PRATO. Una catastrofe a cascata quella innescata dalla ferma e incontrovertibile convinzione di Creonte, un Che Guevara dell’antica Grecia, che si ravvede tardi, nonostante i funerei presagi di Tiresia. E non si scompone minimamente nemmeno Massimiliano Civica, qualsiasi cosa decida di rappresentare. Anche con Antigone, di Sofocle, come se fosse un Quaderno per l’inverno, la scenografia deve essere inesistete, più che minimalista. Sì, certo, sulla sinistra del proscenio giace un manichino prussiano, il corpo di Polinice, lasciato in pasto a uccelli e randagi, reo di aver sfidato e ucciso il fratello contro la sua gente. Ma al Teatro ci pensano, anzi, ci devono pensare, le parole e in questa occasione, una prima assoluta, battezzata e prodotta dal Teatro Metastasio e portata in scena al Fabbricone di Prato (si replica fino a domenica prossima, 8 dicembre), la squadra del mister è di sontuoso rispetto: nei panni di Corifeo, un maggiordomo/cronista e voce di coscienza popolare, c’è Marcello Sambati, che prova a ricondurre a ragionevolezza l’umana irresponsabilità del comandante Ernesto Creonte, un Oscar De Summa un po’ meno brillante del solito, forse per il plumbeo atmosferico, o per l’indebita sottrazione degli orecchi da entrambi i lobi (certo, di Comandanti, con gli orecchini, se ne vedono pochi),
di Francesca Infante
PISTOIA. Il Teatro Manzoni di Pistoia ha (ri)aperto i battenti ieri sera, inaugurando il suo palco (dopo la chiusura per lavori, iniziati quest'estate) con un potente quanto audace spettacolo: L'onore perduto di Katharina Blum (in replica fino a domani pomeriggio, 1 dicembre), ispirato all’omonimo capolavoro di Heinrich Boll, con la regia di Franco Però e prodotto dai Teatro Stabile Friuli Venezia Giulia, Napoli e Catania. Donna dalla fredda dolcezza, Katharina Blum ha passato la sua intera esistenza a lavorare e a dedicarsi alla vita degli altri. Ha divorziato dal marito, perché non voleva più subire le sue molestie e adesso lavora come donna delle pulizie presso una famiglia benestante. Per i coniugi Blorna, Katharina, è molto più di una semplice dipendente: le vogliono bene, come quasi a una figlia. Tanto che sono proprio loro che spingono Katharina a uscire la sera della vigilia di Carnevale e ad andare a ballare (cosa che lei ama fare), per divertirsi almeno una volta. Ma alla festa incontra Ludwig Götten, un piccolo criminale, sospetto terrorista. Trascorre la notte con lui e l’indomani, non del tutto consapevole della situazione, ne facilita la fuga.
FIRENZE. Ventidue secoli e, se ne può ancora parlare. La storia, anzi, la leggenda di Anfitrione è una di quelle con le quali ci si sono misurati in tanti, nel tempo, compreso Luigi Pirandello. Figuriamoci se Filippo Dini se ne sarebbe potuto e voluto esentare. E allora, in scena (alla Pergola di Firenze; si replica fino a domani pomeriggio, domenica 1 dicembre), con Gigio Alberti nei panni di Giove, Barbara Bobulova in quelli di Alcmena, Antonio Catania è Anfitrione, Giovanni Esposito il suo autista/tuttofare, Valerio Santoro invece è Mercurio e Valeria Angelozzi la cameriera della casa reale, fidanzata con l’autista. Ma non siamo con le bighe e gli imperatori, ma in Emilia Romagna, nel terzo millennio, alla vigilia delle elezioni: Antonio Catania è un umile politicante in debito con la consecutio temporum e nonostante gli exit pool lo dessero abbondantemente sotto il quorum, alle elezioni sbaraglia gli avversari e ottiene percentuali plebiscitarie. Barbara Bobulova è sua moglie, professoressa delle scuole medie primarie, con Valeria Angelozzi cameriera di una casa che in una notte si trasformerà nella residenza del Presidente del Consiglio (gli apparentamenti poltici, si sprecano: si può intravedere chiunque). La comicità, paradossale, prende immediatamente il sopravvento: l’autista, portaborse, aspirante corazziere, nonostante non sia un vatusso, è napoletano: conosce l’arte della strada, conosce i trucchi del mestiere, ma ignora il profondo dell’inconscio e al cospetto delle alchimie di Giove, è convinto di impazzire.
FIRENZE. Il continuo mulinare delle mani, che cadenza il dolore, divide a scompartimenti stagni la memoria, cronicizza la storia. Mentre a Lampedusa, proveniente dalle coste africane, è in arrivo un altro barcone con a bordo disperazioni inimmaginabili e inquantificabili, lo zio Peppe, suo zio, muore in Continente, vinto dal cancro. L’abisso si muove tra queste due estremità, che Davide Enia raccoglie con poesia su un palcoscenico (in questo caso quello del Cantiere Florida, a Firenze) illuminato a malapena, in compagnia di un indispensabile strumentista, Giulio Brocchieri, che accompagna, da tempo, i mimi del pupo palermitano per poi decidere di prendere il sopravvento quando il dolore assume i contorni di qualcosa che non si può raccontare, ma solo perché non si riesce a farlo. Lo spettacolo prende vita dal successo raccolto dall’attore con la pubblicazione del libro Appunti per un naufragio, dove racconta le stesse cose, quelle che si susseguono sull’isola delle sepolture anonime, ormai da un ventennio, la frontiera dell’umanità, da quando di là dal mare ad alcuni acuti dittatori sono succeduti macellai senza scrupoli che hanno fatto la fortuna e la felicità, in attesa, sull’altra sponda del Mediterraneo, di qua dal mare, di demagoghi e criminali abilmente organizzati.
PONTEDERA (PI). 13 marzo, ore 7,30. Michele e Mariana, sua moglie, sono a Parigi. Sono partiti alcuni giorni prima, dall’Italia, per diporto; vacanza irrinunciabile, per un biglietto a prezzi stracciati trovato su internet. Decidono di andare a teatro, la sera, a vedere una rappresentazione di Molière: sarà in lingua francese, ovviamente, ma non si scoraggiano, nonostante dell’idioma transalpino sappiano poco o nulla; sorrideranno quando lo faranno tutti gli altri e seguiranno la rappresentazione con estrema attenzione quando il resto della sala tacerà. Che cazzo c’entra Giacomo Leopardi? Tutto! Ma non perché Michele Santeramo abbia deciso di omaggiare il profeta di Recanati titolando, in memoria di una delle sue opere più importanti, il suo ultimo spettacolo. Di qua dall’Infinito (prodotto dalla Fondazione Teatro della Toscana), in prima nazionale al Teatro Era, di Pontedera, fino al pomeriggio di domenica 24 novembre, è un invito a fissare, con estrema precisione, gli istanti dell’esistenza di ognuno di noi, prendendo appunti, scrivendo. Perché il 13 marzo è alle porte e quello che succederà la sera di quell’anonima giornata fredda, innevata, a Michele e Mariana, potrebbe succedere a ognuno di noi, in qualsiasi altro giorno.
