro. Niente di più eppure è sufficiente, forse avanza. Le luci si abbassano quel tanto che basta per rischiarare il buio completo. Il bianco è abbacinante, la poltrona spicca come un frutto maturo nella sua gonfiosa opulenza. L’ingresso musicale di rito fa da apripista a Cristiana Morganti (fresca fresca del Premio della Critica 2022, per questo spettacolo prodotto dall'Atp) che sale sul palco come se fosse il soggiorno di casa sua, una confidenza di anni di frequentazione. Non ci sono segreti, tutto è palesato, tant’è che il bianco pare ancora più bianco. Behind the light d’altronde è ciò che già è. Non siamo pronti a quello che sta per succedere. No, non siamo pronti, perché la danza è sempre un po’ un labirinto; tu ci entri con una direzione per poi scoprire che ne esci completamente ribaltata da un’altra. Frastornata. Ed è esattamente quello che è successo a noi.
di Letizia Lupino
PISTOIA. È una prima nazionale quella di stasera (29 ottobre, senza la pomeridiana replica odierna: Chiara Caselli si è fatta male a un polso; impossibile riandare in scena) al Teatro Manzoni di Pistoia. Prima nazionale e Pistoia insieme. Sono circa le 20:40 di un sabato al finale, sono al lavoro e i movimenti si accelerano, come se fossi una moviola al contrario mi muovo meccanicamente con un solo obiettivo in testa: mica voglio arrivare tardi a una prima e per giunta nazionale? Mi sono anche vestita bene per l’occasione, cioè, in realtà niente di troppo diverso dal solito, però questa cosa del vestirsi in un certo modo per il teatro mi ha sempre fatto sorridere, così come poi rendermi conto del binomio generazionale: cozze abbarbicate ad uno scoglio da un lato e pesci volanti dall’altro e oltretutto è anche sabato sera, ma mi riserverò per dopo il gusto di scoprirlo di nuovo. Raccatto le mie carabattole nel mentre i miei capi stanno discutendo su come legare un fiocco intorno al collo di una bottiglia di vino, piccolo pensiero per essere stati eletti a covo perfetto della compagnia; casa Vianello nello Spazio (la libreria n.d.r.) breve di un sipario che presto si aprirà. Presto appunto. E non c’è andata neanche troppo male per essere sempre il solito sabato sera. Il pacchetto è pronto e noi pure e con la curiosità negli occhi accorciamo, un passo davanti all’altro, la strada che separa noi e il velluto rosso.
di Dario Monticelli
LIVORNO. Vincent River è un dramma del poliedrico artista britannico Philip Ridley, che ha spaziato in ogni forma d’arte conosciuta, persino la regia di qualche horror d’autore con interpreti hollywoodiani. E quindi, non è un caso se l’opera, tradotta da Carlo Emilio Lerici (che ne curò la regia tre lustri or sono) e Fabia Formica, musicata da Giovanni Sabia con immagini e video di Matteo Tortora e la messa in scena della compagnia Atto Due di Firenze (per la regia di Sandra Garuglieri e Marco Toloni, molto sobria e netta), sono resi con un deciso taglio cinematografico. Dialoghi duri da serata al cinema quando non ti va di trattenere le lacrime e sei più propenso alla sospensione dell’incredulità, cazzo e Cristo come se piovessero, energie recitative sincopate a volte stranianti, ma perfettamente coerenti con l’atmosfera intima e al tempo stesso da dietro lo schermo del testo (e uno schermo da videoproiezioni è in effetti interposto tra scena e pubblico). Simona Arrighi, vibrante e coriacea Anita, madre scontrosa, ma rotta da un dolore indicibile. Samuele Anselmi, verde, ma con padronanza consumata nella parte del giovane Davey, che rinviene il cadavere del figlio della donna: Vincent River. Un brutto fatto di cronaca nera, un giovane uomo assassinato. La periferia violenta. I valori familiari più forti delle relazioni umane. Un vicinato moralista come nelle peggiori dittature.
di Dario Monticelli
LIVORNO. Nella rimodernata struttura ottocentesca che prende il nome di Nuovo Teatro delle Commedie, uno dei più dinamici poli culturali e di aggregazione e perché no, divertimento cittadini, venerdì 21 ottobre serata doppia nel contesto del Little Bit Festival. Formula fortunata e invitante, due spettacoli a prezzo scontatissimo. Andiamo a parlare del primo di questi. Recital Pasolini, corsaro vero, lettura liberamente ispirata a due famigerati editoriali del maestro, a suo tempo pubblicati sul Corriere della Sera, quello del 7 gennaio 1973 Contro i capelli lunghi e quello del 14 novembre 1974 Cos’è questo golpe? Io so. Non da tutti riconosciuto come tale, grande scandalizzatore, spesso giustamente recuperato, Pasolini è una figura chiave e tra le più eccelse del panorama intellettuale italiano moderno. Fatevene una ragione. Acuto, pungente, sensibile, scomodo, profetico come pochi. Ma al di là del contenuto degli editoriali (che invitiamo comunque a leggere, diremmo quasi con cadenza regolare, a costante promemoria di chi eravamo, ma viene da dire di chi siamo e di chi purtroppo siamo condannati a rimanere, come popolo italiano), non si limitano a fare da megafono, ma anzi sono protagonisti vivi, la voce di Aldo Galeazzi (noto poeta livornese) e le atmosfere sonore e musicali realizzate live da Mirko Sarti, mai invadenti e perfette nel calarci nello stato d’animo del testo e dei suoi accenti.
PRATO. Ad onor del vero e per dovere di cronaca, visto che al racconto spagnolo dell’epica sfida con i marziani verdeoro filtrato dalla sua lente di deformazione, più che di ingrandimento, palermitana, premette una serie di contemporanei accadimenti cosmici, da omicidi mafiosi a congetture internazionali, stragi di angoli di terzo mondo e arresti eccellenti, Davide Enia, mattatore esaltante del suo sequel Italia-Brasile 3 A 2, avrebbe potuto e dovuto aggiungere un paio di dettagli, come l’esplicito riferimento al calcio scommesse e il sospetto, che per Oliviero Beha fu certezza, tanto che la sua insinuazione gli valse la cacciata dall’Olimpo del Pallone, lui che era uno dei pochi a poter disquisire di calcio, che il pareggio con il Camerun, che consentì agli azzurri di Bearzot di proseguire il cammino del Campionato del Mondo in Spagna, fu frutto di una combine al di sopra della liceità. Ma lasciamo da parte la nostra ossessione verista/illuminista e sediamoci nelle poltroncine del Metastasio di Prato, dove fino a domani pomeriggio (domenica 23 ottobre) andrà in scena la replica della rappresentazione e godiamoci la coinvolgente affabulazione siciliana, sorretta, scandita e giustificata, più che accompagnata, dalla colonna sonora verghiana sì, ma ricca di rock e saudade, della chitarra e della batteria di Giulio Barocchieri e Fabio Finocchio.
