PISTOIA. L’arte non è paragonabile allo sport, ma solo per un semplice dettaglio: nell’arte non esistono i primatisti, i più forti, i più bravi. Filippo Timi, imparagonabile decatleta, a nostra immodestissima opinione, fa un’eccezione - alla regola da poco citata e che non ammette deroghe: come lui, nessuno, nessun altro. Questa affermazione, che taluni nostri colleghi gli appioppano, proprio come noi, sistematicamente, lo ha reso ancor più detestabile di quanto non faccia e goda nel farlo proponendosi al pubblico con la sua solita immarciscibile irriverenza, strapazzando, con la gioia di un adolescente, alcuni testi sacri ai quali quasi tutti i suoi colleghi si avvicinano con timidezza e rigore ecclesiale. L’ultima occasione, ultima solo in ordine di tempo (ma questo è solo il nostro augurio), se l’è presa con Amleto alla seconda (non sappiamo, sulla tastiera del pc, come fare per mettere il 2 piccolino in alto) - in replica domani pomeriggio, 2 febbraio, al Teatro Manzoni di Pistoia -, una nuova esondazione di primizie e luoghi comuni, di colori e ombre, una macedonia totale con frutti esotici e con quelli che troviamo, in ogni stagione, sulle nostre tavole, un frullato di provocazioni, che acuiscono la loro irriverenza in una società che tende con preoccupante sistematicità a boicottare chi, in natura e con scienza, decide di abbandonare le regole di una convivenza che si basa, ormai da troppo tempo, principalmente sull’ipocrisia. Shakespeare può dormire sonni tranquilli, comunque: il testo del suo capolavoro è salvo, i personaggi e gli ingredienti della sua opera leggendaria ci son tutti. Certo, il funambolo perugino, non si sarebbe mai messo all’anima una rilettura pedissequa del testo; i suoi detrattori sosterrebbero perché non ne sia capace; noi, esaltatori pronti a difenderlo ovunque e comunque, esattamente per il contrario: è così bravo nel poterlo fare, che si diverte molto di più a girarci intorno, cogliendo, da quella sentenza che ha più di quattro secoli di vita, nuovi spunti per una sua rinascita, una sua sconclusionata reincarnazione. Al suo fianco, come ai vecchi tempi, le sue muse ispiratrici, brave (lo dicono tutti, a ragione, naturalmente), bravissime (a nostro parere quando sono con lui sul palcoscenico; in sua assenza, tornano a essere brave): Marina Rocco, la Marylin de no’antri, e Lucia Mascino, quel Commissario laureato in fisica quantistica che finalmente abbandona rigore, regole e logica per dare libero sfogo alla propria indomita sfacciataggine. Stavolta, come se questo quadretto attoriale non fosse già sufficientemente irritante, nell’Amleto riveduto e corretto ed elevato al quadrato, a dar manforte alla già totale profonda noncuranza, ci sono Elena Lietti, altra antica e nobile frequentatrice di Timi, del Teatro Franco Parenti e di Andrée Ruth Shammah e Gabriele Brunelli, fedele servitore del ronconismo, perfettamente imparato al Piccolo Teatro di Milano. Lo spettacolo è un’esibizione circense con soli animali della foresta, precauzionalmente divisi dal pubblico da inferriate che li tengono in gabbia, anche se, Gertrude, ad esempio, emette flatulenze in successione, prima di stancarsi pubblicamente di suo figlio che vorrebbe avesse il coraggio di andarsene e Ofelia, che confessa tutto il suo amore, ostinandosi a non capire nulla, solo prima di morire. Attorno, gravitano personaggi piacevolmente inquietanti: il fantasma di Polonio, che ha gli abiti e il corpo di una Marylin Monroe (la parentela, tra il cantastorie perugino e la diva statunitense, a questo punto, può dirsi conclamata) terribilmente stanca e annoiata di essere quello che il pubblico vuole, tanto da tentare, vanamente e a ripetizione, il suicidio con la statuetta dell’Oscar. Sopra ogni cosa, prima di ogni considerazione e dopo ogni impressione, commento, giudizio, Filippo Timi, il domatore più inquietante in circolazione, che più che essere il regista, di questa meravigliosa provocazione, ne è l’incarnazione totale, vivente, coerente, offrendosi in pasto a chiunque voglia ascoltarlo, vederlo, ammirarlo, in tutta la sua completa, totale e nuda contraddizione, tra la genialità del suo spirito e la caducità del suo fisico, un’altalena ininterrotta di fraintendimenti e malintesi, che si chiudono, sistematicamente, nel segno del perdono. Oh, sì, certo; non perde occasione, talvolta, per l’umorismo più addomesticabile, ma è nel complesso di questo spettacolo e come summa di tutte le sue produzioni teatrali, un unico nel panorama, consapevole di essere troppo bello per fare cose impegnate. Di quel dramma, visto che le generazioni che si sono succedute, da allora, non abbiano saputo farne tesoro, ma solo ed esclusivamente riproporlo in tutta la sua austera inutilità, è meglio farne un’opera buffa, conservando tutta la tragedia, ma colorandola di paillettes e arricchendola, contestualizzandola, con la musica, i personaggi televisivi, reali e cartonati (Mara Venier, i Puffi e la Pantera Rosa), con la tragicomicità degli ammonimenti nostalgici processuali di Pietro Pacciani, con la dissacrante personalità dell’autore, che prova a raccomandare indulgenza per sé e per il mondo intero suggerendo e indicando, ancora una volta, la strada della beatificazione, quella offerta dall’amore, in prima battuta e dall’arte (teatrale), come panacea definitiva.

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