PRATO. Che ci serva da lezione, almeno professionalmente: contare fino a dieci, prima di scrivere. È vero, ci sono troppi consigli per gli acquisti, ne La valle dell’Eden, troppa pubblicità del marchio Latella, soprattutto nella prima parte, quella che abbiamo recensito sospesi; però va visto, consigliando a chi si sottoporrà alla maratona del Metastasio, domani, domenica 24 novembre (circa sei ore, distribuite tra il pomeriggio e la sera) di stringere i denti nel primo tempo, perché nel secondo, sarà ampliamente consolato, da una pagina teatrale che rimarrà impressa nel firmamento. Superlativo, senza se e senza ma, con un monumentale, fantascientifico (e con gli aggettivi roboanti si potrebbe proseguire per ore, senza stancarsi e senza eccedere) Michele Di Mauro, un Tom Waits imbolsito dall’alcool e tutti gli altri in fila a non scendere mai di un solo gradino dall’Olimpo. Ci avevano leggermente insolentito, nel primo atto, alcune alchimie escogitate da Antonio Latella, che avevano inutilmente appesantito e dilungato una premessa che pareva meno indispensabile, ricca di irritanti distrazioni scenografiche, che ci stavano pericolosamente suggerendo di celebrare un’altra estrema unzione di uno dei pochi intellettuali del palcoscenico rimasti in vita e lucidi.
PRATO. Gesso e pazienza. Lo raccomandiamo prima di tutto a noi, che saremmo tentati di scrivere, di getto, l’indignazione provata assistendo alla prima parte de La valle dell’Eden, lo spettacolo, anzi, la provocazione, l’ennesima provocazione di Antonio Latella, in scena, fino a domenica 24 novembre in un massacrante tour de force al Metastasio di Prato, che ha coprodotto questa opera messianica con Emilia Romagna Teatro Fondazione e Teatro Stabile dell’Umbria. E invece, seppur nella nostra impazienza da prestazione, ci consigliamo di aspettare, a sentenziare, perché siamo convinti che la miriade di informazioni, trabocchetti, studi psicotici, controsensi teatrali, scenici, attoriali, la luce soffusa in sala, che sembra voglia dire che lo spettacolo non sia ancora iniziato o che stia per finire, esposti in bella mostra con tanto di ghigno al seguito rappresentino, unicamente, il prologo necessario che un intellettuale del calibro del regista partenopeo si può permettere il lusso di adottare e che lui, sistematicamente, si prende.
FIRENZE. Fuggito dalla ressa o condannato alla solitudine? Non si capisce, né Lucia Calamaro, che ha scritto e diretto Si nota all’imbrunire (alla Pergola di Firenze fino a domenica 24 novembre), vuole forse che si capisca. Il suo intento, affidato all’impeccabile tragicomicità di Silvio Orlando, risiede nell’intimità dell’abbandono, spesso da noi stessi, che può essere una scelta; o una sentenza. O tutti e due. Anzi, spesso è proprio così: tutto può avere inizio con il sentire la necessità di staccare la spina, ma spesso si finisce con il non riuscire a ritrovare più la presa della corrente: l’Europa, infatti, inizia a considerarlo un vero e proprio virus generazionale, con tanto di attenzioni sociali e studi dettagliati. L’anziano padre, medico in pensione e vedovo da tre anni, da qualche tempo si è rifugiato in un’accogliente villetta di campagna di un paese spopolato e alla vigilia del suo compleanno, che coincide con il giorno della morte della moglie, avvenuto dieci anni prima, i tre figli, Alice (Redini), Maria Laura (Rondanini) e Vincenzo (Nemolato), decidono di andare a trovarlo. Con loro, anche lo zio, il fratello maggiore, Roberto (Nobile), forse l’anello più debole della rappresentazione.
PONTEDERA (PI). L’esortazione è chiara, la suggerisce Bobby McFerrin: Don’t worry, be happy. Ma Vincenzo Cannavacciuolo non c’è più e senza Bobò, La Gioia, è un’altra cosa, forse indecifrabile, forse esattamente il contrario: dolore, assenza, solitudine. Al Teatro dell’Era, comunque, a Pontedera, l’assenza letale della ragion d’essere dello spettacolo, che forse dovrebbe suggerire all’ideatore l’ammutinamento, non crea il minimo disagio: il pubblico, che riempie la platea, nonostante non riesca a comprendere buona parte delle confessioni microfonate di Pippo Delbono - luminare del teatro avanguardistico da Pina Bausch in poi -, perché decisamente e visibilmente in debito con la forma e la giusta rabbia, non aspetta la fine della rappresentazione per tributare alla compagnia un massiccio omaggio di applausi; lo fa in più di un’occasione, come se si trattasse di uno spettacolo televisivo, un Carramba che sorpresa qualsiasi, con colpi di scena pilotati, una Corrida, con l’interpretazione, grottesca e surreale se fosse durata il tempo di un accenno, non tutta Maledetta primavera di Loretta Goggi o nella migliore delle ipotesi, un Indietro tutta, con un ingiustificato perché troppo avaro ringraziamento, Je so’ pazzo, al vate della follia e del suo riscatto, Pino Daniele.
PISTOIA. La defezione di Francesca Sarteanesi è ormai datata e per questo secondo appuntamento di Circolo Popolare Artico anche Francesco Rotelli non è sul palco. Luca Zacchini, però, il terzo, alfabetico, de Gli Omini, c’è e in nome della profezia bluesbrothersiana (quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare) non si perde affatto d’animo e confidando nel geniale contributo emologico della sorella Giulia e dell’amore clownesco della compagna Eleonora Spezi, supportato dalla presenza sufficientemente fuori da ogni regola di Nicola Danesi De Luca e Iacopo Fulgi, che sono i Tony Clifton Circus, tira fuori dal proprio cilindro del nonsenso un’ora di assoluto onirismo, che peggiora, se volete, le complicate percezioni della prima tappa consumata al Funaro, ma rende paradossalmente al progetto la sua autentica vena surreale. Lo scenario, stavolta, è il Piccolo teatro Bolognini, preparato con la cura di sempre, tra cianfrusaglie, antiche vettovaglie, mobilia scartata dai mercatini dell’usato e la solita cartina geografica della Groenlandia, con quindici calamite attaccate disposte lungo il perimetro dell’isola glaciale rappresentanti, a loro volta, le quindici abitazioni dei residenti.
