FIRENZE. L’enorme occhio che pulsa, sbatte le palpebre, che è vivo e vigile e che anticipa e chiude il sipario della Pergola a Firenze è quello di un dio che si è fatto uomo e che è lì, mastodontico, ma agilissimo, a scrutare ogni spettatore, un grande fratello, di quelli che popolano, avaramente, ma avidamente, il teatro e non di quelli che ingolfano, inutilmente, le televisioni. Che non può, comunque, non riconoscersi, in parte o in toto, in Zeno Cosini e nella sua gravità esistenziale, nei suoi falsi, fermi, laconici giuramenti, quelli che gli fanno sentenziare che quella che si sta accendendo sarà, inderogabilmente e falsamente, la sua ultima sigaretta. È tempo di bilanci, per il vecchio, malconcio, Zeno; sul palcoscenico, accanto a lui, anzi, dietro, come retrospettiva mnemonica, la gente che ha popolato la sua esistenza: la madre, il padre, la moglie, le cognate, il cognato, la sua vita, trascinata tra paure remote e aspirazioni tradite, in un incalzare ipocondriaco che ha segnato la letteratura e la società dell’intero Novecento. Il capolavoro di Italo Svevo aspetta solo di essere fatto a brandelli, dopo un’infinità di fedeli, superbe, trasposizioni teatrali. L’occasione è ghiotta; chi meglio di un vecchio e malconcio Alessandro Haber può incarnare i bilanci di una vita enigmatica e giunta, nonostante tutto, serenamente al capolinea come quella di Zeno Cosini? Pochi, onestamente e per questo, vista la presenza in scena del suo alter ego giovanile (Alberto Onofrietti), Paolo Valerio, il regista, si sarebbe potuto/dovuto permettere il lusso di sporcarsi ben bene le mani, su questo capolavoro e permettersi la licenza di tradire, con garbo, ci mancherebbe altro, ma con coraggio, l’autore. E invece, la delega allo straordinario è stata affidata a (Monica Codena e Maria Crisolini Lalatesta) una sontuosa scenografia e a retaggi pittorici, puntualmente intervenuti ogni qualvolta la rappresentazione ha corso il rischio di lasciarsi travolgere dalla stanchezza o dalla dizione, storicamente confusamente affabulatoria, del 76enne attore bolognese. Tutto il resto, compresi gli applausi, virtuali, a scena aperta che sono stati tributati ad Haber per il suo naturale camaleontismo psichiatrico e quelli ai quali il pubblico ha dovuto rinunciare per il resto dell’intera compagnia, compressa a ingiustificati singoli ruoli da comprimari, è stata una fedelissima, inalterata e inalterabile lettura del testo, nel prologo e nell’epilogo, con qualche divagazione estemporanea sui conflitti e sugli ordigni, che non hanno comunque mai dirazzato dal corso naturale della sua introversione psicanalitica dell’originale scrittura di Italo Svevo. Le famigerate ultime sigarette, i complessi edipici, la conflittualità con il padre, la ricerca, spasmodica, di una donna, che si riduce a inevitabile compresenza affettiva di facciata, terza e ultima scelta di un ventaglio femminile spudoratamente usato come proposta commerciali a sconto, i sistematici tradimenti, supposti e immaginati, con qualsiasi altra donna inevitabilmente più attraente della moglie, sono stati soltanto passati in rassegna con la stessa elegante disinvoltura temporalistica che ne fece, l’autore, un secolo fa, senza mai premere il piede sull’acceleratore, senza mai tirare il freno a mano. In questi cento anni, i rapporti introspettivi e quelli interagenti umani, che non sono cambiati di un atomo, beninteso, hanno però subìto/goduto evoluzioni involutive davvero importanti, che a teatro si sarebbero potute evidenziare, esaltando, come summa, la solita, medesima, inadeguatezza del protagonista, come quella di buona parte del genere umano, sofferente del male di vivere e incapace di cogliere l’essenza della felicità nell’esatto momento della sua consumazione, ma solo a posteriori, quando ognuno di noi aziona la leva, salvifica, della memoria, dei ricordi, delle nostalgie, consentendoci e obbligandoci a guardare, con affetto commiserevole, la nostra vbecchia consorte, nell'esatto preciso momento in cui ci accendiamo un'altra sigaretta, giurando e giurandoci, che sarà l'ultima.