PISTOIA. A certi spettacoli, riservati a un pubblico tristemente massivo, ci pensano, da parecchi anni – e si vede –, la televisione e buona parte del cinema. Il teatro, deputato ad altro, seppur non possa esentarsi dal mercato, può e deve censurare, altrimenti, compie e traccia l’ultimo segmento circolare di un anello che finisce per genuflettere definitivamente l’utenza e convincerla che non ci sia altro oltre quello che il Convento corrotto passi. Una volta, infatti, tanto, tanto tempo fa, quando si stava meglio perché si stava peggio, i grandi mattatori teatrali passavano, saltuariamente, negli studi televisivi e sui set cinematografici perché il loro sottopagato indiscutibile talento da palcoscenico necessitava, inderogabilmente, di liquidità. La situazione, da tempo, si è letteralmente capovolta, soprattutto per gli operatori del settore; se si vuole riempire un teatro, occorre necessariamente chiamare un personaggio che spopola in tivvù. Ieri sera (si replica oggi, domenica 15 gennaio, alle 16), al Teatro Manzoni di Pistoia, è successa una cosa del genere. In scena: Scusa sono in riunione… ti posso richiamare? una sagra panettoniana di battute oltremodo prevedibili, seppur talvolta divertenti (con varie strizzatine d’occhio a Proietti, Montesano e tutta la commedia italiana anni ’80), scritte da Gabriele Pignotta (uno che di sitcom se ne intende) e che vede in scena, oltre all’ideatore, Fabio Avaro, Nick Nicolosi, l’effervescente figlia dei fiori (lo scriviamo per l’egida battesimale; non potrebbe essere diversamente) Siddhartha Prestinari e lo specchietto per le allodole, Vanessa Incontrada, adorabile e insostituibile a non prendersi sul serio negli studi Mediaset al fianco del co-conduttore Claudio Bisio, ma decisamente meno brillante sul palco.
La storia è una figlia, illegittima, di equivoci, tra luoghi comuni sin troppo comuni, allusioni non più allusive e quel politicamente corretto che a teatro, il più delle volte, irrita, che prende spunto da un’idea mortuaria di uno dei cinque ex laureandi che, incastonato nella tivvù spazzatura, crea, con la complicità di una delle cinque dottoresse (Siddhartha Prestinari) una sorta di Grande Fratello modello Truman show, riunendo il resto della vecchia combriccola nella sua casa in campagna il giorno del suo falso funerale. Detto questo, non possiamo e non vogliamo in alcun modo bandire la commedia dal teatro; anzi, ce ne fossero di fatte con garbo, divertenti e spensierate. Ma il dubbio che ci terrorizza è che con il trascorrere del tempo, nel quale la paura ci ha viralmente preso in ostaggio, il teatro abbia deciso di declinare il proprio impegno, la propria unicità, la propria irriverenza e la sua innata e indomita denuncia provocatoria lasciando ogni spazio preda della facilità e della scontatezza, una sorta di Bignami della risata nella quale il romanesco la fa, indiscutibilmente, da padrone. Con un palco che è un’esemplare architettura televisiva e i protagonisti, bravi nelle loro mansioni tra una pubblicità e la successiva, a strappare a un pubblico accorso numeroso come non mai unicamente per la dama di Zelig quelle grasse risate che sciolgono i rancori, allontanano i cattivi pensieri e ci accompagnano a ninna con il buonumore. Il Teatro Manzoni, che per far fronte a una crisi epocale ha dovuto, da questa stagione, mutilare lo storico trittico delle rappresentazioni amputando la prima del venerdì, in questa occasione, per far cassa e compensare la desolazione che spesso accoglie rappresentazioni decisamente coraggiose e prive di efficaci sponsorizzazioni televisive, avrebbe potuto fissarne quattro di spettacoli, aggiungendo addirittura quello del giovedì, con il risultato, sconfortante ma redditizio, di altrettanti pienoni. Sconfortante perché il pubblico di ieri sera è quello dell’avanspettacolo e che ha tutto il diritto di divertirsi quanto e come gli intellettuali, badate bene, a patto, però, che la percentuale delle loro offerte sia, di gran lunga, minoritaria rispetto a quello che il Teatro è doverosamente chiamato a proporre.