FIRENZE. Il foyer del Teatro Cantiere Florida è pieno. Fuori, diluvia. Il quarto d’ora accademico viene abbondantemente surclassato; l’inclemenza del tempo allenta il rigore degli orari e poi, all’ingresso, ci sono due dei tre protagonisti a distribuire mele, raccolte in una cesta. Il peccato originale abbonda, anche perché è di un peccato, che ha originato la fine dei vecchi conflitti e l’inizio dei nuovi, che si parla. Little Boy è il vezzeggiativo statunitense con il quale i marines battezzarono la bomba di Hiroshima, quella della fine, annunciata e auspicata, della seconda guerra mondiale. Ma non si parlerà delle 70.000 vittime consumate nel giro di pochi istanti, né della mattanza, triplicata nei numeri, di quelle che verranno a causa delle radiazioni. La rappresentazione, in prima assoluta, prodotta dal Teatro dell’Elce e per la quale hanno contribuito una serie considerevole e pregiata di produzioni e residenze artistiche, per la regia e gli adattamenti di Marco Di Costanzo e offerta al pubblico da Erik Haglund, Stefano Parigi e Monica Santoro racconta invece del carteggio corrispondenziale intessuto tra il filosofo tedesco Gunther Stern, ribattezzato, dietro suggerimenti editoriali, Anders e Claude Eatherly, l’ex meteorologo assoldato dall’esercito in qualità di ufficiale dell’aeronautica statunitense e pilota del caccia che sganciò la prima bomba atomica della storia, uno Zibaldone sotteso tra il 1959 e il 1960 tra chi aveva previsto l’invasione algoritmica dei media sull’umanità e per questo profondo anti militarista e una delle vittime inconsapevolmente più illustri dei conflitti.
di Francesca Infante
PRATO. Quando entra in scena, tutto si spegne. Rimane acceso, come faro di vita, un unico raggio di luce fredda, che si posa, spettralmente, su di lui: Johann Christian Woyzeck. Intorno il buio. Ma chi era Woyzeck? Era un uomo che la società aveva sfruttato e poi scartato ai propri margini. Esasperato dai soprusi e dai tradimenti dell'amante, era una vittima che la cattiveria dell'uomo ha spinto prima alla follia e poi all'assassinio. Il processo a J.C. Woyzeck fu un caso, diremmo oggi, mediatico. A pochi giorni dalla data fissata per l’esecuzione, la difesa ottenne un riesame sulla sua salute mentale e venne così istituito un nuovo processo. La Corte chiese al dott. Clarus, autore della prima perizia, di approfondire il caso. La Difesa chiese una controperizia auspicando che divenisse prassi processuale, ma la Corte rifiutò. Il dottor Clarus fu l’unico perito del processo. Dichiarò l’imputato sano di mente e J.C. Woyzeck venne giustiziato. Büchner lesse le perizie di Clarus le scrisse. Scrisse del delitto, ma non ebbe il tempo di scrivere del processo. All’epoca quel processo sembrò una farsa e fu chiaro l’intento esemplare/repressivo di quest’esecuzione. E le farse odierne? Il grottesco nei tribunali?
FIRENZE. È la sua ultima opera, l’unica incompiuta. Un segno, un presagio, forse, che I giganti della montagna sia stata consegnata ai posteri senza un finale; perché a quello, forse, Luigi Pirandello, avrebbe voluto che ci pensassimo noi. Non è andata così e se piove di quel che tuona c’è poco da essere ottimisti. Anche il vecchio Gabriele Lavia, impeccabile e monumentale direttore d’orchestra, oltre a uno scenografo di rara maestria come Alessandro Camera e visti i budget di cui può disporre e attorno ai quali può impreziosire le sue visioni, potrebbe e dovrebbe chiamare a sé uno stuolo di comprimari eccellenti e coraggiosi come lui e perché no, da impareggiabile musicista qual è, farsi dirigere. Il resto, è tutto noto: dalle visioni e la magie del disilluso Cotrone, alla smania di Ilse (Federica Di Martino), la scena tetra e spettrale della fatiscenza di questo teatro abbandonato e ormai a pezzi fa da contraltare alla luminosità e all’energia della compagnia degli Scalognati, irriverenti clown che temono, come le scimmie di Stanley Kubrick, l’approssimarsi dell’Odissea, di questi giganti che scendono dalla montagna e che passano, come un raid di supersonici Mig, sulla testa di questi poveri e spiantati sopravvissuti, ignari che fuori, il mondo, si sia da tempo orientato altrove e che la poesia che li nutre senza cibi e bevande basti solo a loro e a nessun altro.
PRATO. È l’opera, l’Amleto di William Shakespeare, per antonomasia, con la quale, il circo teatrale di tutto il Mondo, si è misurato più volte. Ognuno, da secoli a questa parte, ha voluto dare al capolavoro esistenziale una propria lettura. Quella di Michele Sinisi, supportato nell’intento del riadattamento da un altro mostro sacro della parola, Michele Santeramo, in scena al Teatro Magnolfi di Prato con un trittico shakespeariano che si consumerà tra domani, alle 19,30 (Riccardo III/Now) e domenica, 3 novembre, alle 16,30 (Edipo. Il corpo tragico), e che fa parte del progetto, giunto alla terza edizione, di Piacevoli conversazioni, è un piccolo, meraviglioso esercizio linguistico, fisico, danzante, antistorico, sarcastico, irrisorio, allegorico, funebre. La scena amletica, abitualmente sconfinata e popolata da uomini, donne e suppellettili, in questa circostanza si riduce a uno spazio angusto, claustrofobico, minimale e decisamente popolare, dove il solo Amleto, tra Pierrot e Joker, ma anche un po’ Michael Jackson e anche un po' prestigiatore di tardo elisabettiano abbigliato, con il viso incipriato e le labbra cosparse di rossetto, condannato alla congiura della solitudine senza tempo, cerca disperatamente i suoi comprimari,
MONSUMMANO (PT). Ha raccontato tutto, quasi per filo e per segno, da quando è nato, 67 anni fa, nel cremasco, fino al magico incontro, avvenuto una trentina d’anni fa, nel salotto buono, seppur massone, di Maurizio Costanzo. Fu quell’invito a cambiare la vita a Enzo Iacchetti, altrimenti, ora, chissà quale altra licenza per tabaccheria ai confini con la Svizzera qualcuno riuscirebbe ancora a rifilargli. È partita così - e si è protratta per circa due ore -, l’Intervista confidenziale con la quale il noto storico coconduttore di Striscia la notizia, supportato dall’amico, collega, giornalista Giorgio Centamore ha inaugurato, all’Yves Montand di Monsummano, la stagione teatrale del teatro valdinievolino. Non è stata, per le case della succursale dell’Atp, una di quelle serate indimenticabili, ma gli spettatori presenti, in particolare il ragazzo sul loggiato accompagnato dai genitori e Anna, che ha forse scoperto l’amore, si sono diverti molto. Mia madre voleva una bambina e l’avrebbe chiamata Santina; per questo sono nato storto e mi hanno chiamato come il nonno, Vincenzo – ha esordito l’attore, cantastorie, autore, poeta e molte altre facoltà che deve tutto, ma proprio tutto, al tragico, più che satirico, Tg dell’ammiraglia della Fininvest.
