PRATO. Iniziò a sentirsi improvvisamente male, Claudia, la strega. Era il primo pomeriggio di un’estate uguale a mille altre. Bivaccavamo sull’erba di piazza san Giovanni, tra la basilica e la statua di san Francesco, zona frequentata solo e soltanto da compagni; alcuni erano involontariamente in procinto di sbagliare, altri stavano già sbagliando, ma erano convinti di fare la cosa giusta. La strega apparteneva al secondo gruppo. Iniziò ad avere delle convulsioni; Francesco e io l’accompagnammo verso la fontanella. Iniziò a vomitare; vomitava fango. Perché non provi a smettere, Claudia – ci permettemmo, sommessamente, di suggerirle; ma io c’ho du’ mamme, rigà: la mia e la robba. Correva, a velocità supersonica, il 1978. Siamo a Roma, tra smog e cemento; la Banda della Magliana fa il buono e il cattivo tempo. In Puglia, invece, tra ulivi e mare, di lì a poco nascerà la Sacra Corona Unita. Cambiano solo i colori e le longitudini, ma il dolore criminale e la totale dissoluzione sono esattamente le stesse. Per questo, mentre Oscar De Summa racconta, al Fabbricone di Prato (in prima nazionale; si replica oggi, alle 19,30 e domani, domenica 10 marzo, alle 16), dieci anni dopo, Stasera sono in vena, noi affondiamo la memoria in quella tragica stagione e ricordiamo perfettamente tutto, nonostante il tempo e la nostra fortuna di aver potuto studiare potrebbe farci dimenticare. Ma non si può, non si deve. E allora, questa rilettura concertistica di uno dei mosaici della trilogia della provincia (che si completa con Il diario di provincia e La sorella di Gesucristo), ce la gustiamo tutta, senza lasciarci travolgere dalla nostalgia e senza perdere nemmeno per un istante di vista che siamo a teatro e non a casa di amici a vedere un filmino di quegli anni. Come cornice, a emiciclo, attorno a Oscar De Summa, che si è salvato perché ha dato retta a chi gli consigliò, con una pistola rimessa nella cintura dei pantaloni, dopo avergliela mostrata, di andarsene, da quell’inferno, ci sono la coreografia musicale composta da Corrado Nuccini, Daniele Rossi e Francesca Bono (diaframma prezioso), che partono dalla Fine, dal baratro, di Jim Morrison, per arrivare fino ad Alleluia, alla resurrezione, di Leonard Cohen, passando attraverso alcune canzoni simbolo di quegli anni di buio accecante, gli inni alternativi di ottimi musicisti e involontari catti maestri, come Lou Reed, David Bowie, i Doors. Siamo nella provincia di Brindisi che si avvicina, con giustificabile presunzione, al Salento. Oscar è un rocker che sogna i grandi palcoscenici; ha una bella voce e non ha ancora riposto le velleità artistiche. Frequenta una compagnia di coetanei che non hanno vis artistiche e alcuna voglia di studiare; appetitosi per l’eroina che inizia a serpeggiare, soprattutto dove il nichilismo la fa da padrona. La storia di quei tre amici è vera, giura l’autore/interprete, addirittura autobiografica, con qualche aggiunta cromatica teatrale e alcuni opportuni omissis. Racconta della visita, inaspettata, quanto gradita, di una ragazza di Trieste e l’arrivo, in rapida successione, dei suoi due amici d’infanzia. Non è una rimpatriata estiva; si va a caccia di eroina; il fumo c’è, e in abbondanza, ma quello sballo non basta, è troppo lieve, non si sogna nulla, non somiglia a cento orgasmi tutti insieme. I quattro si rivolgono ai vecchi e sicuri spacciatori, ignorando che quel mercato, da qualche tempo, è preda di persone che ignorano l’amicizia. A loro, in una frenetica circumnavigazione dell’entroterra pugliese, si aggiunge anche un quinto tossico, che non si buca da oltre due settimane; quella pera gli è fatale. Il racconto, che fino a quel momento ondeggia tra onirismo e paura, diventa drammatico, soprattutto perché l’amico che non regge lo sballo è il nipote di un boss emergente. Oscar De Summa continua a far oscillare la memoria e la narrazione tra il sogno infranto di rocker e l’eroina che improvvisamente ha scalzato tutto il resto e che rischia, seriamente, di compromettere tutto ciò che potrebbe ancora succedere alla sua vita, che, quel giorno, scarta via, lascia intatto il suo passato e sale al nord, per provare a ricominciare. Il palcoscenico, le rappresentazioni solitarie, direttissime, invernali, diventano il suo pane, alimento prelibato e prezioso che spartisce e condivide, parallelamente, con altri crooner teatrali. Nelle sue vene, da tempo, scorre altro, per fortuna e grazie alla solita, identica piacevole coincidenza, ha deciso di non dimenticare, trasformando quella triste stagione della sua adolescenza nella potenza attoriale della sua maturità, in questa meravigliosa sinfonia tossica.