di Luna Badawi
PRATO. Va in scena, per il battesimo stagionale 2022-23 del Metastasio di Prato, la seconda parte della Trilogia della vita privata di Milo Rau, regista svizzero, oggi alla guida del NTGent in Belgio. Nella prima parte di questa trilogia, Rau, insieme alla sua squadra, affrontava il tema del suicidio collettivo, mettendo in mostra una società sull’orlo del baratro. Il ritratto della società occidentale in forte declino. In questa seconda parte, Rau decide di affrontare il tema dell’eutanasia, del dolore, della perdita: Della Morte. In una società in cui l’ascolto solidale è sempre più assente, dove si parla tanto, ma non ci si ascolta, metterci a nudo scoprendo le nostre ferite diventa un atto sovversivo e di grande coraggio. Il lutto e la perdita, nonché la decisione di abbandonare la vita e rifugiarci nella morte, sono temi tabù ancora oggi, che meritano più spazio nel dialogo della sfera mediatica e politica. La fragilità umana, la complessità dell’esistenza, la volontà di raccontarci e ritrovarci nei racconti altrui per non sentirci soli, sono temi che dopo tutto hanno la priorità anche in teatro. Da qui parte Rau con delle domande essenziali: Come raccontiamo la morte mentre siamo in vita? E cos’è per noi la fine? Come possiamo soffrire e scomparire?
di Letizia Lupino
PISTOIA. È Il giorno prima delle elezioni, nel silenzio elettorale che mi appresto a tornare, dopo diverso tempo, al teatro Bolognini di Pistoia. Sono stata avvertita il giorno stesso, posso quasi osare all’ultimo secondo e la parola che mi convince subito è una sola: Ginevra di Marco, e il resto non lo sento neanche. Mi accerto soltanto del luogo e dell’orario, onde evitare di fare come mille altre volte. Quella di stasera è semplicemente la conferma di quello che già so. Non importa quindi se non conosco, nel dettaglio o anche meno, quello a cui andrò incontro. Salgo le scalette che invitano nell’atrio del teatro come se andassi a un appuntamento al buio. E forse in qualche modo lo è. La locandina, posta alla mia sinistra, stuzzica a malapena il mio sguardo che non cede al blando richiamo di una copertina ammiccante. Lo sguardo infatti è oltre, spazia dalla biglietteria all’ingresso della sala, frugando i pieni, i vuoti, le attese e le chiacchere sospese in un molle brusio. Tranquilli ragazzi, l’ingresso è gratuito. ci dicono e così, con passo meno incerto, ci avviciniamo alle colonne di Ercole della platea. Varco la soglia, le poltrone sono quasi tutte occupate. Sorrido e aguzzo la vista, per ciò che rimane voglio riuscire a godermi lo spettacolo senza slogarmi il collo che manco a Wimbledon. Individuo così la fila perfetta, non ho nessuno accanto a me se non colui che presto mi farà da staffetta. L’aperitivo bussa. Il palco preparato e aperto chiama la mancanza di chi condurrà lo spettacolo.
di Letizia Lupino
PISTOIA. Il fondale e il pavimento sono ricoperti da enormi teli bianco latte, al centro un parallelepipedo rivestito da rettangoli di plastica neri, pile di riviste e libri appoggiati sopra e ai lati - è questo quello che mi si para davanti quando, una volta tanto, per prima, varco la soglia del Funaro di Pistoia per teatri di confine. Il ballerino, scoprirò dopo, fugge via come se fosse stato beccato con le mani dentro la marmellata. Il cesello cardiopatico dell’ultimo secondo. L’odore caldo del legno ci avvolge senza chiedere il permesso e un padre con la figlia, dietro di me, si scambiano saperi e impressioni. Sorpresi perché e carezzevoli ragioni. Sorrido. Gradualmente la luce si scolora fino al buio. È l’inizio di Fray di Olimpia Fortuni, il primo di un doppio appuntamento con anticorpi explo-tracce di giovane danza d’autore. Ed è dunque con Fray e attraverso una piccola lucciola rossa che si accende e indugia dietro il nascondiglio rettangolare che ci immergiamo in questo viaggio visionario dell’uomo che tramite una ricerca spasmodica del sapere cresce e si fa grande, si muove fra le anse della vita raccogliendo a più non posso i frutti di quel sapere che poi, inesorabilmente, lo schiacceranno. Pier Adolfo Ciulli interpreta con vigorosa presenza questo viaggio folle, che forse vuole essere simbolo universale di una deprecabile ingordigia che come un treno lanciato a gran velocità non lascia il tempo di guardare fuori dal finestrino.
di Letizia Lupino
PISTOIA. Un arco temporale di 91 anni, dal debutto di quel lontano 12 febbraio a una nuova e sorprendente proiezione al Funaro di Pistoia il 2 settembre 2022. Sì, sembra di essere al cinema, ma senza popcorn, ma cosa importa se quel che viene proiettato è Dracula di Tod Browning, pietra miliare del genere horror e di quello che da allora è diventato? La veste è sempre quella ovviamente, un film in bianco e nero senza perimetri netti, nonostante il periodo storico sia delineato, che ti sbalza subito indietro in un tempo indefinito, almeno, questa è la sensazione che io vivo. Il bianco e nero mi trasporta in un limbo temporale spreciso, sfrangiato, opaco. E mi piace, mi piace un sacco. Così quando sono arrivata in sala non sapevo bene cosa aspettarmi; d’altra parte mi ero anche informata poco lasciandomi solo trasportare dalla locandina che avevo visto: Dracula, riadattamento cinematografico del celebre romanzo di Bram Stoker e dai brividi che, sia il film di Francis Ford Coppola che il libro, mi avevano lasciato a suo tempo. E tanto perciò mi è bastato. Travolgente la decisione di rendere la colonna sonora, di cui il film del 1931 è quasi totalmente privo, reale da quarta dimensione, visibile, presente e possente.
di Letizia Lupino
PISTOIA. È un biglietto che sventola con una certa sollecitudine quello che mi accoglie al Funaro di Pistoia. Sono arrivata tardi, sì, quantomeno ho spaccato il minuto. Con ferma gentilezza vengo invitata ad entrare svelta in sala con un altro biglietto in mano, lo guardo senza attenzione, mi siedo; lo riguardo: Every brilliant thing, 999.997 l’alfabeto. È così che mi rendo conto che fino a quel momento il mio sguardo non si era fermato oltre la punta del mio naso. Alzo la testa e mi accorgo che la sala è gremita, le sedie mangiano parte del palco non compromettendo in alcun modo la poca scenografia presente: un tavolo, una grossa scatola e un panchetto. Il pubblico fremente nella sua compostezza tiene in mano il solito biglietto che ho io, sbircio a destra e a manca: sì, ce l’hanno tutti. È una morbida partecipazione a quello che sarà. Il protagonista-narratore è già in scena e aggirandosi per lo spazio ci guarda come se il focus fossimo noi. Le luci rimangono accese, nessuno stacco, nessun avvertimento e lui comincia a parlare. Filippo Nigro muove i primi passi lasciandoci attendere all’uscita di scuola, lasciandoci immaginare di essere tutti quanti bambini di sette anni alle prese con l’evento che segnerà, inevitabilmente, la vita di tutti noi per 90 minuti. È un lungo racconto-incontro che scivola fra le volute di una vita intera.
