FIRENZE. È cresciuto con Lui e a Lui, diventato uomo, affermato e stimato, è voluto ritornare. A Vincenzo Salemme non si può certo rimproverare di aver mai cavalcato l’onda della napoletanità, scimmiottando, come fan molti suoi conterranei, l’impareggiabile Edoardo prima e, dopo, l’altra divinità, Massimo Troisi. Perché lui ha il suo calibro, il suo polso, la sua strada. E ieri sera, al Teatro Verdi di Firenze (si replica stasera e domani, 24 novembre, con la pomeridiana), c’è quasi riuscito a non suggestionarsi e lasciarsi guidare dal suo mentore De Filippo, salvo poi, prima della chiusura del sipario, concedergli, inevitabilmente, qualcosa. Ma in scena va Natale in casa Cupiello, la commedia delle commedie, e a un napoletano doc (di Bacoli, per l’esattezza), che vive facendo spettacolo, sottarsi del tutto dal fascino del capostipite non è praticamente possibile. Se non come ha fatto Antonio Latella, che gli abiti di Luca Cupiello li ha dati a Monica Piseddu, facendole trascinare, su e giù per il palco, per due ore, quel pesantissimo scrigno di vetro e omaggiando l’autore, oltre che con la sua meravigliosa rilettura, anche con la voce registrata fuori campo e mandata in onda come pillola commemorativa, con la domanda che campeggia per tutta la rappresentazione: ‘o presepe te piace? Ma Salemme conosce i suoi polli e soprattutto conosce il tempo nel quale vivono e sa benissimo che tutto il suo pubblico, numerosissimo, come è successo al Verdi di Firenze, si è lasciato inesorabilmente condizionare dall’avvento dell’era digitale e anche la drammaturgia, comicità compresa, ha bisogno di ritmi più incalzanti: vietato pensare; ridere, sì, ma sghignazzando, accompagnando il boato della risata da un battimani liberatorio. Non a caso, anche ieri sera, nel bel mezzo dello spettacolo, è stato costretto a richiamare all’ordine alcuni suoi coetanei ricordando loro che ai tempi di Edoardo, il telefonino non c’era e dunque, li dovete stutà. Nessuno ha protestato, ma in molti hanno continuato a fare le foto, come se la reprimenda (che dovrebbe esser superflua, dovrebbe) facesse parte del copione. Torniamoci, sul copione, che nell’occasione è un atto unico, intervallato da due cambi-scena con un sipario calato che consente, da una macro fessura, di vedere dietro tutti all’opera. I personaggi dell’indimenticabile Rione Sanità ci sono tutti: c’è la moglie, donna Concetta (Antonella Cioli), il fratello scassambrell Pasqualino (Franco Pinelli), il figlio scansafatiche e mariuolo Tommasino (Antonio Guerriero), la figlia irrequieta Ninuccia (Fernanda Pinto), suo marito ‘nsallanute Nicola Percuoco (Vincenzo Borrino), l’amante, il gagà Vittorio Elia (Agostino Pannone) e gli altri che fanno indissolubilmente parte della commedia (Sergio D’Auria, Oscarino Di Maio, Agostino Pannone, Pina Giarmanà, Geremia Longobardo, Nuvoletta Lucarelli, Gennaro Guazzo e Marianna Liguorio), come alcuni condomini e il medico, che verrà a sentenziare l’irreparabile. Le conversazioni e i dialoghi sono più veloci; il napoletano, come slang universale, è usato con accenti più flessibili; le pause e i silenzi, quelli occupati dalle smorfie del viso emaciato e leggendario di Edoardo, dalla biblica sofferenza di Pupella Maggio e dall’amorosa insolenza di Luca De Filippo sono a malapena accennati, spesso soprasseduti, volentieri evitati. Non crediate che dipenda unicamente dall’immensa statura dei tre artisti sopracitati; i loro sparring partner non sarebbero e non sono da meno, a cominciare dal bravissimo Vincenzo Salemme e via via scorrendo tutti gli artisti della sua compagnia. Siamo più propensi a pensare che con i tempi che sono malevolmente cambiati, anche il nuovo pubblico stenterebbe a capire, non sentendosi così autorizzato ad accendere il telefonino, infastidire astanti e artisti e fare la foto, per scrivere, subito dopo, a tutti i suoi contatti, dove mai fosse, di venerdì sera, con quel freddo, invece di stare a casa, a preparare il presepe.

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