Leggi tutto: Ah, se le sigarette, in Svizzera, non fossero costate così poco...
FIRENZE. Vero, Golaud (Michele Abbondanza) la salva da chissà quale atroce fine nella foresta, la giovanissima Melisande (Eleonora Ciocchini) e lei, per riconoscenza, lo sposa pure. Ma poi conosce Pelleas, il cognato (Cristian Cucco), conosce l’amore, l’attrazione, la passione, il desiderio: giovane, aitante, bello e non sa resistergli. L’incontro e l’accoppiamento sono inevitabili, fatali, come la gelosia del vecchio latifondista, che si lava solo con il sangue. La Compagnia Abbondanza/Bertoni (Michele Abbondanza e Antonella Bertoni, che firmano regia e coreografia, libera ispirazione all’omonimo dramma di Maurice Maeterlink) chiude così il cerchio trillogico, Poiesis, iniziato due anni fa, con La morte e la fanciulla, l’apertura genitale con la precedenza dedicata all’universo femminile e proseguita con Erectus, l’esplorazione di quello maschile; lo fa con la congiunzione, astrale, ma inconciliabile, dei due pianeti, Pelleas e Melisande appunto, al Teatro Cantiere Florida, a Firenze, che proprio con questa prima assoluta decide di dare il via alle danze della stagione 2019-20, organizzata, per quel che riguarda lgli spettacoli di danza, da Versiliadanza. L’attenzione e l’eccitazione sono altissime; la stragrande maggioranza degli spettatori ha già assistito ai primi due prologhi del terzetto ed è sicura che anche l’epilogo non potrà che confermare tutto il bello e commovente già visto.
PRATO. Anche Paolo Coletta, regista e drammaturgo, musicale, di Madre Courage e i suoi figli, avrebbe dovuto avere il coraggio di Anna Fierling (Maria Paiato) per non riproporre, tanto fedelmente, gli scritti corsari di Bertolt Brecht, che già tanto male fecero ai tempi della prima stesura di una delle sue tante lucide e apocalittiche previsioni esistenziali e provare a essere altrettanto irriverente, cinico. Lo spettacolo, che inaugura la ricchissima stagione del Metastasio di Prato (si replica oggi alle 19,30 e domani, domenica 27 ottobre, alle 16,30) risponde, con mostruosa fedeltà, a un sicuro battesimo: sul palco, accanto a una femmina di rara fisicità e presenza, uno suolo di dignitosissimi comprimari (Mauro Marino, Giovanni Ludeno, Andrea Paolotti, Roberto Pappalardo, Anna Rita Vitolo, Tito Vittori, Mario Autore, Ludovica D'Auria, Francesco Del Gaudio), perfettamente rodati a dare ulteriore sfoggio a una delle mamme più ciniche e diaboliche della storia della letteratura, affidata alla pluripremiata attrice rovigina, da oltre trent’anni applauditissima signora dello spettacolo. La rappresentazione, però, altro non è che un’ennesima, seppur dovuta, gradita e dunque indispensabile, esaltazione della lucida visionarietà dell’autore, del quale abbiamo fortunatamente già studiato i teoremi, quelli che l’hanno collocato, nella storia dei maghi, al fianco di avveniristici fattucchieri del peso e dell’eternità di Dante, Shakespeare, Pasolini e una vetrina dell’arte recitativa di Maria Paiato, come sempre e come al solito, monumentale, capace camaleonticamente di indossare gli abiti di qualsiasi matrigna.
PISTOIA. Stavolta, l’agrodolce con cui Roberto Valerio ha puntualmente e piacevolmente condito le sue regie, ha solo tinte paradossali, forti, devastanti. I pazzi che ridono, urlano, cantano e si dimenano nel Padiglione 6 – una prima nazionale tratta dal romanzo di Anton Checov e che di fatto ha aperto la stagione teatrale dell’Atp (che l'ha prodotto) anche se al Bolognini (si replica dal 23 al 27, il 30 e il 31 ottobre, alle 21; festivi alle 16) - sono un ristretto manipolo di dimenticati da tutto e da tutti; tra loro, qualcuno è decisamente folle, perché non ha saputo ordinare il proprio amore e nessuno ha mai avuto bisogno delle sue tenerezze; qualcun altro, invece, ha solo dovuto fare i conti con la sfortuna e con le coincidenze della vita e, abbandonato dalla buona sorte, ha dovuto rinunciare a tutto, compresa la sua voglia di sapere, ma non quella di sognare, non di non credere a un mondo migliore. Vietato distrarsi, dunque, durante i cento minuti scarsi della rappresentazione, perché anche un solo battito di ciglia renderebbe difficoltosa la comprensione. Dimenticate il classico e applaudito istrionismo del regista (che non è sul palco e anche questa è una novità) e mettete in conto che ci sarà da sforzarsi per capire, spogliarsi per condividere, soffrire per sopravvivere.
di Raffaele Ferro
BORGO A BIGGIANO (PT). Una serie di sedie in plastica rossa, in fila; una sola di lato, in primo piano, sulla sinistra del palcoscenico vuoto. Sfondo nero. Rosso e nero, i colori sventolati dai primi anarchici; ci viene subito da pensare, più di un secolo fa, qua, nell'Italia del Nord. Maurizio Micheli, al teatro indipendente Buonalaprima – a Borgo a Buggiano, nella Valdinievole -, teatro, sì, ma anche laboratorio, fucina di spettacoli e soprattutto spazio artistico e culturale dove si respira una totale libertà di espressione, sceglie questa cornice/contenitore per vivere la realtà, o la sua trasposizione scenica, per interpretare il soggetto/oggetto del cittadino, il contribuente, il consumatore in fila, in attesa: a Equitalia. Soliloquio allegro non troppo - questo il titolo dello spettacolo, scritto e interpretato dal 72enne mattatore livornese adottato dalla Puglia -, centra in pieno il bersaglio del pretesto, la comicità tragica e aggiungeremmo noi, triste del rappresentare la quotidianità. Lui, mattatore e giocoliere dei dialetti, apre le chiuse della diga/testo in una verbalità inarrestabile, creando, come in una pseudo trance, uno status di sospensione del giudizio su debiti, multe, sanzioni e quant'altro accompagni il cittadino alle porte dell'inferno di Equitalia.