LIVORNO. E chi vi dice che sia una disgrazia, cadere. Nella premessa non ci sono retaggi cattolici, che benedicono gli ultimi, né di riscossa, che animano la speranza. Cadere e restare a terra, senza accusare fratture, emorragie, dolori, capogiri, contusioni. Restare a terra perché la vita, di più, oltre a quello a cui ci ha condannato, non possa ulteriormente infliggere. A raccontare questa storia, Di Malavoglia - tra un complemento di specificazione e una locuzione avverbiale - surreale, poetica, morale, civile e politica soprattutto, ha pensato Michele Santeramo, uno degli ospiti di prestigio di Scenari di Quartiere, rassegna nomade di Livorno che invece che approfittare degli spazi consueti, ha deciso di impreziosire angoli di città che altrimenti sono riservati e destinati a passeggiate con molossi e soprammobili al guinzaglio, qualche canna e pomiciate all’imbrunire. È successo lì, nel Parco sotto le mura Lorenesi, nel quartiere San Marco, poco dopo le 19,30, quando il sole alto e caldo ha iniziato la sua quotidiana e inesorabile discesa agli inferi notturni, regalando alla numerosa platea, principalmente femminile, come al solito, l’ombra indispensabile per assistere alla rappresentazione senza obbligare nessuno a farsi visiera con una mano appoggiata sulle sopracciglia. I gabbiani, in compenso, letteralmente insensibili alla poesia del racconto, hanno continuato a emettere, imperterriti, i loro garriti, che appartengono al rito, essenziale, della cena, quando il vento decresce, il mare si appiana e pescare è più semplice.
PRATO. Ci cademmo quasi tutti, in quella trappola. Eravamo convinti che quella polvere, invece distribuita proprio da chi credevamo di combattere e distruggere, ci avrebbe consentito il lusso di volare sopra le loro teste, quelle dei nostri nemici. Andò esattamente come gli inventori e primi spacciatori su scala internazionale sperarono; ne sotterrò molti. Uno dei più illustri, con tutto il rispetto di migliaia e migliaia di semplici creduloni che furono assorbiti dalla spirale della rota con la stessa mostruosa velocità e dipendenza che toccò in sorte a intellettuali, musicisti e personaggi parecchio scomodi, invadenti e pericolosi, fu Andrea Pazienza, di cui sorvoliamo di snocciolare i dettagli leggendari che ne hanno caratterizzato l’esistenza e ci accostiamo a lui, con rispetto sacrale, approfittando de Gli ultimi giorni di Pompeo, l’opera massima del vignettista marchigiano che rappresenta, ma solo per tragiche coincidenze, il suo testamento fumettistico. Parliamo del testo con il filtro, notevole, struggente, onirico e ironico, del teatro, il Fabbrichino di Prato (domenica 1° maggio, nel pomeriggio, ultima replica), per la precisione, dove si sono dati appuntamento Riccardo Goretti, Massimo Bonechi e Giorgio Rossi, trino e uno e hanno dato vita alle ultime ore di Pompeo, il nome con il quale Andrea Pazienza decise di parlare, scrivere e disegnare di sé, per l’ultima volta, in terza persona.
PISTOIA. La notoria scaltrezza teatrale di Roberto Valerio, mago dei tempi di distribuzione del serio e del faceto, dell’evasione e della concentrazione, di come condurre il pubblico con redini elastiche fino al tramonto senza soluzione di continuità, si è presa una pausa e ha messo sul piatto della propria biografia un’opera di altissima risoluzione ottica, chiedendo ai protagonisti assoldati alla bisogna uno sforzo superiore. Il risultato, Zio Vanja, opera plurirappresentata e pluridecantata del drammaturgo russo Anton Cechov, è oggettivamente superlativo. Certo, è un testo che consente, anzi, obbliga, gli ardimentosi a cimentarsi in improbabili rielaborazioni, vista la sedimentazione di cui gode ormai di oltre un secolo, ma l’operazione del regista romano è veramente impeccabile. Dalla scelta dei protagonisti, uno migliore dell’altro, a quella della scenografia per il riadattamento, per quattro atti che si consumano, tutti, all’interno del salone della tenuta e che sembrano inseguire l’immobilismo delle singole personalità, dilaniate dalla necessità di dare un senso alle proprie esistenze senza però riuscire, ognuno all’interno del proprio microcosmo, a fare qualcosa, a muoversi, ad agire. Di Zio Vanja non vi diciamo nulla per il rispetto che si deve nei confronti di lettori alfabetizzati.
PISTOIA. Far ridere, è affar serio. Riuscirci per un’ora e mezzo, quasi ininterrottamente, è proibitivo. È così difficile, che alla fine, l’illusionista Maria Cassi, onecatshow del suo Maria… animale da compagnia, ha deciso che per ringraziare il pubblico pistoiese del Funaro, che l’ha incessantemente omaggiata a suon di risate e battimani per tutta la rappresentazione, fosse giusto piangere. In quelle lacrime, la liberazione di un bloccoumanocosmico che sembra finalmente alle spalle e un dolore, incommensurabile e inconsolabile, con il quale ha dovuto fare i conti proprio recentemente e dal quale non si separerà mai. Del resto, That’s life, opus maximum di Frank Sinatra, di cui anche la sua reincarnazione canadese, Michael Bublé, ha voluto allungarne la leggenda, è il motivo che apre e chiude il sipario sullo spettacolo. Che nasce da un pretesto perdonabile, Viaggio intorno alla mia camera, manoscritto di Xavier de Maistre, ormai impolverato da oltre due secoli di storia e figlio di una condanna, di quaranta giorni, agli arresti domiciliari. Quando i muscoli facciali sono così allenati da potersi deformare plasticamente, quando con quella voce fiorentina, scusaci, Maria, fiesolana, che sembra una fioritura irriverente sulle origini della purezza della lingua italiana e invece è lo slang abituale da piazza San Marco a Settignano, quando le mani, anziché accompagnare un monologo irriverente sembrano essere quelle di un direttore d’orchestra, beh, sappiate che ci troviamo al cospetto di un’animalessa da palcoscenico che da trent’anni porta in giro i suoi personaggi e lei stessa in tutto il Mondo.
