PRATO. La tentazione sarebbe quella di lasciarsi trasportare dall’emotività e raccontarvi, con gli occhi inumiditi dalle lacrime, gli ultimi giorni della GKN, la fabbrica quasi centenaria di Campi Bisenzio (prima era a Firenze) di componentistica automobilistica che presto, temiamo, chiuderà i battenti. E lo farà nonostante tutti gli operai licenziati, via mail, il 9 aprile del 2021, da allora, in fabbrica, ci siano rimasti, giorno e notte, notte e giorno, in un presidio permanente che non ha in alcun modo intenerito le proprietà succedutesi alla guida di un molosso artigiano/industriale, né i governi di questo paese (la p è minuscola per coerenza, nostra) che comunque, da destra o da sinistra, tendono a difendere e in alcuni casi esaltare il fatto in casa (made in Italy). E non sarebbe difficile lasciarsi trascinare dalla tristezza mista a rabbia, se, scrivendo, ripensassimo alle storie Francesco (Iorio), Felice (Ieraci) e Tiziana (De Biasio), il manutentore, l’addetto al montaggio e alle pulizie della GKN, che Nicola Borghesi e Enrico Baraldi, autori e registi, li hanno voluti al loro fianco sul palcoscenico del Teatro Metastasio di Prato, dove fino a domenica andrà in scena Il Capitale, sì, quello di Karl Marx, quello che per anni è stata la guida dei comunisti di tutto il mondo fino al ritorno, subdolo, devastante, letale, di un capitalismo che si è rinnovato e che per vincere la sfida si fornito di un'arma letale, quella che gli ha consentito di incunearsi tra le pieghe dei suoi avversari fiaccandoli proprio nel loro aspetto più intimo: il futuro, i sogni. Abbiamo pianto, come ci è successo assistendo agli spettacoli di Emma Dante, perché ieri sera, il Teatro, con Il Capitale, si è fatto Teatro davvero, spogliandosi degli abiti da palco e indossando quelli della denuncia, del dolore, della disperazione. Sul tavolo delle trattative non c’è una morale, o una questione di principio, né tradizioni secolari che il progresso tende a scalzare via; in ballo c’è la sorte di centinaia di lavoratori e delle loro famiglie che aspettano che l’operaio della GKN torni al suo posto in fabbrica o che la fabbrica, acquistata da partecipazioni statali, converta la sua produzione in altro e con essa la professionalità dei suoi dipendenti. Abbiamo pianto quando la voce fuori campo, con il megafono davanti alla bocca, dopo i proclami proletari dell’esordio, ha invitato i suoi compagni e gli spettatori a cogliere, in questa meravigliosa lotta di sopravvivenza, un aspetto che all’inizio nessuno avrebbe immaginato di poter vivere: l’amore. I pugni chiusi sollevati al cielo con i quali i protagonisti sono stati sommersi, al termine della rappresentazione, dagli applausi di una platea composta, soprattutto, da giovanissimi, dunque studenti, che della GKN ne han solo sentito parlare in tivvù, in qualche rapido servizio giornalistico, è un altro motivo per cui ci siamo sentiti in diritto e dovere di piangere, tra rabbia e commozione, soprattutto pensando alle nostre gioventù, iniettate, come lo sono state, senza pentimento alcuno, di libertà, eguaglianza, diritti. Ma è sempre più probabile che al prossimo ultimatum, fissato al primo gennaio 2024, la GKN di Campi Bisenzio, le cui maestranze, e relativi presidianti permanenti, si sono ridotte, nel frattempo, a centottantacinque operai (gli altri, nel tempo, con un insopportabile dolore nel cuore, si sono dovuti e per fortuna riqualificati altrove), chiuda definitivamente i battenti, che i macchinari, fermi, dalle ore 6 del 9 aprile 2021, vengano smantellati e delocalizzati come le commesse scippate e che gli operai, che han creduto fino all’ultimo, di poter restare lì, a lavorare, guadagnandosi onestamente da vivere, vengano insindacabilmente licenziati, senza più cassa integrazione, senza l’ausilio di alcun ammortizzatore sociale. Certo, che loro e noi tutti, ci auguriamo il contrario, ma il pessimismo, che regna sovrano laddove uno dei contendenti sia un molosso invisibile di guadagno, temiamo possa avere il sopravvento e che di questa fabbrica chiusa se ne continuerà a parlare per molti anni ancora, ma solo come se si fosse trattato di una favola. È per questo, che uscendo in fretta e furia dal teatro, per non farci vedere dagli altri con gli occhi iniettati di lacrime e tristezza, abbiamo creduto che da sconfitti, operai, registi, spettatori, cittadini, si possa e si debba comunque imparare la lezione che cinque anatre andavano a sud; forse una soltanto vedremo arrivare, ma quel suo volo certo vuole dire, che bisognava volare, che bisognava volare.