SCANDICCI (FI). A Teatro, prima di parlare dei diritti umani di ogni singolo individuo, si dovrebbe, anzi, si deve chiarire un concetto, a parer nostro, imprescindibile: cosa vuol dire fare spettacolo? Sconcerto per i diritti, in scena, in prima nazionale, al Teatro Studio Mila Pieralli di Scandicci (si replica oggi, domenica 20 ottobre, alle 16,45), è un buon comizio, condivisibile su buona parte della rappresentazione, tanto che all’uscita abbiamo anche apposto la firma sulla raccolta adesione di Amnesty International, ma non è uno spettacolo teatrale, nonostante voglia esserlo. Ce ne vogliano pure Davide Sacco e Agata Tomsic, gli artefici di questa lettura della Convenzione europea dei diritti sull’uomo, che si materializza grazie all’esibizione della stessa Tomsic - convinta di essere nel bel mezzo di tutt'altra scena, vista la sinuosità dei movimenti e la sensualità del diaframma -, in compagnia di Silvia Pasello e siamo pronti a sopportare anche gli strali di tutti quelli che hanno promosso tale messinscena, ma in più di una circostanza abbiamo avuto l’impressione che stessero scherzando e da un momento all’altro abbiamo anche sperato che ce lo dicessero pure.
PISTOIA. Ha scritto molto, Jorn Riel, prossimo ai novant’anni, di ritorno dal suo ventennale giovanile esilio forzoso greonlandese. Storie e aneddoti di resistenze borderline, lontano da tutto e da tutti, solo con quella sparuta, anarchica e indisciplinata popolazione indigena, antesignana del concetto che presto, volente o nolente, dovremo per forza abbracciare, pena la nostra sopravvivenza: rinunciare a molte comodità. Gli Omini, con o senza Francesca Sarteanesi (che si è congedata dal gruppo con una toccante newsletter), anche prima di conoscere gli scritti del profeta danese, hanno da sempre fondato il loro teatro attorno alle storie degli ultimi, degli incompresi, dei derelitti, tra il serio e il faceto, tra il comico e il tragico. Stavolta, però, per questo primo di tre step di Circolo Popolare artico, vertigine polare, Prove di resistenza, (coprodotto dall’Associazione teatrale pistoiese) al Funaro di Pistoia in replica stasera e domani, 20 ottobre (ore 21), non ci hanno convinto: non siamo mai entrati in sintonia, non abbiamo avvertito, come è sempre successo nei loro precedenti spettacoli, il disagio e l’approssimazione di esistenze precarie, nonostante quelle della gente dei Fiordi lo siano per antonomasia.
FIRENZE. Chissà se la sorte ci sarà benevola e ci consentirà di sopravvivere, in salute, ancora due o tre lustri. Sì, gliene saremmo grati, per ovvi e scontati motivi, ma anche per poter assistere ad un altro capolavoro tipo Mary said what she said, con una monumentale, quasi disumana Isabelle Huppert. Ancora dieci, quindici anni circa; perché prima, uno spettacolo così, sarà difficile che qualcuno riesca a metterlo in piedi. Quando siamo usciti dal teatro La Pergola, a Firenze, infatti, ieri sera (si replica oggi, domenica 13 ottobre, alle 15,45), anche per le scarsamente avverse condizioni climatiche, abbiamo preferito passeggiare per la città, anziché tornare immediatamente alla macchina e fare ritorno a casa, nonostante alcune orde di adolescenti/barbari intenti a starnazzare ubriachi e molesti nelle vie e nelle piazze del centro ce ne suggerissero il provvido allontanamento. Ma abbiamo sentito la necessità di confrontarci spiritualmente con quello che abbiamo avuto la fortuna di vedere poco prima, provando a riassaporarne la fragranza. Della vita e della storia, tipicamente leggendarie come tutto il noioso Medio Evo, di Maria Stuarda non ce ne fregava, non ce ne frega e mai ce ne fregherà assolutamente nulla.
FIRENZE. È un crimine efferato, il parricidio. Perché la vittima, quasi sempre, non si rende minimamente conto di quel che sta per succederle. Però lo sa e sa anche di meritarla, quella fine da bastardo. È successo a Tebe, con il primo caso, seppur involontario, della storia tramandataci, così famoso da essere diventato un complesso, anche se non si sa se si sia consumato veramente. Dopo, la cronaca ci segnala San Martino e poi altri parricidi, violenti, ma meno carismatici. Ricordiamo, nitidamente, quello di Marco Caruso, con il quale dividevamo i sogni adolescenziali di bomber di razza all’oratorio di Don Bosco; aveva appena 14 anni, quel 5 dicembre 1977, quando decise che quel mostro del padre sarebbe dovuto morire. Quattordici anni dopo fu la volta di Pietro Maso e dei suoi complici/amici, ma qui, di mostruoso, c’era solo una società malata e le sue vittime/carnefici, alle quali sarebbe stato giusto non consentire il lusso di poter chiedere perdono. In Tebas Land, invece, al Teatro di Rifredi, a Firenze, prodotto da Pupi e Fresedde, fino a domenica 27 ottobre, il fenomeno parricidio è trattato diversamente. Perché Sergio Blanco, l’autore franco-uruguagio, tradotto e portato in scena dal convalescente Angelo Savelli e affidato alla magistrale interpretazione di Ciro Masella e Samuele Picchi, con tutto il rispetto per la secolare tradizione giurisdizionale e morale, ha voluto trattare l’argomento da un’angolazione innovativa, che lui stesso ha definito autofinzione.
di Raffaele Ferro
PISTOIA. Nel suo testo fondamentale Il mondo incantato: uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe il grande psicanalista Bruno Bettelheim cita Schiller con una delle sue più significative frasi: C'è un significato più profondo nelle fiabe che mi furono narrate nella mia infanzia che nella verità qual è insegnata dalla vita. Questo per dire che l'usanza di reinterpretare, riscrivere, trasformare o, peggio ancora, spiegare le fiabe, da parte degli adulti, risulta essere sbagliato, se non propriamente dannoso, nei confronti dei bambini. Questo, nella bellissima opera teatrale Hans e Gret dell’onnivora Emma Dante, (che affida al marito, lo straordinario Carmine Maringola, le scene) in scena il 6 ottobre al teatro Bolognini, non è stato fatto. Un’impostazione semplice, un palcoscenico scarno, ma adornato in divenire, da un turbinio di colori e atmosfere, è stato il giusto fondale al realizzarsi di questo concetto espresso da Schiller e sviluppato con maestria da Bettelheim nel suo testo formativo per psicanalisti e psicoterapeuti. La favola di Hansel e Gretel, giocata magnificamente dalla giovane compagnia, ha incantato e divertito il pubblico per un'ora poco più di pura affabulazione.
