PISTOIA. Nemmeno l’eleganza, il tempo, è riuscito a smagliarle. Della voce, inutile parlarne: è la stessa di quando l’abbiamo conosciuta, una trentina d’anni fa, in piazza della Libertà, sul Parterre, a Firenze, in una caldissima sera d’estate. Erano anni in cui la musica dal vivo spadroneggiava bellamente; a Firenze, con la bella stagione, c’era l’imbarazzo della scelta. Ora, dal vivo, si suona con parsimonia, con mille precauzioni e il pubblico, a forza di stare davanti alla tivvù e ai computers, ha perso il gusto e la forza dell’esibizione. Barbara Casini (nelle foto di Gabriele Acerboni) però, da sempre poco attenta alla moda, ha continuato a spremersi il diaframma e le meningi per restare, con tutta la dignità musicale e professionale, sulla cresta dell’onda di chi con la musica ci fa conti seriamente. E anche stanotte, l’ultima di questo 2021, al piccolo Teatro Bolognini di Pistoia, ha dato, ancora una volta, a due passi da settant’anni, saggio e temperatura della sua classe, inanellando, con la solita inconfondibile leggerezza, impreziosita da quella erre blesa che ne accentua la bellezza, una serie di standard jazz e brasiliani che ne hanno cementificato ulteriormente lo scettro.
Da Antonio Carlos Jobim a Cole Porter, da Chet Backer e Milton Nascimento, così come richiesto dal copione della serata, quella organizzata dall’Atp, dal Comune di Pistoia e dalla Fondazione Caript, in collaborazione con Serravalle Jazz (fu lei, venti anni fa, a battezzare la fortunata manifestazione sotto la direzione artistica di Maurizio Tuci) e il sostegno di Toscana Energia. Per guadare il fiume di una porzione così imponente e importante della musica, Barbara Casini si è fatta accompagnare da tre meravigliosi strumentisti, tre enfant prodige che il tempo ha solo fatto crescere, diventare uomini, prima e musicisti straordinari anche: Alessandro Lanzoni al piano, Gabriele Evangelista al contrabbasso e Bernardo Guerra alla batteria, turnisti eccezionali con i quali la psicologa della bossanova ha già avuto modo di esibirsi in altre vistose circostanze e incidere, proprio prima della scoppio della terza guerra mondiale, un importantissimo lavoro in sala di registrazione, a Rio de Janeiro, al quale hanno dato vita e lustro, tra gli altri, Toninho Horta e Chico Buarque. Ed è merito anche e soprattutto della magnifica leggerezza dei tre strumentisti se la serata, in un clima semplicemente surreale (poca gente e con una voglia di allegria ridotta ai minimi termini, ben al di sotto, per san silvestro, del minimo sindacale), sia stata tanto gradevole. Tre professori, i ragazzi (che per età potrebbero essere tutti figli di Barbara), per i quali, solo spulciando le rispettive biografie, passeremmo il resto del racconto a decantarne le lodi. Si è partiti con Jobim e con l’astro brasiliano, il quartetto, ha fatto i conti per più canzoni; si è rispettato il canovaccio jazzistico, offrendo standard arcinoti; si è passati da Chet Backer, ma non dalla sua tromba, dalla sua voce, facendo una piccola, meravigliosa puntata, sull’arcipelago Milton Nascimento e il suo Miracolo dei pesci, forse il momento più alto del concerto, per planare su Desafinado, che riassume un universo di suoni, emozioni, scuole, culture. Per (s)fortuna, Barbara, Alessandro, Gabriele e Bernardo hanno evitato di dare il colpo di spugna alla serata regalando al pubblico una delle tante altre meraviglie di Jobim, Acqua di marzo; almeno noi, eravamo già abbastanza scossi da tutto quello che ci gira intorno: inabissarci in uno dei motivi più belli e più tristi della musica, ci avrebbe mandato al tappeto, senza che l’arbitro perdesse nemmeno dieci secondi a contare.