SESTO FIORENTINO (FI). Come per i coniugi Lynd, con Middletown e Middletown in transition, che si sforzarono di stabilire come avessero sociologicamente provato a sopravvivere gli uomini e le donne di quella piccola comunità umana nell’arco di cinquant’anni, anche Mark O’Rowe ha deciso di analizzare le vite degli altri in spazi di tempo che sembrano essere attimi eterni. Perché ognuno di noi, in un preciso istante della propria esistenza, è esattamente lo stesso, o letteralmente l’opposto, di quello che era e di quello che sarà, poco prima, poco dopo, poco importa. Il tono drammatico, ma così surreale che sovente diventa grottesco, dunque comico, è perfettamente incarnato da Alessandra Bedino, Teresa Fallai e Giulia Weber, due sorelle e una loro amica comune che si ritrovano, mai tutte e tre insieme, sul ring della vita, nella fattispecie ai lati più distanti di un tavolino, a fare i conti con quello che sono state e quello che temono non riusciranno a diventare. L’incidente probatorio è The Approach, per questo fine settimana a La Limonaia, di Sesto fiorentino, che Andrea Macaluso, confidando nella traduzione di Anna Rusconi, ha deciso di mettere in scena lasciando onori e oneri solo e soltanto al camaleontismo delle tre attrici, ognuna delle quali, al di là delle singole e indiscusse professionalità, non ha potuto non riconoscersi nelle conversazioni delle tre donne che si ritrovano dopo aver spartito sonno e sangue giovanili, sui loro viali del tramonto. Nei quali c’è ancora spazio per sogni e progetti, con latitudini e prospettive distanti, quasi in modo siderale, ma che non esenta nessuna delle tre a immedesimarsi nell’altra fino al punto di soffrire, o fingere perfettamente di farlo, di dolori mai patiti, a volte addirittura causati, né di distribuire consigli su come continuare a crederci. Sono tre donne piacenti, che nel post adolescenza si sono tolte quegli sfizi femminili che quelli dell’altro emisfero, il popolo alfa, non riesce nemmeno a immaginare. Mark O’Rowe, del resto, l’autore irlandese, delle introspezioni personali, collettive, generazionali (The delinquent season è forse l’opera più forte ed enigmatica, così audace che in Italia han fatto di tutto per non farla arrivare) ne ha fatto la trama delle proprie ricerche, costellando tutta la sua biografia e i suoi lavori proprio sulle dinamiche personali/sociali, giungendo alla conclusione, nonostante non abbia ancora tirato le somme, che nessuno conosce nessuno, men che mai sé stesso, con la velata, seppur tragicomica, condanna al mondo maschile, che è quello che sfrutta una lodevole, simpatica, originale iniziativa sentimentale (lo schema del cruciverba, che ricorda poesie, serenate sotto il balcone, diamanti) riproducendola, esattamente nello stesso identico modo, senza la minima correzione in corso d’opera, di amore in amore, senza soluzione di continuità e l’inesorabile tragicità femminile, incapace di prendere le distanze da quello che sembra amore, anche quando si veste di soprusi, intimidazioni, svilimenti, violenze. L’afflato manifesto sul palcoscenico tra Alessandra, Giulia e Teresa, (Anna, Cora e Denise, ma in ordine sparso) è, probabilmente, di questa rappresentazione teatrale senza un prima, né un dopo, un testo senza un titolo, una recensione senza occhiello e catenaccio, il segreto della sua, inconfutabile, riuscita, con quell’anelito di paura e speranza, diplomazia e prudenza che arma le donne e gli uomini del mondo per riuscire a restare in equilibrio sul filo del rasoio dei rapporti umani e poter esultare, di tanto in tanto, con il classico te lo dicevo io, nella grigia quotidianetà di esistenze che riescono a trascinarsi in avanti solo grazie ai colori, sbiaditi, dei ricordi, sui quali, anche a posteriori, si cerca, inesorabilmente e goffamente, di barare.