PISTOIA. Antonio Latella, delle nuove tacite disposizioni teatrali, quelle che raccomandano spettacoli brevi, novanta minuti al massimo, ma possibilmente meno, se ne fotte altamente. Fa bene, perché se lo può permettere. Sì, perché è uno sperimentatore indefesso, con uno sguardo maniacale ai dettagli, quelli che sono religiosamente osservabili e osservati da attori modello-Ronconi, la scuola generazionale con la quale, chi sale sul palco, non può non farci i conti. La dimostrazione, l’ennesima, è arrivata al Teatro Manzoni con Chi ha paura di Virginia Woolf, di Edward Albee, uno dei testi più malleabili per le rappresentazioni perché ci si può fare praticamente tutto. La duttilità del testo e l’intelligenza visionaria del regista sono poi amplificate dalla bravura dei quattro protagonisti, che non sono due prime donne e due affiliati, ma quattro attori che non perdono di vista, mai, i loro ruoli, di vittime e carnefici, di spettatori e protagonisti. A cominciare dalla poetessa Sonia Bergamasco, che prima di vestire gli abiti dell’infelice alcolizzata Martha, ha presentato, alla libreria Lo Spazio, la sua raccolta Il quaderno (La nave di Teseo), a conferma della poliedricità artistica della 57enne milanese che è la dimostrazione lampante di come lo studio e l’applicazione (dieci anni fa, al Funaro, non ci impressionò affatto) paghino eccome.

Passando da George, suo marito, un Vinicio Marchioni che incorpora adorabilmente la frustrazione della consapevolezza che nemmeno con il suocero rettore del College sia riuscito a diventare responsabile del Dipartimento di Storia, limitando la sua vita professionale universitaria a quella di inesorabile semplice professore associato e con le loro retroproiezioni, quelle di Nick e Honey (Ludovico Fededegni e Paola Giannini), probabilmente invertite, suggerimento che è offerto dalla somiglianza cromatica degli abiti. Del testo, plurirappresentato ovunque, si può tranquillamente non aggiungere altro, salvo impegnare tutta la recensione con le cervellotiche digressioni che la critica postuma ha meritoriamente affidato all’autore, adottato da una stravagante coppia di artisti e che ha scoperto il proprio equilibrio solo dopo aver conosciuto i veri genitori, passaggio esistenziale fondamentale, questo, che sembra essere il riconoscimento anagrafico del bambino che George e Martha non hanno mai avuto e che continuano a crescere nelle loro immaginazioni sotto il segno della reciproca manifesta, urlata, isterica colpevolizzazione e demonizzazione del partner. Come di tutta la società americana, della soffocata omosessualità, dell’affrancarsi dalle famiglie matriarcali e patriarcali, delle convenzioni borghesi che finiscono, quasi puntualmente, nel loro più bieco annichilimento. Ma la cosa forse più interessante di questa interpretazione artistica risiede nel commento, a caldo, che uno spettatore qualsiasi, non abbonato, fa dopo aver deciso di andare a teatro solo all’ultimo momento, per dare un senso che lo esuli dalla mediocre routine quotidiana a un qualsiasi sabato sera altrimenti consumato, in tuta e pantofole, davanti alla tivvù con vicino il gatto che fa le fusa, e che, misurato il prezzo del biglietto e l’offerta, è convinto di aver fatto un buon investimento. Perché è rimasto affascinato dalla bravura degli attori, perché le mille domande che durante la lunga rappresentazione scuotono la mente e i pensieri saranno rimuginate e metabolizzate prima di andare a letto, o il giorno dopo, scatenando la curiosità di saperne di più dell’autore, del regista e di quel testo fino a quel momento vissuto e sofferto come un semplice cult del cinema internazionale. Servono rappresentazioni come queste a dare al Teatro quel senso magico di unicità e allo spettatore il desiderio di tornare. Abbiamo deciso di pubblicare, tra le foto dello spettacolo inserite nel comunicato stampa scattate da Brunella Giolivo, la meno efficace; lo abbiamo fatto perché è l’unica con tutti e quattro i protagonisti e ci sembrava doveroso immortalarli insieme, per ringraziarli.

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