FIRENZE. La cosa più difficile, spesso, è riuscire a farsene una ragione, convivere e condividere, con dolcezza, naturalezza e il dovuto distacco, con una madre che, lentamente e inesorabilmente, si trasforma in altro. Quella stessa mamma che è stata, per una vita intera, faro e punto di riferimento di un’intera famiglia e che improvvisamente abbandona inconsapevolmente le redini del comando senza nominare un successore, diventando, tra l’altro, il soldato più indisciplinato, meno governabile, del quale, nella caserma/famiglia, se ne farebbe volentieri a meno. Fabiana Iacozzilli chiude la trilogia esistenziale e si affida, per la rappresentazione della vecchiaia ultracontaminata da malattie neurodegenerative, a Giuseppina Merli (81 anni il prossimo 26 marzo), protagonista disinvolta e perfettamente sintonizzata con l’incomprensibile trasformazione umana de Il grande vuoto, in scena ieri sera in uno stracolmo Teatro Cantiere Florida. La figlia, Francesca Farcomeni, meno adorata del fratello, Piero Lanzellotti, è l’ultima ad arrendersi alla tragicomica follia della madre, anche perché, in questa battaglia senza frontiere, il padre, suo grande estimatore, Ermanno de Biagi, è morto prima che la situazione della moglie degenerasse, anche se, in vita, aveva avuto occasione di toccare, con mano, i primi segnali di abbrutimento. Si apre così, infatti, il sipario della rappresentazione, con i due vecchi coniugi che devono, a bordo di una Fiat Panda rossa (targata Roma 15043B), fare pochi chilometri di strada per rientrare a casa dopo essere stati a fare un po’ di spesa in un supermercato della città. Come se non bastasse lo schizofrenico atteggiamento della moglie a caricare di ilare e sconfortante tensione il quadro, ci si mette anche la macchina, che di accendersi non ne vuol sapere; certo, è vecchia, ci vorrebbe la nuova Peugeot 206, ma per quel che deve fare, per ora, basta e avanza. Di macchine, di compravendite automobilistiche, di uova e olio da riporre, con cura, nel bagagliaio, non se ne parlerà più. Da quel momento in poi, scomparsa la vecchia automobile, tutto ruoterà attorno al dissolvimento cerebrale dell’anziana madre, un’attrice da tempo tramontata che vive il presente confidando soltanto nei pochi dettagli che la memoria artistica le offre ancora, un’angosciante ripetizione a oltranza di cose, città, dettagli, stracci, bambole e indumenti intimi accatastati un bauli e quella magnifica rappresentazione a Pietroburgo del Re Lear, l’unica cosa che riesce ancora ad inorgoglirla e che scatena la trafila della narrazione con una delle due matriosche (quella color oro) conservata nella dispensa. Succede tutto nel salone dell’abitazione, attorno al lungo tavolo sul quale la famiglia ha puntualmente consumato pasti e cene, con uno dei due posti di capotavola rimasto vuoto e che l’anziana signora invece vuole che sia ancora apparecchiato, compito, che sovente, svolge la governante, la debuttante Mona Abokhatwa. Unica compagnia, la televisione accesa su immagini calcistiche, della Lazio, per la precisione, con il capitano Ciro Immobile che contamina i ricordi della vecchia malata insinuandosi, addirittura, tra i personaggi della sua gioventù, che con il calcio non hanno mai diviso un solo atomo. Più che sui tentacoli della malattia che a volte coinvolge e stritola la terza età, Il grande vuoto perlustra i meandri di chi, della malattia, è tragico, inerme e inerte spettatore; l’incapacità, oggettiva e soggettiva, di interfacciarsi con una persona non più riconoscibile e che, con sadica inconsapevole naturalezza, riesce a disintegrare un’intera vita di affetti, soffocando, proprio sul breve limitare dell’esistenza stessa, innumerevoli stagioni di amore, sacrifici, complicità. Un senso di totale inadeguatezza parentale che Fabiana Iacozzilli ha voluto provare a smussare decidendo di affidare l’epilogo della rappresentazione a una seppur patetica simulazione teatrale, capace, però, forse, di rendere, a vincitori e vinti, vittime e carnefici, compresa la totale inadeguatezza sociale, politica e civile, il senso, leggero, della vita.

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