PISTOIA. Il testo è così intriso di dolore che occorreva necessariamente raffreddarlo, prima di portarlo in scena, pur tenendo nella debita considerazione l’etimologia lessicale del titolo della rappresentazione, L’Oreste. Quando i morti uccidono i vivi, che non può e non vuole fare a meno di un’illustre citazione, quella di Omero nell’Iliade, con il chiaro riferimento all’Oreste acheo, quello ucciso da Ettore, assistito da Ares. Ma anche senza la nobiltà di un trascorso così leggendario, la storia di Oreste, quella scritta da Francesco Niccolini e affidata all’interpretazione di Claudio Casadio, diretto da Giuseppe Marini, in scena al Teatro Cantiere Florida di Firenze, è una storia di cui la cronaca, i servizi sociali, le case detentive e manicomiali e il teatro si è già occupato, a più riprese. Sono le pagine, sgualcite e spesso dimenticate scritte a proposito di bambini difficili, che crescono in stretto regime parallelo con le loro difficoltà, fino a quando non sono più gestibili e per loro, i loro sogni, le loro paure, i loro mondi costellati da lune inarrivabili, bisogna necessariamente costruire uno specifico habitat coatto, nel quale, almeno, pur senza alcuna progettualità, assicurano l’altrui incolumità. Le condizioni per addolcire la pena e la mestizia del testo ci sono tutte; sul fondo del palcoscenico sono proiettati i disegni animati di Andrea Bruno, che sono il vero alter ego del protagonista, che disegna, non dorme mai, colloquia ininterrottamente con Ester (che non esiste, ma solo per il mondo circostante; per Oreste, sì, eccome) e ha un florido rapporto epistolario (mai contraccambiato, perché destinatario sconosciuto) con l’amata Mariù (che poi è la sorella), che vive nella villa di Maggiano, alle porte di Lucca, altro illustre riferimento con il capolavoro di Mario Tobino e con la quale, appena fuori, libero, andrà in Russia dove con suo padre, un astronauta, partiranno tutti e tre, felici e contenti, alla volta della Luna. L’orfanotrofio/manicomio/carcere criminale è l’asse portante della storia di Oreste, che intorno ha solo muri, tra l’altro invalicabili, e soggetti con i quali ha relazioni scientifiche, pragmatiche, anaffettive. Solo i sogni e la fantasia riescono a tenerlo in contatto con sé stesso, ma senza criterio, disciplina, moralità. La violenza è la sola arma comunicativa leggibile e intellegibile per sé e per gli altri. Su questi presupposti occorreva, necessariamente, lavorare senza che il nichilismo prendesse il sopravvento, ma senza che la faccenda si potesse trasformare in una macchietta puerile prima, adolescenziale, dopo e rimanere su questa falsa riga fino all’epilogo. Il senso di totale abbandono, prostrante solitudine, nulla assoluto, viene letalmente risucchiato dalla falsa tenerezza del personaggio, che non può certo avere coscienza della propria situazione, ma nemmeno non suscitare la dovuta e necessaria indignazione nei confronti del mondo circostante dei sani che lo lasciano marcire. Abbiamo avuto l’impressione, durante la rappresentazione, che l’intero apparato drammaturgico non abbia mai sfruttato le numerose meravigliose occasioni ripetutamente offerte, nemmeno confidando in talune contestualizzazioni temporali, politiche, geografiche. Questo Oreste che nasce bambino/uomo incompreso all’intero di una struttura sanitaria senza il supporto affettivo di nessuno che lo conosca almeno un po’ e che non invecchia mai, restando puntualmente solo e senza nemmeno riuscire a scalfire la propria incomunicabilità.