PRATO. Ci cademmo quasi tutti, in quella trappola. Eravamo convinti che quella polvere, invece distribuita proprio da chi credevamo di combattere e distruggere, ci avrebbe consentito il lusso di volare sopra le loro teste, quelle dei nostri nemici. Andò esattamente come gli inventori e primi spacciatori su scala internazionale sperarono; ne sotterrò molti. Uno dei più illustri, con tutto il rispetto di migliaia e migliaia di semplici creduloni che furono assorbiti dalla spirale della rota con la stessa mostruosa velocità e dipendenza che toccò in sorte a intellettuali, musicisti e personaggi parecchio scomodi, invadenti e pericolosi, fu Andrea Pazienza, di cui sorvoliamo di snocciolare i dettagli leggendari che ne hanno caratterizzato l’esistenza e ci accostiamo a lui, con rispetto sacrale, approfittando de Gli ultimi giorni di Pompeo, l’opera massima del vignettista marchigiano che rappresenta, ma solo per tragiche coincidenze, il suo testamento fumettistico. Parliamo del testo con il filtro, notevole, struggente, onirico e ironico, del teatro, il Fabbrichino di Prato (domenica 1° maggio, nel pomeriggio, ultima replica), per la precisione, dove si sono dati appuntamento Riccardo Goretti, Massimo Bonechi e Giorgio Rossi, trino e uno e hanno dato vita alle ultime ore di Pompeo, il nome con il quale Andrea Pazienza decise di parlare, scrivere e disegnare di sé, per l’ultima volta, in terza persona.
Uno spettacolo circense, nel quale il presentatore, il domatore di leoni, che ogni tanto veste gli abiti di alcuni protagonisti che pare abbiano dato forfait all’ultimo minuto e che si porta ancora felicemente addosso le scorie de Gli Omini, si interfaccia e scambia con il protagonista, alle prese con le ultime dose fatali d’eroina, strascicando sé e la propria anima tra gli spettri metropolitani, il nichilismo della robba e il divano della sala dell’appartamento, dove ogni tanto appaiono personaggi equivoci, fiabeschi, rigorosamente danzanti. È un gioco di sovrapposizioni, culturali e fisiche, sociali e timbriche, storiche, politiche e paradossali, con una sola e unica protagonista: la droga, quella pesa, quella che non dà scampo, quella di cui, in men che non si dica e proprio mentre profetizzi il contrario, non puoi più farne a meno, che ti inietti sperando di essere migliore, nonostante, con il breve trascorrere del tempo, scarnifichi la tua cute, marcisca le tue gengive, atrofizzi i tuoi arti, monopolizzi i tuoi interessi, i tuoi risparmi, sacrifichi i tuoi amori, spappoli le tue amicizie, inabissi te e la tua vita alla sua mercé nel più lugubre degli anfratti, scantinati maleodoranti popolati solo e soltanto da topi e tossici. Goretti, Bonechi e Rossi, senza evitare di ricordare l’autore, il suo testo e sprofondare con lui e con il pubblico negli abissi, non perdono di vista, nella tragedia, la lucidità di Pazienza e tramandano, a trentacinque anni di distanza, il suo manoscritto per gli eredi, conservandone il dolore, la spietatezza, il coraggio, la resa incondizionata, il certificato della sconfitta, ma innalzandolo, ancora una volta e ancora più in alto, verso nuove atmosfere, con le quali, noi sopravvissuti di quella generazione, ci possiamo serenamente confrontare solo perché, da quella pandemia, ci salvammo spesso per caso, molte volte per fortuna, ma anche per paura e altre perché, in tempi parecchio sospetti, qualcuno, nel bel mezzo della mattanza, iniziò a capire che ci avevano fregato, riuscendo ad allontanarsi e a farsi seguire da tanti altri disillusi senza cadere nell’altra mostruosa trappola costruita dagli stessi spacciatori: le comunità.