FIRENZE. Non è solo semplicemente il custode del Museo Pasolini, Ascanio Celestini. Dipenderà dalla crisi, strisciante e progressiva, di tutto ciò che è cultura, arte, ma oltre a ricevere i visitatori, l’usciere sostituisce tutte le altre figure e costituisce l’anima della memoria dell’intellettuale bolognese. Lo fa, come perfetto traghettatore per carovane di turisti organizzate, snocciolando, in esemplare sequenza cronologica, nomi, date e posti dove Pier Paolo Pasolini ha segnato la propria vita e quella del ventesimo secolo. Una vita che, ironia della sorte, inizia e coincide con l’anno zero dell’Era Fascista: 1922, la marcia su Roma. Il Teatro Puccini di Firenze è pieno in ogni ordine di posti. Sul palcoscenico, oltre a una sedia impagliata, una porta rossa che non si aprirà mai, ma sulla quale busseranno, in cerca di favori o di via libera, si può procedere, un sacco di mani, anche una serie di scatole, scatolette, una bacinella, tutte disposte a emiciclo intorno alla sedia, unite tra loro da uno spago che sembra voler segnare continuità, ma che resteranno lì per tutta la durata della rappresentazione, più di due ore, senza che lo storiografo ne faccia uso, menzione, che si rifugi in loro. Una compagnia scaramantica, forse, le poche cose, i pochi oggetti salvati e conservati nel museo Pasolini. Perché non c’è tempo di distrarsi in dettagli. L’autore enciclopedico parte da lontano, dalla mamma, dai nonni materni, dai primi passi di Pier Paolo Pasolini, dalla nascita, il 5 marzo in quel di Bologna, e seguendolo via via in tutti i vari spostamenti, attraverso il Veneto, il Friuli, la Liguria, fino all'Idroscalo di Ostia, dove il 2 novembre 1975, fu trovato morto, massacrato di botte. Lo fa in perfetta solitudine (direttissima, solitaria, invernale, come direbbe Bonatti), come gli è consono, lasciandosi scappare ogni tanto dei sorrisi, che non servono e non vogliono stemperare il clima; ma chiacchierando, anche di atrocità, succede.
PISTOIA. Idea di tutto rispetto, quella prodotta da un bel po’ di società, patrocinate, tra l’altro, da Amnesty International, nel mettere in piedi La classe. Ma il buono che regna e che alla fine, seppur dopo un epilogo violentissimo, prende il sopravvento su una situazione invece praticamente e sistematicamente irrecuperabile, ci fa storcere un po’ il naso (tanto sotto le mascherine non si vede). Vincenzo Manna, l’autore e Giuseppe Marini, il regista, hanno messo in piedi un cast di tutto riguardo, con i due senior (Claudio Casadio, nei panni di un Preside come tanti, quasi tutti, tronfio di moralismi, ma anche di utili consigli sbrigativi e Andrea Paolotti, il professor Albert, che tenta disperatamente di trasformare una piccola classe differenziale di future vittime di soprusi, abbandoni e sciagure, dal basso della sua posizione intermedia, quella di professore potenziato, in attesa della nomina in ruolo) ad armonizzare sei studenti problematici: una schizofrenica (Caterina Marino - Maisa), un classico capobanda da quartieri difficili (Federico La Pera – Nicolas), una conturbante futura velina, casomai sposa di qualche calciatore dislessico (Valentina Carli – Arianna), la sua amica, decisamente meno inguaiata e più taciturna (Giulia Paoletti – Petra), un sinti alla prese con un difficile reinserimento (Edoardo Frullini – Vasile) e l’arabo che sogna un futuro migliore, pieno di pace, libero da qualsiasi forma di inquinamento e con tanta, ma tanta droga in circolazione (Andrea Monno – Talib).
di Dario Monticelli
PIOMBINO (LI). Manola torna a teatro, contenitore d’intrattenimento e socialità, come celebrato nei saluti finali, con una brillantissima Chiara Noschese e una Nancy Brilli in forma smagliante. Per quest’ultima, un ritorno, perché già nel 1995 fu protagonista di questo spettacolo, a fianco dell’autrice/attrice Margaret Mazzantini, pièce poi edita nel 1998 da Mondadori, sotto forma di romanzo. Adesso Enfi Teatro ne riprende la produzione, sotto la regia misurata di Leo Muscato. Siamo al Metropolitan di Piombino e in mezzo alle macerie di una scenografia che potrebbe richiamare una vecchia casa bombardata (immagine quanto mai d’attualità, ma i riferimenti al mondo di oggi si fermano qui), spuntano due resilienti fiori: Ortensia (Noschese) e Anemone (Brilli), gemelle del tutto diverse, sempre pronte a bisticciare, ma più divise da un radicalmente diverso modo di affrontare la vita, piuttosto che da inconciliabili contrasti. Manco a dirlo, una goffa e insicura, un po’ sfigata, de sinistra, l’altra, aperta e solare, decisamente spigliata e de destra. Atmosfera vagamente anni ‘50, complice la colonna sonora scelta, con qualche riferimento anacronistico. Ma non serve farci caso e si deve prendere tutto alla leggera, così come del resto le due protagoniste affrontano tutta una serie di disavventure familiari e sociali, a tratti con l’esuberanza e l’espressività di buffi personaggi looney tunes! Il pubblico, folto e maturo, ride di gusto dimostrando di apprezzare la raffica di battute, non necessariamente sofisticate.
di Dario Monticelli
PISA. Prima ancora che si accendano le luci sul palcoscenico, avverti già l’alcol bruciarti in gola; nel bagno in fondo a sinistra, la suola delle scarpe sdrucciola sul pavimento fradicio di urina, urina nella migliore delle ipotesi; i gomiti che si appiccicano al bancone, perché il bastardo prima di te non ha usato quei dannati sottobicchieri. L’aria densa di sigaretta invece no. Ci sarà birra a fiumi, cocaina, una motosega, ma le sigarette sono bandite. Fa un po’ strano, ma tranquilli, nessun pudore politically correct all’orizzonte. Ci pensa subito l’introduzione fuori campo di un mefistofelico Alessandro Haber (voce che, seppur registrata, tornerà come vero e proprio personaggio, incorporeo quanto devastato e minaccioso, come la cattiva coscienza del mondo occidentale, cattivissimo e xenofobo, eppure così fragile) a dare il timbro su cui si accorderanno gli strumenti/attori: eh sì perché lo stile da sit-com americana s’intona bene con i ritmi di un incessante jazz recitativo. Mai una nota fuori posto, letteralmente: sottofondi musicali azzeccati e mai invadenti e diaboliche citazioni disneyane. Clima teso e scenografia sfasciata e spaccata in questo Animali da bar (di Carrozzeria Orfeo, prodotto da Fondazione Teatro della Toscana, al Teatro Nuovo di Pisa), come le loro vite tragicomiche.
