di Olimpia Capitano

FIRENZE. Αξτω, Axto, Ne vale la pena. Una parola, una titolatura e la sua trasposizione multilinguistica (in scena al Cantiere Florida di Firenze venerdì 14 e sabato 15 febbraio) nascondono una locuzione frasale ben celata; essa oscilla tra l’affermazione e l’autoriflessione, si muove tra asserzione e domanda, assieme a corpi e voci che ti conducono attraverso uno e mille temi. Danza, musica e prosa si incontrano in un’unica rappresentazione per aiutarci a sviscerare una pena che è condizione umana, che si trascina dall’origine dell’essere uomo e che si riattualizza nelle forme della contemporaneità. Si tratta dalla pena che deriva dalle più intime relazioni umane, da un’interazione e confronto che, volenti o nolenti, ti conducono dalla nascita alla morte, un po’ trascinandoti per mano, un po’ strattonandoti furiosamente e alimentando nel dolore lontananza e incomprensione. È la famiglia. È il nucleo originario, primordiale, ciò che ti dà e depriva; linfa e alcova, ma anche veleno e galera. È una e sono mille pene: è la pena dell’essere nati; dell’animale sociale immerso in una caoticità emotiva e psicologica, in un disequilibrio che è umanità e fragilità; della difficolta relazionale e della costante sensazione di incomprensione, come fosse impossibile trovare qualcuno con cui sciogliere i propri nodi e condividere se, anche nell’ambiente idealmente più intimo, la tua casa.

Eppure la casa non la scegli e forse, proprio per questo e per la costanza della sua presenza, tale ambiente diventa emblema di una difficoltà umana che porta con sé molteplici e frammentati dolori sul confine tra il sé e il primevo contatto con l’alterità. Ciò è in molteplici forme l’uomo, lo era, lo è e lo sarà. E su questa linea, che congiunge il passato e il presente dell’essere umano, Emanuele Conte e Michela Lucenti hanno scelto di dirigere un gruppo di danzatori, attori e cantanti (Michela Lucenti, Maurizio Camilli, Emanuela Serra, Filippo Porro, Alessandro Pallecchi, Francesco Gabrielli, Aristide Rontini, Lisa Galantini, Enrico Casale), riprendendo la metafora inesauribile e archetipica del labirinto e del Minotauro, con tutto il suo bagaglio storico, mitologico e culturale e con l’ardore di una riattualizzazione estrema, che dà ancora più forza a una scelta potenzialmente banale, ma resa con una forza elegante ed una originalità fine, attraverso cui si esplorano le dinamiche psichiche relazionali mediante una contaminazione tra diversi linguaggi, che rende prova della sperimentazione condotta dal Balletto Civile e dal Teatro della Tosse. In scena troviamo la terra, tanta terra rossa che copre il palcoscenico e dalla quale fioriscono alcuni arredi, mobili che giungono direttamente dalla contemporaneità e che rappresentano un tramite materiale tra l’oggi e lo ieri: è come se gli oggetti scenici stessi rimarcassero questa imprescindibile connessione tra passato e presente di una condizione umana che, lineare, viaggia sul filo rosso della fragilità dell’essere. Al contempo, sembra quasi come se un appartamento fosse stato invaso dal fango di un’alluvione: le mura domestiche si aprono agli occhi del pubblico, infrante e svelate da qualcosa che emerge distruttivo e spazza via anche ogni elemento fisico che possa evocare un equilibrio, annullato dalla precarietà stessa di mobili ora ammassati l’un sull’altro, ora instabilmente in bilico su una terra in cui si sprofonda. E con questo malessere ti confronti, lo ritrovi nella deformazione del tuo essere e della tua immagine, che i performer in scena richiamano con un frequente dialogo gestuale, quasi triviale, di fronte a specchi che ti seguono, ti mostrano e nudano. Minosse, Parsifae, Teseo, Arianna e Dedalo; ci sono tutti e ci conducono in questo viaggio orizzontale nel tempo. Ci sono voci che narrano e corpi che si muovono con un’energia che quasi ti porta altrove: sei tu che osservi, ma prima di te è la tua matrice umana che ti sovrasta, condotta all’interno di un universo condiviso dalla forza dell’espressione artistica, e a sua volta guida per lo spettatore, che si abbandona e si lascia trascinare nell’impatto emotivo dell’azione. L’amore, la lussuria, la violenza, il genio, la gloria e l’eroismo sono tra i tanti elementi che le interazioni tra i diversi livelli del linguaggio artistico ci richiamano nella loro dimensione più amara e conflittuale, sottolineata da una mimica quasi grottesca che conferisce ulteriore potenza all’espressione. La vicenda si scioglie narrativamente alternando frammenti episodici che si presentano contemporaneamente su diversi poli della scena o che si alternano freneticamente e che sfondano quasi con violenza la quarta parete, con un movimento che si articola anche tra il pubblico, rendendo davvero imprescindibile la qualità immersiva di questo potente flusso interpretativo. Poi arriva il labirinto stesso: corde che si intrecciano e che sono inserite all’interno del perimetro costituito da arredi e suppellettili, su una terra sempre più pregna di sudore e fatiche. A officiare il rito, sono i familiari. Il mostro è intrappolato tra i fili sottili che sembrano ricordare i delicati intrecci delle trame comunicative umane, articolati in un groviglio che ti risucchia e annulla, fermo, seduto, debole. Le corde sono il labirinto che ci seppellirà, insieme alle mura domestiche che da emblema di protezione si trasformano in simbolo di solitudine e isolamento, prigione che porta con sé tutta l’eredità familiare dalla quale è impossibile fuggire. Ma di quale famiglia stiamo parlando? Forse la famiglia diviene l’umanità stessa e tutta, accomunata in una condizione esistenziale che ci rinchiude tra dolori dal retaggio antico e difficoltà, talvolta insormontabili, che fluiscono nella costante sensazione di solitudine e abbandono dell’individuo nel mondo, dell’individuo nel nucleo familiare. Axto (prodotto da Fondazione Luzzati-TeatrodellaTosse, BallettoCivile, ArtistiInPiazza-PennabilliFestival) è il nostro percorso, comune e personale, disseminato di pene costanti, per cui non resta che chiedersi se ne valga la pena, in un continuo rimando tra epoche umane e lasciando aperta una formula che quesito non è, ma che non trova alcun lieto fine in un’opera che tra le ultime scene vede un uomo, un carattere che è il padre, ma che è stato anche figlio, seduto, solo, a pescare avanzi di cibo da una ciotola con un cucchiaio che tintinna fragoroso scavando in un vuoto che riluce nell’espressione di lui, di apatia rassegnata, che forse è la peggior condanna.

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