di Francesca Infante
PISTOIA. La prima cosa che vedi è il suo pigiama, immagine che si porta dietro quel raro fascino di quotidianità. Ma prima ci sono state: le maschere iconiche del teatro, tutte insieme sul palcoscenico; il vestito di una donna che diventa un sipario; una pagnotta che copre le parti intime di una ragazza botticelliana; un cervo che bacia una donna bruna, un viandante che porta un teatro come se fosse una lanterna e poi è arrivata lei, la donna in pigiama con cannocchiale in mano. Dopo aver ricevuto l’incarico per realizzare l’illustrazione per la stagione di prosa del Teatro Manzoni ho cominciato a ragionare su come avrei potuto rendere l’idea di teatro. Ho capito che non potevo disegnare attori in scena (anche se vorrei moltissimo disegnare Amleto con teschio) e qualsiasi cosa fatta con i sipari non sarebbe sicuramente stata bella come il manifesto realizzato da Matticchio qualche anno fa. Per trovare idee mi sono quindi girato verso la sala e dopo aver scartato le poltroncine sono rimasto solamente con lo spettatore ed il cannocchiale da teatro. Ho combinato questi elementi con quelli della mia personale ricerca artistica: il quotidiano ed il casalingo, l’ironia (spero), l’isolamento del soggetto nel bianco e il richiamo ad altro (la posa è ripresa da un quadro della pittrice Mary Cassat, “In the Loge” 1878).
LIVORNO. Esiste, probabilmente, una consecutio nella Trilogia della Provincia (di Erchie), ma noi, non certo per controcorrentismo, l’abbiamo percorsa e chiusa al contrario, partendo dall’ultimo anello, La sorella di Gesucrsito, per poi consumare lo step di mezzo, Stasera sono in vena e assistere dunque al suo prologo ideale, Diario di Provincia. Il triangolo l’abbiamo chiuso ieri sera, a Livorno, in Collinaia, per l’esattezza, la campagna aulica che guarda la città portuale con la voglia di sentirsi parte integrante del mare, soprattutto da quando la furia delle acque piovane e dell’approssimazione architettonica l’ha sventrata, uccisa, crocifissa. Il cantore di questo crocevia della disperazione, del dolore e della vendetta, catapultabile dalla provincia brindisina fin sulle rive del Tirreno, è Oscar De Summa, uno dei nove artisti che stanno impreziosendo questa quarta edizione di Scenari di Quartiere, un’alchimia meravigliosa per riportare la chiesa al centro del paese. E per celebrare messa, al policromo, esuberante, estemporaneo Oscar De Summa, basta davvero poco, anzi, nulla: nemmeno l’altare, neanche l‘acquasantiera. Ma neanche un teatro.
PECCIOLI (PI). La stima professionale che nutriamo per Filippo Timi e Lucia Mascino (foto Maria Sgueglia) è letteralmente sconfinata. Nei confronti del joker umbro, poi, perdiamo, sovente, addirittura l’obbiettività, perché siamo dell’avviso che sia uno dei pochissimi ad avere tutta la genialità dei fuoriclasse e a venderla come se si trattasse di spudorata sfrontatezza e appartenesse a un esordiente. Lucia Mascino, che con Marina Rocco rappresenta una delle due inseparabili muse dell’harem timiano, appartiene alla schiera delle giovani realtà attoriali con uno spiccato camaleontismo; il ruolo dell’isterica che, con il trascorrere delle rappresentazioni o delle pellicole tende ad ammorbidirsi, è quello che meglio la descrive, ma è, essenzialmente, un’adorabile tuttologa, capace di indossare sistematicamente gli abiti dell’amante, della mamma apprensiva o dell’amica complice e sbadata. Insieme, possono essere esplosivi, come abbiamo avuto il piacere di poterlo constatare assistendo ad alcuni loro spettacoli.
di Francesca Stampone
BERGAMO. Che sorpresa! Un festival di teatro nella val Cavallina, una delle svariate valli che si dispiegano intorno a Bergamo. Leggiamo il programma. Che sorpresa! Non il solito festival di dilettanti, ma un programma che incuriosisce e muove! Bene, ci prepariamo alla serata. Da un portone di una villa in pietra, affascinante edificio fine ‘800/inizio ‘900, si entra in un cortile, fresco, con un piccolo pergolato di glicine a dare un tocco di romanticismo. Intorno, i monti orobici, severi e ripidi. Lo spiazzo davanti alla casa fa da palco, le finestre del muro-fondoscena lasciano scorgere luci con effetto gelatina che fanno da illuminazione; una madonnina di gesso come solo elemento scenico. Le sedie si riempiono tutte, il pubblico non è giovanissimo, ma questo è un altro discorso. Andromaca di Euripide dei Sacchi di Sabbia. Silenzio, ecco, entra Andromaca, barbuto e pancione, in una lamentatio che fa subito sorridere. Ci domandiamo: ma è giusto che rida? Ci tranquillizziamo, non siamo i soli. Andromaca dopo l'uccisione del marito Ettore e del figlio Attanasio viene fatta schiava dal re dell'Epiro, Neottolemo, di cui diventa amante e da cui ha un figlio, Molosso.
di Francesca Stampone
SAN GIMIGNANO (SI). Arriviamo a San Gimignano in un caldissimo sabato pomeriggio di inizio luglio. Camminiamo in salita per raggiungere il centro del meraviglioso borgo, scenario da anni di un festival di teatro danza e musica: Orizzonti Verticali. Davanti a noi si scagliano per l'appunto antiche torri che si ergono nel cielo, immerse in un panorama mozzafiato in cui l'occhio si perde ancora per l'appunto in vasti orizzonti. Nessun nome fu più appropriato. La magia del luogo innesca subito emozioni ed è una cornice perfetta per accogliere gli spettacoli della serata: L'imputato non è colpevole, con la regia di Tuccio Guicciardini e Juliette on the road (foto di Francesca Di Giuseppe), liberamente tratto dall'immortale e immenso Giulietta e Romeo di William Shakespeare, presentato dalla compagnia Cie Twain Physical Dance Theatre con coreografie di Loredana Parrella. L'imputato non è colpevole è ispirato agli atti del processo a carico di un giovane armeno Soghomon Tehliran accusato (è lui stesso reo confesso) di aver ucciso a Berlino nel ‘21 l 'ex ministro degli interni turco, responsabile del genocidio degli armeni e rifugiato in Germania, paese che all'epoca sostenne la Turchia.
