di Letizia Lupino
PISTOIA. È sabato di un novembre vagamente primaverile, anche se un vagito di freddo comincia a farsi sentire. Per alcuni, la settimana lavorativa è finita, per altri forse infinita. Queste, quantomeno per il momento, sono le cose che sappiamo essere vere nella familiarità della nostra latitudine. Per il momento appunto. Per la limitata estensione del tempo che servirà a Rosie per tornare a casa, nella casa di Adelaide, in Australia, così lontana e così vicina, per affacciarsi sul palco e per sedersi sul proscenio: un monologo, l’antefatto, l’accelerante del fuoco che divamperà presto. Cose che so essere vere, di Andrew Bovell (nella traduzione di Micol Jalla), porta così le nostre cieche crudeltà sul palco del Teatro Manzoni. Un testo (coprodotto dal Teatro Stabile Torino - Teatro Nazionale, dal Teatro Stabile di Bolzano e dal Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale, in accordo con Arcadia & Ricono Ltd per gentile concessione di HLA Management Pty Ltd) toccante e audacemente chirurgico del 2016 che già si porta in valigia molto stagioni e molte ancora ne avrà di fronte a sé. Ciò che ci aspetta è ciò che non vogliamo vedere. Una famiglia come tante che come tante famiglie affronta l’ineluttabile quotidiano del nido domestico, con le sue regole, le sue propensioni, le sue priorità. Le sue crepe. E saranno soprattutto quelle, le crepe, a uscire prepotentemente fuori. Da un gesto, da un approccio fisico alla scena o da una frase detta come se fosse casuale. Le crepe emotive che anni di stucco non sono riusciti e non avrebbero potuto nascondere in nessun modo. Uno spettacolo che attraversa, non solo metaforicamente, le quattro stagioni. È una maturazione obbligata e volontaria che i sei personaggi (subiscono e faranno subire. Valerio Binasco regista e protagonista nel ruolo di Bob Price ci offre una visione fotocopia di moltissime realtà familiari e relazionali che potremmo alzare una mano solo per sussurrare qualcosa che suonerebbe come un’imbarazzata ammissione. E non di colpevolezza; non si tratta semplicisticamente solo di quella, o meglio, magari in parte c’è anche quella, ma soprattutto è il corollario umano per eccellenza, l’essere imperfetto che si approccia all’altro portandosi dietro un carosello di insicurezze, le credenze archetipiche che plasmano, inesorabili, la vita intera di ognuno. Un’immaginifica Via Lattea che appare nella sua compatta interezza solo se vista da lontano. Ed è esattamente questo che Cose che so essere vere ci mostra: la lontananza come porto sicuro che ci fa nascondere il fianco fragile, la lontananza come anestetico alla vita per affrontare la vita stessa. E poco importa se abbiamo promesso e giurato davanti a divinità in ceralacca e amici e parenti in merletti e cravatta. Quel che difendiamo è sempre il nostro sacro giardinetto, così caro al protagonista della pièce, laddove nasconde e si nasconde, ma dove soprattutto cura e si cura. I sei personaggi (Fabrizio Costella, Giovanni Drago, Giordana Faggiano e Stefania Medri) con la loro eccellente interpretazione, una Giuliana De Sio impareggiabile, ci dimostrano come, per assurdo, se non si è pronti alla vita non si può dare la vita, ma anche che la vita stessa ad un certo punto, in inverno, primavera, estate o autunno che siano, possa arrivare, ed è certo che arriverà, a mettere con le spalle al muro. La strappata sensazione di non appartenere più a un sistema che ci ha identificati, a una metaforica illusione di quel che crediamo essere vero, ad una domanda che tremula si fa avanti: Did you evere ho clear?