PRATO. Chi inizia provocando è a metà dell’opera. Il Metastasio di Prato, che riapre finalmente i battenti quasi come se la pandemia non fosse mai esistita, si (ri)presenta al suo pubblico con un’omonima rivisitazione teatrale di una pellicola che ha fatto scuola e, il tempo lo dirà; anzi, lo ha già detto, leggenda: L’armata Brancaleone. Il profanatore di turno, l’adattatore, non poteva essere che Roberto Latini, che si ritaglia una gemma, su un palcoscenico psichedelico/postindustriale, a fianco di un’eterogenea compagnia attoriale di grande rispetto, febbrilmente incastonati l’uno sull’altro, sospesi su una trave sulla quale si ristorano durante una vertiginosa pausa/pranzo nel bel mezzo della ristrutturazione del grattacielo di Mario Monicelli: Elena Bucci, Claudia Marsicano, Ciro Masella, Savino Paparella, Francesco Pennacchia, Marco Sgrosso e Marco Vergani. Le vicende, indecorose e tragicomiche, del cavaliere norcino alla guida di un ronzino insolente e svogliato a capo di un’impresentabile armata alla conquista del feudo pugliese di Aurocastro, sono e saranno icone indimenticabili e scimmiottate ovunque in parecchie sale cinematografiche.

Per il teatro, occorreva fare uno sforzo aereo riduttivo titanico, senza però inficiarne l’aurea. Operazione riuscita solo in parte, ma perché di più, forse, non si poteva, né si sarebbe potuto. Il gioco, conservando lo slang burino che dette al film meriti magniloquenti, è quello di dare un altro senso alle parole che nella pellicola ne han sin troppo e proprio giocando sull’equilibrio della lama di un rasoio affilatissimo, il regista prova a far perdere, alla pellicola, ogni valore temporale, restituendo, con gli interessi, a quella compagnia di scalcinati, tutta la loro poesia. E anche se l’Armata Brancaleone di Roberto Latini non attraversa, tra mille peripezie, l’Italia centromeridionale, tra Civitanova e la Puglia (anche perché resta ferma nell’alto Lazio, nella Maremma che congiunge la provincia di Viterbo con quella di Grosseto), l’elogio degli ultimi, dei diseredati, di quelli che non godranno mai di una luce di un riflettore arriva diritta in platea. Il problema è rappresentato dall’ardua opera di decomposizione del testo, che anche con le mirabili accortezze dei rifacimenti (su tutte, il duello Gassman/Volonté, a suon di scimitarre, riprodotto come se si trattasse di un videogioco), stenta a restare, per l’intera durata della rappresentazione, sul manto della stratosfera della commedia come avvenne ai tempi della sua uscita, successa, ormai, più di mezzo secolo fa. Resta l’ardore, l’impertinenza, il coraggio e lo sforzo, non da poco, di mettersi all’anima e trasportarla in scena, una commedia che fa del campo aperto, della natura, dell’aria e di un fantascientifico viaggio in autostop, più che su una Berlina, i suoi punti di forza, offerti, tra l’altro, da un cast da leccarsi i baffi, che la compagnia alla bisogna di Latini non ha dato modo di rimpiangere.

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