PRATO. Lo stesso identico senso di spossatezza e inadeguatezza lo provammo nove anni fa, quando uscimmo dalla sala cinematografica dove avevamo visto Pietà, di Kim Ki-duk. La differenza, non da poco, è che ieri sera, al teatro Metastasio di Prato (si replica stasera, alle 20 e domani, 6 giugno, alle 16), al termine di Misericordia di Emma Dante, la rabbia, l’adrenalina e la nostra pietà abbiamo potuto cibarle immediatamente, alzandoci in piedi e sotterrando di applausi Italia Carroccio, Manuela Lo Sicco e Leonarda Saffi, Anna, Nuzza e Bettina, veterane di lungo corso della Compagnia Sud Costa Occidentale, testimoni oculari, complici impotenti, dell’assassinio di Lucia la zoppa, massacrata e uccisa di botte da Geppetto, il marito falegname, senza però riuscire a impedirle di mettere al mondo, prematuramente, Simone Zambelli, Arturo, che è un pinocchio senza tempo, che nasce duro, legnoso e senza anima, ma che diventa morbido e adulto, che riesce a dire mamma, aiutato a diventare un uomo di rara grazia e fisicità, seppur nella sua disabilità, dalle lezione impartitegli, chissaddove, da Pina Bausch.

Il resto, tutto il resto, è un’altra pagina indispensabile di Teatro, ricco e arricchito da ogni qualsivoglia esperienza quotidiana, elementare, dove gli incomprensibili bisbigli in siciliano stretto, le intraducibili affabulazioni, le urla lancinanti di un dolore sordo e mai rivendicato, i silenzi narrativi, ossessivi, estenuanti, lancinanti, le angosciose oscillazioni ritmate della psicopatia, gli abbracci, le lotte, le sopraffazioni, le invidie, la miseria, il nichilismo stordente, vengono trasportati e poeticizzati dal complesso architettonico della regista palermitana, che rende ancora una volta onore a tutto quello che è successo fino al terzo millennio al Teatro, dal giorno della sua nascita, alle sue e nostre Miserabili, che sono, senza mistero alcuno, amiche delle sorelle Macaluso, come loro collocate in fondo al palco, per poi presentarsi al cospetto del pubblico, in ordine parallelo, come soldatesse, anche se decisamente indisciplinate, intente a sferruzzare di giorno, come abili massaie e casalinghe, e prostituirsi la notte, trasformandosi in peccaminose provocatrici, dedite a balletti al limite dell’osceno, voluttuosi e ripugnanti, in questo eterno salvifico e contraddittorio dualismo bene/male, giorno/notte, vita/morte, per sopravvivere e poter lasciare così in dote al loro piccolo Arturo, che non è loro, ma lo è diventato, sotto un segno di appartenenza ancor più forte di quello sanguigno, i soldi per pagarsi almeno il viaggio, al seguito della Banda, verso un futuro lontano, ignoto, sconosciuto, ma sicuramente migliore, dove potrà almeno avere una stanza tutta sua, con la finestra e mangiare tre volte il giorno. Il palcoscenico, come al solito, è una giostra buia e spoglia, dove non ci sono cavallucci e dove i balocchi altro non sono che gli avanzi e la sporcizia contenuti e svuotati dal sacco dell’immondizia, un tripudio di colori e rumore, l’unica festa alla quale questi ultimi, invisibili, analfabeti e senza alcuna possibilità di scolarizzazione, sono stati invitati a partecipare, l’unica festa alla quale possono presentarsi. L’ennesimo oltraggio alle donne, in Misericordia, si deforma, si ingentilisce, si trasforma e spicca il volo verso una destinazione altra, che si fa poesia e che sostituisce la deprecabile e infame assenza di denuncia sociale e giudiziaria e la silente complicità maschile prima, ma umana, complessivamente, con la richiesta di almeno un piccolo, grande, risarcimento, che è la pietà che può e deve spingerci verso qualunque prossimo a nostra portata. È il Teatro, ma non lo spettacolo, di Emma Dante, senza tempo, a volte frainteso dai suoi contemporanei, ma che resterà, per sempre, dentro quelli che hanno avuto la (s)fortuna di vederlo, anche senza capirlo.

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