FIRENZE. La linea di demarcazione è sottilissima; al di là, c’è lo studio, la memoria, la provocazione, la lotta per la sopravvivenza, l’arte; al di qua, divisa da una lastra quasi invisibile di metallo che non esclude pericolose altalene emotive e culturali, checazzomenefregasenoncapitenienteperchénonc’ènientedacapire. E siccome abbiamo avuto il dubbio che potessimo appartenere, indistintamente, all’una e all’altra fetta di spettatori, ieri sera, al Teatro Cantiere Florida di Firenze, al termine di Senza, siamo rimasti in silenzio, senza battere nemmeno una volta le mani. Gli altri, tutti gli altri, le mani se le sono spellate, rinforzando il gradimento sonoro con ululati approvatori e non nascondiamo che per alcuni istanti ci siamo sentiti, contemporaneamente, dei gonzi e/o dei lungimiranti. Non abbiamo assistito al prologo esplicativo, né ci siamo messi a leggere il foglio di sala; ci siamo lasciati trasportare da Matteo Pecorini (Mr Bean de noantri) e dal suo incomprensibile, ma chiarissimo, parolare, che è quello ereditato e custodito, nel tempo, lasciatogli in dote da una persona che la vita, prima della società, aveva insindacabilmente relegato ai margini, concedendogli il solo lusso di conservare le proprie emozioni su un magnetofono.
Ed è la cronaca degli anni meravigliosamente bui, dall’invasione della Cecoslovacchia fino ai Mondiali spagnoli del 1982, fatta da uno speaker particolare, un intrattenitore inoppugnabilmente stravagante, che addomestica le parole e i suoi significati alle proprie esigenze, in un gioco di suoni e valori che finiscono per essere sin troppo chiari anche ai più irriducibili puristi della lingua. Perché la verità, come dobbiamo necessariamente arrenderci a constatare, non è mai una sola; anzi, se allarghiamo il cuore, oltre che le orecchie e il cervello, scopriamo, meravigliosamente, che le verità, e dunque le risposte e, di conseguenza le soluzioni, possono essere svariate, molto diverse tra loro. Indispensabile è farle convivere, confrontarle, metabolizzarle: quelle ufficiali e quelle incise su un magnetofono, che nessuna delle nostre abilità avrebbe potuto partorire. Il mondo dell’anonimo mittente è racchiuso all’interno di scatole numerate, contraddistinte, ognuna, dal numero dell’anno; sfogliare l’album di quelle fotografie mai scattate è facilitato dal riavvolgersi delle bobine sulle quali lo sprovveduto storico ha registrato la sua voce e i suoi commenti, che parrebbero giochi enigmistici, se a raccontarle e a decantarle non ci fosse Matteo Pecorini, che a quelle parole e a chi le ha proferite, seppur abbia tralasciato le generalità, ha dato un corpo, un senso, un’anima. E mentre scriviamo ci tornano alla mente quei movimenti ottusi, quell’allegria irritante, quei dubbi incomprensibili che chi ha ereditato quel patrimonio ha cercato di riportare alla luce Senza il filtro dell’arte, della manomissione, della spiegazione. Senza altro aggiungere, Senza interesse alcuno, Senza rete e dunque con il rischio, tangibile e materializzabile, che i nuovi ascoltatori e quelli che verranno potrebbero fraintendere, viziati dalla clessidra dei Con e bollare la rappresentazione come un cinico e sadico incomprensibile divertimento al massacro. A tutti quelli che ieri sera, al Teatro Cantiere Florida di Firenze, al termine di Senza, si sono alzati in piedi applaudendo, fragorosamente, il lavoro di Matteo Pecorini, ci uniamo, felicemente e orgogliosamente, solo ora, il giorno dopo, quando abbiamo finalmente capito che cosa ci potessero entrare, nelle riflessioni un pazzo, Samuel Beckett e James Joyce visto e considerato che dopo averli studiati, avevamo avuto la certa presunzione di sapere di cosa parlassero.