di Francesca Infante
PISTOIA. Vorrei farvi due domande. Se vi proponessi di venire a uno spettacolo di teatro fisico, senza musica, con solo due ragazzi in tuta e una scenografia spoglia, verreste? Ieri sera, con Un poyo rojo, si è conclusa la rassegna Teatri di Confine (che faceva parte del Pistoia Teatro Festival dell'Associazione Teatrale Pistoiese). Lo spettacolo si è tenuto al Funaro, centro culturale di Pistoia. Il delizioso teatrino ha ospitato più di novanta spettatori, che con curiosità aspettavano di vedere questa rappresentazione di teatro fisico arrivato direttamente dall'Argentina, ma che in pochi anni ha fatto successo in tutto il mondo, arrivando anche alla Biennale di Venezia. E bastano pochi minuti per capire il perché di tutto questo successo. Ed è qui che rispondo io per voi alla prima domanda: no, magari non verreste, ma forse perché ve l'ho descritto in modo noioso. Riproviamoci.
di Francesca Infante
PISTOIA. La piccola sala del Funaro appare diversa dal solito. Delle sedie formano un quadrato che delimitano la stanza. In un angolo della sala, fuori dal perimetro, c'è una donna: attende che quel quadrato senza vita venga animato dal pubblico. Pian piano tutti prendono posto. Le sedie sono piene. Ed è proprio in quell'istante, che lei, Cristina Rizzo, si stacca dal suo angolo e si posiziona al centro della sala. Tutti la possono vedere, lei può vedere tutti. A terra, vicino a lei, c'è un robot pulitore meccanico. Lui si accende. La musica parte e lei inizia la sua performance sulle note di Verklärte Nacht (Notte trasfigurata; VN è il titolo della rappresentazione) di Arnold Schönberg. In questa danza liberatoria, che sembra quasi un'evasione dalla realtà, il vero punto centrale è la distrazione. Cristina Rizzo balla in grande contatto con il pubblico, quasi lo sfiora, lo mette a disagio, cerca di distrarlo con un robot. Provoca chi guarda.
PISTOIA. Dobbiamo attraversare spazi e spazi senza fermare in alcun d’essi il piede; lo spirto universal non vuol legarci, ma su, di grado in grado, sollevarci. Iniziamo da Hermann Hesse e da un passo di uno dei suoi capolavori, Gradini, per raccontarvi non tanto di Shakespearology, l’ennesima idea (geniale) di Sotterraneo, la compagnia ideatrice e realizzatrice dello spettacolo (prima data di Teatro Sotterraneo, ieri sera, 11 giugno, al Funaro), ma per concentrarci su Woody Neri (foto di Francesca Infante), il mattatore solitario, la reincarnazione del Vate anglosassone, che non disdegna il rock, strimpellando con dignità la chitarra, cantando egregiamente e tirandosela un po’, visto e considerato che attorno alle sue opere, da cinque secoli a questa parte – e la cosa è destinata a eternizzarsi -, ognuno che si accinga a fare spettacolo, prima o dopo, con lui, ci sbatte necessariamente il viso e il futuro. L’avevamo visto all’opera in più di un circostanza, Woody Neri, senza riuscire mai a convincerci; ieri sera abbiamo finalmente potuto cambiare idea. E siamo contenti: per lui, ma anche per noi.
PISTOIA. Certo, con un palcoscenico più grande, le confessioni, le pomiciate con la fidanzata occasionale, le trasformazioni in divinità nordica, avrebbero probabilmente avuto una resa migliore. Ma Walter Leonardi è difficilmente impressionabile; la sua comicità si adatta ai boschi e alle riviere e anche nella claustrofobica Segheria, a Pistoia, è riuscito a dispensare copiosamente la sua allegria paradossale. Il pubblico, quello degli aficionados alla scommessa degli Omini, i padroni di casa del covo teatrale di Sant’Agostino, era decisamente ben disposto, comunque: i fratelli Giulia e Luca Zacchini, Francesco Rotelli, Eleonora Spezi, Veronica Caggia (fotografa di circostanza, ma con tutti gli attributi) e altri personaggi velatamente promiscui che bazzicano con continuità l’ambiente, si erano preventivamente preoccupati di mescere, agli spettatori, prima dell’esilarante monologo, qualche pozione magica di un modesto alcol venezuelano; le carote – appassite -, in compenso, almeno al nostro arrivo, non c’erano.
PISTOIA. Anche una sillaba sarebbe stata superflua, di troppo. Paola Tintinelli non ha bisogno di parlare; al diaframma, alla favella, al suono delle parole le corrono in soccorso un corpo disegnato da un writer vegano, ma ubriaco, una faccia da cartoon e una testa disallineata. Mario, poi, il postino, sul palco della Segheria, a Pistoia, la domus degli Omini, non ha davvero bisogno di dire nulla: la sua vita è incartapecorita nel suo lavoro e questo si riduce, con commovente orgoglio, a un armadietto, custode dei suoi ferri del mestiere, oltre che delle sue aspettative: la borsa che ospita la corrispondenza, meticolosamente e chapliniamente timbrata prima della consegna; il manubrio della bicicletta (il resto del mezzo è immaginabile), la divisa da postino, ma anche la ciotola per il rancio della pausa pranzo, scandita, all’inizio e alla fine, da un campanellino che lui stesso aziona; un thermos per le vivande, alcuni bonsai che colorano e impreziosiscono la sua solitudine, ma anche un panettoncino natalizio, una bottiglia, mignon, di spumante, una bandierina artigianale che segna l’approssimarsi e la consumazione delle festività natalizie, salutate da una girandola e piccoli e innocenti mortaretti.
FIRENZE. Lo Svalbard Global Seeld Vault non s’ha da salvare; né ora, né mai. Non ha senso, perché assicurare al pianeta oltre diecimila semi congelati in grado di garantire la prosecuzione della specie non è la più grande dimostrazione ecologica, ma il più aberrante crimine: disperdiamoci nel vento, è meglio. Non è questo il messaggio di Sémi, di Stivalaccio Teatro, al Mila Pieralli di Scandicci (oggi, 19 maggio, alle 16,45, ultima replica), ma è quello che avremmo voluto che fosse. Pazienza, qualcuno ci penserà, prima o poi e prima della nostra meravigliosa e aberrante capacità autodistruttiva, a estinguerci. Sémi invece, senza infamia e senza gloria, testo e regia di Marco Zoppello, affidata a Sara Allevi, Giulio Canestrelli, Anna De Franceschi, Michele Mori, Marco Zoppello e Matteo Pozzobon, è un testo mascherato (di cuscuniana memoria) ambientato ai limiti dell’aurora boreale, dove tre soldati italiani in forza alla Nato (il sergente Mario Zoppei e i suoi due soldati scelti, Giorgio Morello e Fausto Rossi), alla viglia di un natale prossimo futuro, sono a guardia della banca mondiale del seme.
