di Letizia Lupino
PISTOIA. Si parte bene. Joni Mitchell che con la sua estrema dolcezza scandisce l’incipit dello spettacolo di stasera, The Koln Concert come prima regionale al teatro Manzoni di Pistoia. Le poltrone della platea gremita trasudano aspettativa nel bisbiglio concitato delle luci di sala che non si spengono, ma che, anzi, palesano la loro presenza nonostante l’avvenuto ingresso di una prima ballerina-attrice che darà, infatti, il via alle danze. Un’assenza importante dovrà, però, essere gestita. Il genitore dell’opera, Leone d’Argento Biennale Danza 2024, Trajal Harrell, non sarà presente per cause di forza maggiore. ma prima che tutto cominci, terrà a farci sapere che il ballo è il suo posto e proprio in virtù del fatto che ha più danza alle spalle che non davanti avrebbe voluto fortemente esser lì, a calcare le scene di un teatro di provincia di tutto rispetto. Alfine le luci si abbasseranno definitivamente in una lunga attesa di un qualcosa che forse non comincerà mai. Sette panchetti sul proscenio disposti linearmente sfalsati attenderanno anche loro e accoglieranno poi in un continuo cambio turno i sei ballerini che popoleranno la scena. Un andirivieni preciso e senza sbavature, movimenti puliti che acquetano e guidano. Corpi preparati e armoniosi nella loro differente natura cercheranno di dare sostanza ad una colonna sonora che sarà perno centrale per tutta la durata dell’esibizione, The Koln Concert appunto, l’opera del 1975 di Keith Jarrett che, così com’è, dà anche il nome allo spettacolo, senza, quindi, timore di fraintendimento alcuno. Un sogno? Una scommessa? Un capriccio? Un omaggio alla più grande improvvisazione solista jazz? È una domanda che rimarrà appesa dall’ultimo applauso fino ai giorni a seguire per poi sopirsi in un angolo remoto dei ricordi. Ce lo chiediamo, perciò, cosa abbiamo visto. Sorpresi e stupefatti di continuare a non capire, sorpresi e stupefatti di star forse cercando di risolvere una strana funzione algebrica della danza. Ripercorrendo ciò che abbiamo guardato cercando fortemente un senso, il senso nascosto. La fissa ripetizione dei movimenti quasi fine a sé stessa che come un automa imbocca un vicolo cieco senza tornare indietro, come il CD quando si bloccava nel lettore riproponendo all’infinito le solite due battute. E così, per un tempo seppur decisamente breve, lo spettacolo si è attorcigliato su sé stesso potendo, ma non esaudendolo. Un poteva essere che non ce l’ha fatta. La crisalide rimasta tale nella poetica forza di quel pianista jazz che stava dando tutto sé stesso in un’improvvisazione che segnerà i venti anni successivi della musica. La palpabile sensazione è che se la cantino e se la suonino per conto proprio. L’improvvisazione dentro l’improvvisazione, uno specchio riflesso dentro l’altro che deforma e ci lascia incapaci di capacitarsi.