PRATO. Quando sul megaschermo è partita la clip con una delle indimenticabili interpretazioni di Ornella Vanoni della sua, della nostra, Domani è un altro giorno, abbiamo seriamente pensato che Il Risveglio (oggi, domenica 3 novembre, alle 16,30, ultima replica al Metastasio di Prato) volesse sondare gli anfratti della Rinascita e coniugarsi con il diritto/dovere, resiliente, di Continuare. L’ultimo spettacolo di Pippo del Bono, invece, è, senza sperticarci in beatificazioni, né in acrimoniose condanne, un Requiem per il suo Bobò, nato ottantasette anni fa, in manicomio, con le generalità rispondenti a Vincenzo Cannavacciuolo, resuscitato, con quello pseudonimo quasi onomatopeico, sui palcoscenici di tutto il Mondo come giullare, inseparabile e inseparato, di Pippo Del Bono e morto, cinque anni fa, all’età di ottantadue anni, tra le braccia di un Teatro che lo aveva riscattato, con gli interessi, dalle sue disabilità. La nostra impressione sulla perseveranza dello spettacolo che deve continuare nonostante la solitudine, le guerre, la ferocia umana, l’indifferenza, si è andata poi consolidando con il trascorrere della messinscena, visto e considerato, che sulle onde della colonna sonora che ha accompagnato la recita, c’è stato il momento/tributo dei Jefferson Airplaine e poi quella degli Who, due gruppi musicali/militari che hanno fatto del pacifismo la loro ragion d’essere. Accanto a Bobò, l’autore ha anche voluto ricordare la regina delle danzattrici, Pina Bausch, che consegnò proprio al reietto resuscitato il passaporto della danza. Credevamo – e ne eravamo giustamente convinti – che questo Risveglio fosse un altro e un nuovo Manifesto di Resistenza, che prendesse spunto dalle ceneri dei suoi indimenticabili personaggi per librarsi ancora in volo verso orizzonti che senza il Teatro e la sua forza si fanno cupi, minacciosi, pericolosi, letali. E invece – e da qui muove la nostra clemenza – lo spettacolo si articola attorno alla paura, chimica e comprensibile, della vita che sfugge, che lascia lungo la corsa vertiginosa verso il nulla brandelli di amore, ricordi indelebili, speranze accuratamente riposte in cassetti sconosciuti a quell’umanità che crede e ha deciso di rinunciare alla riflessione. E invece – e qui la nostra clemenza diventa molto meno sensibile – lo spettacolo decide di autoeliminarsi dai meccanismi perfettamente oliati del Teatro per trasformarsi, in un gioco grottesco e tragicomico, in una conferenza, dove anche la sua Compagnia, altamente pasoliniana (Dolly Albertin, Gianluca Ballarè, Margherita Clemente, Ilaria Distante, Mario Intruglio, Nelson Lariccia, Gianni Parenti, Giovanni Ricciardi, Pepe Robledo, Grazia Spinella e chissà chi c’era, davvero, sul palco), si autoreclude nella gabbia dorata del suo domatore, recinto nel quale finisce per essere involontariamente risucchiato anche il violoncellista Giovanni Ricciardi, il cui suono dello strumento viene, in più di una circostanza, assorbito e confuso dalle note della registrazione sonora. Uno spettacolo che trasuda decadenza, stanchezza, che passeggia con precaria deambulazione accanto al suo profeta ammalato, ferito, impaurito, che non ricorda i pochi appunti figli di un’interiorità che non dovrebbe aver bisogno di alcun sostegno, se non quello di qualcuno che lo accompagni fin sul limitare del tramonto. Sulle cinque dune di sabbia, che sono forse la micro rappresentazione del deserto medio orientale, sulle quali vengono appoggiate tre croci, che sono quelle dei morti in battaglia, tanto a Gaza quanto a Kiev, ma senza dimenticare tutti gli altri scenari bellici che non hanno rispondenza mediatica e politica, si chiude il sipario, con alle spalle uno dei tanti balletti di Bobò; l’ultimo. Con il grido, soffocato, dell’invito a danzare.

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