PRATO. Non si era mai cimentato con Samuel Beckett, solo perché lo è profondamente, beckettiano. Ma ora, deve essere decisamente più tranquillo, Massimiliano Civica, tanto che per il suo Metastasio, del suo mai confessato mentore ha deciso di portare in scena una delle opere più controverse, difficili, introspettive: Giorni felici. E conoscendo i rischi che avrebbe potuto correre con un’opera così minimale, insignificante, virtualmente esposta dunque a vessazioni di ogni tipo, ha affidato il monologo a un diaframma mostruoso, quello di Monica Demuru, pietrificata e pietrificante, ma agile, snella, ficcante e imprevedibilmente ottimista al cospetto di una situazione, parossistica quanto vogliate, certo, ma che non può che offrirle un’unica via d’uscita, il suicidio, tra l’altro facilitato, almeno fino a quando la vita/sabbia non la sommergerà fino al collo, dalla rivoltella che ha nella sua borsa scura, a portata di mano, dove ha lo stretto necessario per trascorrere le giornate: rossetto, specchio, lente di ingrandimento, dentifricio e una lima per le unghie, di setola animale. Anche il ruolo del marito, oggettivamente meno faticoso e impegnativo, occorreva affidarlo a un personaggio che avesse una straordinaria affabilità con la surrealtà. In mente, a noi, viene subito lui, Roberto Abbiati, e così è stato, anche per il regista.
FIRENZE. Qualche scheletro, aprendo gli armadi, lo si trova sempre. Si può fingere di non vederne, spalancando le ante, o si può addirittura preferire di lasciarli chiusi, i nascondigli e continuare a vivere, come se nulla fosse, come se nulla fosse stato. Però bisogna anche essere pronti, qualora dovesse accadere, a confrontarci con le nostre colpe, i nostri trascorsi, i nostri delitti. Festen è l’anello di congiunzione tra il crimine e la sua scoperta, che non arriva dopo una lunga e serrata indagine, ma in un giorno qualsiasi, anzi, in un dì di festa e solo perché qualcuno decide di non volersi più tenere dentro quel mostro che gli arrovella e arroventa la vita. E il tormento personale si trasforma, in un attimo, in una crisi totale, generazionale, familiare. Per correttezza e delicatezza riservata, doverosamente, a Thomas Vinterberg il padre di questa denuncia, che ha già avuto risonanza planetaria al cinema, Marco Lorenzi, il regista della rappresentazione teatrale (al Cantiere Florida a Firenze) ha voluto, con un artificio degno di stupore e gradevolezza, trasportare il cast cinematografico sul palcoscenico, imponendo ai nove (Danilo Nigrelli, Irene Ivaldi, Roberta Calia, Yuri D'Agostino, Elio D'Alessandro, Roberta Lanave, Barbara Mazzi, Raffaele Musella, Angelo Tronca) protagonisti (ottimo affiatamento, bel groove, come si dice ai concerti, ognuno perfettamente incastonato nel proprio ruolo subalterno alla vicenda, in una competizione di protagonismo degna dei migliori cast) il doppio ruolo teatrale/cinematografico.
di Federico Di Pietro
ROMA. Altro che Ultimo tango a Parigi! Questa è l’esclamazione di Palladio (nome immaginario del signore canuto seduto davanti a me) all’ennesima scena di nudo integrale della rappresentazione teatrale de La grande abbuffata, pellicola di Marco Ferreri uscita nelle sale nel 1973. Il riferimento al capolavoro di Bertolucci, del resto, non è banale. E nemmeno fuori luogo. Se tutto il mondo è pornografia, l’arte è masturbazione e il teatro erotismo. Erotica, è infatti, in parte, la pièce che il pubblico del teatro Basilica ha potuto gustare ieri sera. L’erotismo però, in questo caso, viene volutamente portato a un livello grottesco, quasi ripugnante. Se Paul (Marlon Brando) e Jeanne (Maria Schneider) rappresentano quello che, con le parole di Pauline Kael, si può definire un erotismo liberatorio, ne La grande abbuffata, il sesso è un’ulteriore dimensione di abbondanza e ingordigia. L’erotismo viene visto come un ulteriore pasto di cui abusare e di cui saziarsi in maniera quasi morbosa e parossistica. Ciò che, lentamente, diviene chiara è, forse, la netta volontà di Francesco Maria Asselta e Michele Sinisi (regia) di raffigurarci nei nostri istinti eccessivamente dionisiaci. Il pubblico ha accolto lo spettacolo e riso di gusto. Non capendo forse che l’intera opera è lo specchio delle loro vite. La scenografia rivela in parte la trama. In una cornice decisamente moderna e postindustriale, come descritta da Fabiana Rapone, i protagonisti (interpretati da Stefano Braschi, Ninni Bruschetta, Gianni D’Addario e Donato Paternoster) si rivelano essere gli stessi del film di Ferreri, ovvero un cuoco, un aviatore, un produttore televisivo e un magistrato.
di Chiara Savoi
SIENA. Finalmente i teatri possono tornare a riempirsi e uno spettacolo presentato dalla Compagnia Teatrale Il Grappolo è una garanzia: il Teatro dei Rinnovati di Siena, infatti, si riempie. Il sipario è aperto e lascia intravedere un po' di strumenti sulla sinistra, un'asta con microfono a destra e, sullo sfondo, una parete bianca, pronta per le proiezioni che arrivano, puntuali, alle 21.15. La storia rappresentata stasera fu ideata nel 1918 da Stravinskij che si avvalse dell'aiuto del librettista Ramuz per elaborare due storie della tradizione popolare russa che si rifacevano alla leggenda di Faust. L'asta serve al narratore, vestito come un domatore del Circo che lega i vari momenti della storia del soldato Giuseppe e ci aiuta a capire meglio cosa gli succeda. Ma facciamo un passo indietro, torniamo all'inizio, a quando abbiamo salito le scale dei Rinnovati: appena entrati nel foyer del Teatro ci accolgono delle diavolesse per farci firmare delle pergamene e solo alla fine capiremo bene cosa sono e già questo incuriosisce molti di noi. Poi si spengono le luci. Pietro, dove sei? Corri! Corri! aiuto mamma non voglio scappare. Ho paura. Dove sei figlio mio? Torna. E gli attori urlano, entrano in platea e scappano. Urlano e scappano ed è inevitabile pensare alle vicende drammatiche che l'Ucraina sta vivendo in questi giorni. Bombardamenti, assalti, assalti aerei, rumori, tutto con semplici disegni e foto fatte scorrere lentamente, fino all’ultima, quella scontata, anche se drammatica di un soldato da solo circondato da croci.
