PRATO. Ogni volta che eravamo convinti di essere sul punto di capire, il frame successivo ci ha ulteriormente disorientati, facendoci arrendere all’idea che di Strangely familiar. Di un uomo che incontra sé stesso fosse opportuno ricordare quel che se ne voleva, senza avere poi la presunzione di spacciarlo, nella recensione, come il punto di vista unico e oggettivo. Il Metastasio di Prato decide di battezzare la stagione 2024-25 con la surrealtà (ce ne vorrà tanta, per sopravvivere, d’ora in avanti), affidando il volano dell’illusionismo distopico alla Compagnia Jakop Ahlbom, a quell’istrionico, duttile, poliedrico, genio incompreso, incompreso fino al suo arrivo in Olanda, dopo un frenetico errabondare tra Svezia e Danimarca, dove nessuno, ma proprio nessuno, gli riconosce l’estro del fuoriclasse. La storia, par di capire – impressione confortata anche dalla lettura del comunicato stampa -, si aggira in un ufficio di giovani aspiranti broker (abbigliamento da bancari, indiscutibilmente) dove, improvvisamente, dopo un immaginario suicidio, arriva, in sostituzione, come nelle migliori tradizioni delle catene di montaggio, un ragazzo uguale identico a uno degli impiegati (sono i fratelli, italofrancesci, Fabio e Luca Maniglio), che riesce a ottenere tutte le attenzioni e i successi professionali che il suo sosia perdente insegue, inutilmente, da sempre. Su questo sdoppiamento figurativo, emozionale e fisico occorre inderogabilmente intervenire e sottolineare come il regista su questo terreno di frustrazione lavori, praticamente, da sempre. Come non si può non dare il giusto rilievo all’asfissiante cromatura scenografica, dai toni lugubri, post industriali, un elastico in perenne tensione che rimanda al futuro confidando nel passato, composta da vani in movimento che finiscono per essere una ragnatela dalla quale nessuno riesce a svincolarsi, dove ogni varco altro non è che l’ingresso di un nuovo labirinto, un saggio, immediato e immanente, di riferimenti cinematografici, letterari, filosofici e architettonici sui quali non ci soffermiamo perché abbiamo sempre il timore di dare l’impressione di essere quello che non siamo e che non vorremmo mai essere. Ai quali, però, vorremmo aggiungere, ma solo per emozioni ricevute all’istante e che abbiamo avuto la fortuna di ricordare il giorno dopo, mettendoci a scrivere, oltre che alla spudoratezza di Buster Keaton, anche la rivoluzionaria gentilezza di Charlie Chaplin. È una costruzione teatrale muta, senza parole, sostituite da una maniacale precisione ginnica e trasportata altrove da una musica che avremmo scommesso, in un preciso istante, si sarebbe affidata al postindustrialismo dei Pink Floyd. Occorre uno sguardo tridimensionale, per non perdere per strada elementi di spicco che servono indispensabilmente a confezionare il commento. Ma soprattutto, occorrerebbe vederlo nuovamente, e più di una volta, lo spettacolo; perché è oggettivamente perfetto, seppur esteticamente trasandato e poi perché siamo profondamente convinti che il meglio e il grosso ci siano inesorabilmente sfuggiti, concentrati, come lo siamo stati per lungo tempo, a cercare di capire. Vorremmo rivederlo tenendo al guinzaglio i ricordi della prima visione per aggiungere e/o sostituire un impatto ad altre considerazioni. L’ansia che ci ha pervaso all’inizio nel dover tenere a bada la nostra voglia di urlare ma dite qualcosa, cazzo, si è andata, lentamente ma inesorabilmente, a placare quando ci siamo sintonizzati sulle lunghezze d’onda dello spettacolo e abbiamo condiviso con tutto l’ambiente che le parole, le didascalie, le conversazioni e i colloqui avremmo dovuto gestirli noi, nel nostro immaginario collettivo, anche senza voler ossequiare, con fedeltà, la volontà dell’autore, che delle nostre obbiezioni, probabilmente, come delle nostre condivisioni, non sa che farne. Nella settimana di celebrazione di Luca Ronconi nell’atelier del Magnolfi, il convento oltre il Bisenzio, curata da Fabrizia Bettazzi, papà Metastasio, come se si trattasse di un inevitabile risvolto, va oltre e arriva al teatro del terzo millennio. Si replica oggi, sabato 19 ottobre, alle 19,30 e domani, domenica, alle 16,30; consiglio spassionato: non perdetevelo.

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