FIRENZE. Abbiamo la tragica impressione, il funesto sentore, che il peggio debba ancora venire. Sì, certo, il berlusconismo ha fatto più danni della grandine, anche delle ultime scese senza ritegno e incoraggiate da costruzioni selvagge, letti di fiumi non puliti, fognature abbandonate a loro stesse; ma è il capitalismo che ha sferrato, proprio negli ultimi venticinque anni, i suoi colpi più precisi, chirurgici, letali. Con la delittuosa complicità dell’intera umanità, che ha finto pubblicamente di subire, credendo, però, privatamente, di invertire l’atomica tendenza e riuscire così, in qualche modo, a goderne i suoi effetti collaterali. La Lolita di Nabokov, prima e Kubrick (un visionario, lucido, preveggente), poi, non è più un’isolata, scandalosa scabrosa, eccitantissima, situazione borderline, ma la trasversale normalità, così permeante che ha livellato anche le differenze genetiche, partorendo un esercito di buone guaglione (come scrisse, musicò e cantò Pino Daniele nel 1977), un’agguerrita e ancor più perversa concorrenza per un mercato maschile sempre più facoltoso e meno accontentabile. L’abbiamo riassunto così, Never Young, un progetto di Biancofango, scritto da Andrea Trapani e Francesca Macrì, con quest’ultima che firma anche la regia e portato in scena da Marco Gregorio Pulieri, Irma Ticozzelli, Andrea Trapani, Sara Younes e Cristian Zanondella, oltre la collaborazione di una dozzina di cittadini/comparse/attori che agitano la scena, prodotto da Elsinor e Fattore K, in prima regionale ieri sera al Cantiere Florida di Firenze, ma di carne a cuocere, in realtà, ce n’è stata molta altra ancora, ammassata, forse in modo anche asfissiante, nel breve volgere di poco più di un’ora. Abbiamo esordito che, a nostro avviso, il peggio debba ancora venire, perché non vediamo all’orizzonte una seppur flebile inversione di tendenza; anzi, la situazione, già fortemente compromessa e che necessiterebbe di una serie, razionale, poderosa revisione, ha tutta l’aria di inabissarsi ancor più profondamente e velocemente, soprattutto pensando alle mamme Lolita e ai papà Lolito che diverranno, nel giro di tre lustri, i genitori del tempo che verrà. Dobbiamo essere onesti e cospargerci il capo di cenere: siamo noi, presuntuosi genitori illuminati che lambiscono, prima e dopo, i sessant’anni, i veri responsabili di questa, per null’affatto inesorabile, decadenza. Perché non abbiamo opposto le minime opposizione e resistenza quando lo star system ci ha chiesto, in prestito, le nostre bambine poco più che ragazzette, garantendo a loro e a noi che sarebbero diventate grandi in un batter d’occhio e che le avrebbero trasformate, anziché in frustrate ragioniere, impiegate, anonime donne da supermercato, in inarrivabili divinità da feste esclusive. Gustose damigelle di compagnia che avrebbero saltato a piè pari l’età dell’adolescenza e sarebbero entrate direttamente nel mondo dei grandi. Certo, il dazio da pagare è stato naturalmente sottinteso, ma lo sapevamo tutti, soprattutto noi genitori, che le nostre figlie sarebbero state appetitosa carne da macello. E da quella tragica esperienza generazionale, la società successiva, invece che uscirne ammaccata, ha pensato bene di assorbire gli scompensi, trasformando quegli eccessi in normalità, crescendo una nuova generazione di mostri, dove appena si intuisce di poter avere un prezzo, occorre mettersi sul mercato. La rappresentazione, un tecnoringraziamento a Andy Warhol ed Edorado Bennato, termina, dopo un incestuoso divorare di pop corn, con una raccapricciante sequenza di messaggi on/off line, con una speranza, che i Peter Pan del futuro riescano a smettere di piangere, in modo che le stelle smettano di morire. Ma dipenderà ancora una volta dai genitori; e sarà dura, molto dura.

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