PRATO. I bassi del diaframma ricordano vagamente quelli usati da Shaggy, il rapper giamaicano. Ci fermiamo qui, con le similitudini, altrimenti qualcuno potrebbe accusarci di qualunquismo; e ci dispiacerebbe. Ramy Essam, in verità, usa la sua voce per ben altri scopi, decisamente più nobili e sono quelli di provare a sensibilizzare, in esilio dai Paesi Bassi, dove è stato costretto a fuggire dal 2014 in seguito a un mandato di cattura per terrorismo, le singolari condizioni alle quali sono sottoposti a vivere gli intellettuali in Egitto, una delle meraviglie del Mondo, che non si allineano ai voleri dei vari despoti illuminati, con modeste attitudini alla democrazia, ma benedetti dall’Occidente e dagli Stati Uniti. A ospitare lui e i fondatori di Babilonia Teatri (al secolo e alla storia, Enrico Castellani e Valeria Raimondi), dopo la cliccatissima visita fatta a Propaganda live, il Fabbricone di Prato, che vanta anche (il Met, naturalmente) la produzione dello spettacolo: Giulio Meets Ramy/Rami Meets Giulio. Che poi, in realtà, è un concerto, con la sola voce e la sola chitarra di Ramy Essam, tradotto in simultanea durante le riflessioni e in video, durante le canzoni, supportato da alcune immagini di disordini in Egitto, che sono quelle che somigliano, maledettamente, a qualsiasi altra forma di disordini che scoppiano in ogni angolo della terra; dalla vicina Palestina, martoriata senza fine da Israele, a qualsiasi altro focolaio che divampa, quotidianamente, a ogni altra latitudine cosmica: se si chiamano dis(ordini), un motivo dovrà pur esserci, no?
FIRENZE. I rigurgiti sono sempre lì, apparentemente dormienti, in stand by, come si dice, ma puntualmente in agguato. Thomas Bernhard lo aveva capito perfettamente e nella sua ultima opera, Heldenplatz (Piazza degli eroi), aveva lasciato lucida, nitida e feroce testimonianza di quello che sarebbe potuto accadere di lì a poco: e che è capitato. E che purtroppo, con conseguenze inimmaginabili e inenarrabili, accadrà, quasi sicuramente. Roberto Andò, subodorando il torpore di un’atmosfera sempre più asfissiante, un po’ ovunque, non solo in Austria; anzi, dell’Austria ci interessa tutto il giusto, ha deciso di portarlo in scena, uno dei capolavori dello scrittore austriaco (alla Pergola di Firenze, fino a domani, 28 febbraio), affidando le armi della lunga estenuante rappresentazione a due cavalli di razza: Renato Carpentieri e Imma Villa, sui quali il regista ha costruito ogni onere dello spettacolo. Il teatro, si sa, è una forma aulica di denuncia, consapevolezza, rivoluzione, ma necessita di poesia perché possa dirsi teatro e non propaganda e diventare, in questo suo viaggio immaginifico, spettacolo. Bene, così è stato. Due ore e mezzo senza alcun sussurro, né grida, se non il preoccupante vociare di sottofondo che giunge, nitido, dalla piazza sottostante la villa, piazza degli eroi, con la governante che prepara il trasloco verso la provincia meno surriscaldata e febbrile e il fratello del professore suicida che amplifica il gesto estremo del suo parente più stretto denunciando un’intera società che ha già assunto il vizio, letale, di sminuire ogni significativa dimostrazione, voltandosi, con complicità, dall’altra parte.
PISTOIA. Ci si continua a chiedere come sia mai potuto accadere; una barbarie inumana che a volte lascia così perplessi fino a dubitare che sia successo davvero. E invece, come ricordava e scriveva Primo Levi nel suo documento più prezioso sulle atrocità naziste, Se questo è un uomo, considerate che questo è stato. Ma non vogliamo aggiungere altro a quello che è tristemente noto dal giorno della Liberazione in poi; ci sono i libri di storia, i documenti, i processi e soprattutto i ricordi, incancellabili, di chi, pochissimi, riuscì a ritornare a casa. Da ieri sera, però, dopo che ci è stata data gratuita opportunità di assistere allo spettacolo al Teatro Manzoni di Pistoia, l’antologia delle inenarrabili memorie dei campi di concentramento si è arricchita di un documento, prezioso come se fosse inedito: la trasposizione teatrale dell’opera dello scrittore torinese (quest’anno, il 2019, quando è stato ideato, ignari della pandemia alle porte, ricorre il suo centenario della nascita) per mano di Valter Malosti, che in collaborazione con Domenico Scarpa ha dato vita e messo in scena due ore agghiaccianti di cronaca, con la ferma, risoluta e professionale voce di chi ha avuto in dono l’onere e l’onore di poterla raccontare. Ed è qualcosa di straordinario, nel senso più aulico che al termine possa dare quel peso storico, politico, sociale e teatrale dei quali necessitano, per esser tali, i capolavori.
PRATO. Avete presente i quadri di Lucio Fontana? Per qualcuno sono il battesimo dello spazialismo, per molti altri, non solo tra i profani, una tecnica, infingarda, per aggirare le tappe della gavetta e piombare al successo. Con Pippo Delbono siamo sempre assillati dal medesimo dubbio: è un maledetto visionario, che si è cibato di tutto e di tutti, come la peggior pianta saprofita in circolazione, o un adorabile impostore? Anche ieri sera, al termine di Amore, al Metastasio di Prato (fino a domani, domenica 20 febbraio), il busillis, qualora fosse ancora possibile accrescerne le incertezze, si è amplificato. Che conosca – e perfettamente - il teatro, la poesia, la musica, la danza, la fotografia, l’architettura, l’arte in qualsiasi forma espressiva e immaginabile, è un dato di fatto semplicemente inoppugnabile: ogni fermo /immagine, tutte le note, l’uso accecante del cromatismo, il riciclo degli ultimi, l’opzione possibilistica della follia, da Bobo in poi, senza soluzione di continuità, dimostrano, ad un ogni istante di una sua qualsiasi rappresentazione, la totale percezione e padronanza della materia. Da qui a farne un profeta, un acuto lettore esistenziale, un prodigo traduttore emotivo, però, a nostro avviso, soprattutto dopo aver trascorso stagioni indimenticabili in giro per il mondo assoldato come mercenario di apocrifa saggezza, il passo è tutt’altro che breve e per nulla scontato.
FIRENZE. In buona sostanza, può fare quello che vuole, quando sale sul palcoscenico. Gli riesce tutto, soprattutto, emozionarsi e, logica e ineludibile conseguenza, emozionare. Il pubblico lo sa, in particolar modo quello della Pergola, a Firenze (in replica fino a sabato 18 febbraio), dove il saltimbanco umbro non perde mai occasione di rinnovare i contatti e dove la gente risponde, pandemia o meno, con tutto esaurito. Certo, gli spettatori sono un magma di chirurghi, tutti con la mascherina, ma il paziente che aspetta in sala operatoria, nonostante sia un caso clinico particolarmente aggrovigliato, è sicuro che chiunque impugni bisturi e pinzette riuscirà a guarirlo. Almeno per una sera; per la successiva, ci penseranno gli spettatori del giorno dopo a placare le ansie di Filippo Timi, che sono la paura che le sue patologie, improvvisamente, prendano il sopravvento e lui non riesca più a uscirne fuori, dal pantano della sua vita. Il paradosso è che le sue medicine non hanno un prezzo; anzi, sono i farmaci stessi a tassarsi, pagando il biglietto per poterlo curare. E ogni volta, l’operazione riesce perfettamente. Li abbiamo visti tutti, gli spettacoli di Filippo Timi: torneremmo a vederli, con lo stesso entusiasmo, perché è una gioia tantrica, totale, ascoltarlo e vederlo raccontarsi. Anche con L’uomo invisibile succedono, puntualmente, tutte le cose che appartengono al suo repertorio: un vocalista ubriaco, una donna di mezza età della sperduta provincia americana, un cubista scatenato, un cronista erotico, una sognatrice disillusa, un gramelot afono, da Dario Fo a Gigi Proietti, da Bob McFerrin a Andrea Ceccon, da una inaspettabile e impertinente Loretta Goggi a una scatenata Franca Valeri.
PONTEDERA (PI). Il coraggio, uno, se non ce l’ha, non può darselo da solo, ma qualcuno, il coraggio di dirle, certe cose, deve pur trovarlo. Il declino del teatro, in Italia, sta assumendo pieghe oggettivamente preoccupanti, che sono il primo di una serie di specchi che riproducono, con spietata efficacia, la realtà sociale, alla quale, la pandemia, ha solo dato un robusto e al momento parrebbe letale colpo di grazia. E siccome il teatro vanta, vivaddio, dei predestinati, Michele Santeramo si è caricato sulle spalle la soma di questo ingombrante bagaglio e ha chiesto a Elisa Cuppini, Maurizio Donadoni e Francesco Puleo, moglie, marito, cognato, assemblati, oltre che dal parentado, anche dalla professione attoriale, di lanciare nell’etere il grido di disperazione e invocazione: Svegliami. Un’ora, poco meno, per assistere alla scena finale di una delle innumerevoli riproduzioni in maschera di uno dei caposaldi del teatro, immagine eloquente per confrontare, fino alla totale immedesimazione, l’attore con lo spettatore, l’artista con il cittadino, il recitante e il suo fruitore. La differenza è sottile; in più di un’occasione si perde il punto di vista dello spettatore e si crede, per un meccanismo perverso, ma naturale, di essere lì, sul palco, a recitare. Nessuno, tra gli astanti/paganti è/sarebbe in grado di fare quello che Elisa, Maurizio e Francesco eseguono sotto le direttive del regista, Roberto Bacci, sulle musiche di un altro degli aficionados dello scrittore, Ares Tavolazzi.
PISTOIA. Sembra averne di più dei poco più dei quaranta che si porta addosso, di anni, Servo di scena. Dipenderà dal fatto che nessuno, dalla prima rappresentazione in poi, del 1981, si sia più permesso il lusso e la tracotanza di metterci un po’ le mani sopra, al testo (notevole e crudo, badate bene) e lavorarci. Così, dai tempi di Lavia, Orsini e Santuccio, passando per Gazzolo e Branciaroli, la partitura, scritta da Ronald Harwood, si ripresenta, nel 2022, nello stesso identico modo al pubblico, senza correre rischi di alcun genere e sorta. Anche stavolta, infatti, per questa prima nazionale al Teatro Manzoni di Pistoia (si replica stasera, alle 21 e domani, domenica 6 febbraio, alle 16), firmata in todo da Guglielmo Ferro (nel centenario della nascita del padre, Turi), il regista non osa alcun rischio e affida le ubbie del vecchio Sir a un marpione che di lezioni non ne prende da nessuno, Geppy Gleijeses. Ma non finisce qui, perché anche gli altri due mattatori della commedia (il fedele tuttofare, il servo di scena e la moglie dell’anziano interprete di una serie di rappresentazioni dedicate a Shakespeare) rispondono, fedelmente, ai requisiti del manierismo teatrale, Maurizio Micheli e Lucia Poli. Ma non è di questo che vogliamo parlarvi; aggiungere fieno alle lodi che nei decenni i tre protagonisti si sono guadagnati sui palcoscenici, seppur doveroso, nel dettaglio, non crediamo aggiunga linfa e lustro ai loro rispettivi palmares.
PISTOIA. È possibile che in una casa dove regna un maggiordomo, che sta alfabetizzando (anche nel suo ultimo giorno di servizio) il suo giovane successore, possa trovarsi, nel salone di casa, un quotidiano di venti anni prima? Certo, gli anziani Zancopè e Mistenghi, (Massimo Dapporto e Antonello Fassari) ex compagni al Liceo Badaloni, la notte prima sono stati alla festa della classe ed entrambi, ubriachi fino al midollo, non riescono a ricordare nulla di cosa sia successo la sera precedente, tanto da stentare a riconoscersi la mattina, al risveglio, che avviene, tra l’altro, per chissà quale strano meccanismo, nel letto della casa del primo, dove han trascorso, vestiti, la notte. Gli equivoci diventano classici quando, non riuscendo a spiegarsi per quale motivo, entrambi, abbiano le tasche piene di noccioli di frutti e soprattutto le mani nere sporche di carbone, su quel giornale, lasciano incustodito per duecentoquaranta mesi, leggono la notizia del barbaro assassinio, avvenuto la sera prima, in via dell’Orsina, a due passi dall’abitazione di Zancopè, di una giovane carbonaia. I presupposti per mettere in scena L’affaire de la rue de Lourcine, di Eugène Labiche, affidandolo alla regia di Andrée Ruth Shammah, che lo trasforma, adattandolo di un secolo, ne Il delitto di via dell’Orsina, ci sono tutti, con un ritardo attoriale imperdonabile però, difficile da digerire.
FIRENZE. Non è un gioco a tre, anche se sul palco del Cantiere Florida, a Firenze (si replica stasera, 22 gennaio), ci sono solo, oltre a un quadro luminoso che scandisce il percorso a ritroso di sette anni di infedeltà, Michele Sinisi (regista), Stefania Medri e Stefano Braschi, che sono il tradito, sua moglie e l’amante, che è poi il miglior amico del cornificato. Contesto vip, infatti e però - con un editore, sua moglie e un talent scout letterario -, quello degli anni del boom, dove Harold Pinter, il drammaturgo, l’ha ambientato, facendo scivolare la gelosia, la rabbia, le disillusioni su un altro piano, che non contempla minacce, vendette, ritorsioni, elementi che appartengono al volgo, alla plebe e che non sono contemplati da Tradimenti, prodotto da Elsinor e che ha dato il via alla stagione di prosa del Florida. Anche perché non c’è una fedifraga, una vittima inconsapevole e un avvoltoio, ma un circolo viziosissimo nel quale, oltre ai tre protagonisti, orbitano anche tutti i loro amici più stretti e che appartengono a questo originalissimo club dei dannati dell’amore. Senza maledizione alcuna, però; l’unico vizio consentito, è l’alcool, trangugiato con relativa moderazione, anche se spesso, a bere, si inizia la mattina presto, a colazione.
FIRENZE. Meglio non addentrarsi in quei 55 giorni che hanno cambiato il volto e il percorso della Storia di questo paese (la minuscola è d’obbligo, diamine)! Anche perché non è questo l’intento di Fabrizio Gifuni, che invece che allestire spettacoli, scusate, meteoriti, proverebbe a cavalcare il dorso della politica per ritrovarsi poi, a due passi dalla verità, a dover fare marcia indietro, come è successo a tanti; tutti no, ma quelli che han tirato diritto, non hanno potuto raccontarla. E l’elenco è lungo, molto lungo. Però, le ombre sul sequestro, la prigionia e l’assassinio di Aldo Moro sono troppe e particolarmente ingombranti e nonostante sulla vicenda si sia posta, da tempo, una pietra tombale che sa di macigno, è forse il caso di studiare; non solo per non dimenticare, ma perché qualcosa, probabilmente, si può ancora evitare. Per questo Gifuni si è messo all’anima di portare in scena un suo esperimento, Con il vostro irridente silenzio (alla Pergola, di Firenze, fino a domenica prossima, 23 gennaio), che altro non è che un microscopico epitaffio di una delle lettere che l’allora Presidente della Democrazia Cristiana scrisse ai suoi amici, tra i quali l’allora segretario Benigno Zaccagnini.
PISTOIA. La matematica, si sa, non è un’opinione e Dante, questo, lo sapeva benissimo. I settecento anni dalla sua morte sono coincisi, esattamente, con la notte tra il 13 e il 14 settembre del 2021. E ora, che pare si possa tornare, tra mille precauzioni, a teatro, ognuno, tra gli addetti ai lavori, commemora lo scoccar dei sette secoli come meglio può e crede. Federico Tiezzi, attento non solo a event-i indimenticabili come questi secolari del Divino, non poteva certo non dare il proprio contributo. E lo ha fatto allestendo un Purgatorio notturno (La notte lava la mente) - l’unico dei tre posti contemplati dalla Commedia dove il Tempo ha un senso e scorre - impeccabile, mirabile, ricchissimo di ogni dovizia di particolari, affidando al suo mentore prediletto, Sandro Lombardi, i compiti della didascalia, un Dante che nella circostanza diventa anche un Caronte e che affida a un Virgilio (Giovanni Franzoni) i compiti della guida. Tutto succede in un Purgatorio semovente, dove le anime ansiose di poter aspirare al paradiso, da un Buonconte di Montefeltro a un Omberto Aldobrandeschi, passando, a battitura fissa, con ritmo e precisione, attraverso le preghiere e gli aneliti di un Sordello, Matelda, Beatrice, Pia, Guido Guinizzelli che giungono alle pendici della narrazione e della scena in veste di naufraghi come se ne vedono tanti, troppi, ovunque, specie nel Mediterraneo.
PISTOIA. Nemmeno l’eleganza, il tempo, è riuscito a smagliarle. Della voce, inutile parlarne: è la stessa di quando l’abbiamo conosciuta, una trentina d’anni fa, in piazza della Libertà, sul Parterre, a Firenze, in una caldissima sera d’estate. Erano anni in cui la musica dal vivo spadroneggiava bellamente; a Firenze, con la bella stagione, c’era l’imbarazzo della scelta. Ora, dal vivo, si suona con parsimonia, con mille precauzioni e il pubblico, a forza di stare davanti alla tivvù e ai computers, ha perso il gusto e la forza dell’esibizione. Barbara Casini (nelle foto di Gabriele Acerboni) però, da sempre poco attenta alla moda, ha continuato a spremersi il diaframma e le meningi per restare, con tutta la dignità musicale e professionale, sulla cresta dell’onda di chi con la musica ci fa conti seriamente. E anche stanotte, l’ultima di questo 2021, al piccolo Teatro Bolognini di Pistoia, ha dato, ancora una volta, a due passi da settant’anni, saggio e temperatura della sua classe, inanellando, con la solita inconfondibile leggerezza, impreziosita da quella erre blesa che ne accentua la bellezza, una serie di standard jazz e brasiliani che ne hanno cementificato ulteriormente lo scettro.
FIRENZE. Non è da escludere che questa rappresentazione, ilare e disinvolta, ma tutt’altro che leggera, nasca da una reale conversazione, casomai ascoltata distrattamente, o invece raccontata, tra smorfie di incredulità di ogni sorta di mimica, da una delle due protagoniste (Maria Amelia Monti) al marito (Edoardo Erba, il regista). Sì, perché in questi inenarrabili e inimmaginabili due anni, ognuno si è difeso come meglio ha potuto e fatto. E non è dunque da escludere che qualcuno, come Lorella (Marina Massironi), dopo vari fidanzamenti naufragati nel corso di svariati lustri in tempo di pace, in piena pandemia abbia trovato/cercato il proprio partner ideale: Il marito invisibile (alla Pergola di Firenze fino al primo del 2022). Ad ascoltare/guardare, via chat, l’irrequieta e insoddisfatta Lorella, infatti, c’è Fiamma (Maria Amelia Monti), che la sua pace, invece, l’ha trovata, da ben venticinque anni di matrimonio, più sette di fidanzamento. Certo, il marito, che soddisfa a pieno le sue esigenze primarie borghesi (una bella casa in campagna, tutti i comfort, due figli grandi sistemati e fidanzati), è un po’ assente, inverosimilmente poco loquace e non ricorda mai di gettare l’umido nell’apposito cassonetto. Ma c’è, e a cinquant’anni suonati, ci si può anche accontentare dei ricordi.