PRATO. Parlarne, del capolavoro di Goethe, è difficile quanto metterlo in scena. Federico Tiezzi, regista e drammaturgo di Scene da Faust, in prima assoluta al Fabbricone di Prato (si replica oggi, alle 19,30 e domani, 19 maggio, alle 16,30), ci ha pensato una vita, prima di azzardare. Risultato? Per taluni, coraggioso, epico, con i fratelli/amanti Faust (Marco Foschi) e Mefistofele (Sandro Lombardi) a darsele di santa ragione, evidenziando, sistematicamente, l’acume delle offese e la grande capacità, di entrambi, di incassare colpi da ko e con la giovanissima Margherita, o Gretchen (Leda Kreider), a sugellare con il delirio e il triplice sacrificio (suo, della madre e del figlio) la coincidenziale scommessa fatta sulla sua pelle dal diavolo e l’acqua santa; per altri, invece, la commistione cinematografico-teatrale, da Kubrik a Latella, passando da Keanu Reeves, con Matrix (l’abbigliamento di Faust e Mefistofele lo ricorda, soprattutto in contrasto con il bianco asettico, chirurgico, del resto degli attori) non aggiunge, né ringiovanisce l’opera,
PISTOIA. Ricorda, ma non è certo un caso, tutti i cantastorie semiseri, tragicomici, della lunga e forbita storia del cantautorato impegnato, ma non troppo, che l’hanno preceduto. Ascoltarlo e vederlo all’opera, anche se si conoscono, a mente, i suoi pezzi, i suoi lazzi e le sue smorfie, è sempre un piacere, perché Francesco Bottai (foto Lorenzo Gori, ma non quello de Il Tirreno, eh), la metà sopravvissuta agli eventi dei Gatti Mézzi, gode si simpatia connaturata, biochimica, inevitabile. Anche quando stornella, tra il blues dei primordi e il rock intimista dei miglior crooner, pezzi tristi, la vena di leggera e ilare inesorabilità prende puntualmente il sopravvento e alla fine dello spettacolo, quando ci si congeda dalla sala, si ha sempre l’impressione che si sia fatto bene ad andare a sentirlo un’altra volta. Se poi a invitarlo sono gli Omini nella loro Segheria, il senso di soddisfazione è doppio, perché quella sala di produzione autogestita, che riproduce artigianalmente e in miniatura i foyer e le sale teatrali di contesti più accreditati e sovvenzionati, sono di quanto più coraggioso e incoraggiante ci sia in circolazione.
FIRENZE. È vero: con Michele Santeramo, l’integrità cronistica che ci distingue, la nostra inflessibilità ad personam, il nostro manicheismo che non ammette eccezioni, per magia, si dissolvono e si trasformano in un unico straordinario blocco emotivo. Quando sul palco c’è Michele Santeramo noi diventiamo patetici ultrà e finiamo per non scorgere mai nulla che non sia magnifico, proprio come i supporters calcistici che si stipano nelle curve fanno con i loro beniamini. Ma la colpa è sua, beninteso, perché ogni volta noi vorremmo pure non lasciarci suggestionare dalle sue affascinanti affabulazioni e rimanere neutrali, come torri che non si muovono a sì spirar di vento, ma non ce la facciamo. Michele Santeramo va, puntualmente e sistematicamente, oltre ogni ragionevole e pertinente (pre)giudizio e finisce per abbindolarci, con la nostra totale e inerme complicità. Storia d’amore e di calcio, sul palco rovesciato del Teatro di Rifredi, che con questa rappresentazione (si replica fino a sabato 27 aprile) chiude la stagione di prosa, è un’altra storia minima, ignobile e dimenticata, che somiglia quelle minori delle quali il mattatore si ciba da sempre.
FIRENZE. Oscar De Summa non ci va mai leggero. Per fortuna. Anche stavolta, con L’ospite – una questione privata -, prodotto da Pupi e Fresedde, Teatro di Rifredi e Uthopia, si è risparmiato poco. E anche stavolta, nonostante sul palco non ci sia lui, il funambolico pugliese, come è successo con La sorella di Gesùcristo e Stasera sono in vena, ma il conterraneo Ciro Masella (che firma anche la regia) e l’albanese Aleksandros Memetaj, la storia appartiene, senza dover fare ricorso a sforzi particolari, a quelle minori, ma solo per eco mediatico, di provincia. Una provincia immaginaria e facilmente immaginabile, dove nel baratro, alla fine, finiscono per rotolarci tanto i carnefici quanto le vittime. La scena del crimine, ambientato nella metà posteriore del palco del Teatro di Rifredi (ieri, venerdì 19 aprile, quarta e ultima replica), è il salotto di un appartamento nel quale un topo dimmerda, frocio, che ci scopa le mogli e le sorelle (anche quelle degli altri, ma le altre son tutte troye) è furtivamente e maldestramente entrato per fare razzia, non facendo però i conti con il proprietario della casa che rientra prima che il ladro porti a termine il suo progetto criminale.
di Raffaele Ferro
PISTOIA. Sipario: scena in ombra - di spalle un gruppo di musicisti; banda di paese. Suonano Gioacchino Rossini di fronte al maestro. Il Carabiniere in divisa, impettito, sul podio, è l’unico a essere illuminato. Andrea Rossini (caso vuole l'omonimia) che interpreta il Maresciallo, nei camerini dopo lo spettacolo mi dice che sostanzialmente, stare sempre impettito, quasi immobile, in un ruolo con poche battute, è tutt'altro che semplice. È vero: Allegretto (perbene ma non troppo) non è uno spettacolo qualunque, la sceneggiatura di Ugo Chiti lo ha previsto, scritto e organizzato. Una storia semplice, banale, come mi dice il regista dopo lo spettacolo; una serie di scompartimenti, la divisione e la giustapposizione delle scene, delle gabbie. Si perché i personaggi lo sono, ingabbiati in quello che è un essere, un trovarsi (come nel ventennio fascista per molti fu) ingabbiati, se non proprio imbavagliati, in un personaggio. De resto, ribadisce il regista, è la stessa banalità del Male di cui Anna Arendt ne ha delineato i profili, quella dei nazisti, quella della fredda e cinica azione di chi ha deportato e sterminato milioni di innocenti, in cui si struttura la vicenda. In Allegretto si parla del nostro territorio, di un piccolo paese di provincia e di un fatto triste, crudo e scomodo. Qui, sul filo del discorso, fatto con gli attori e col regista, prima dell'inizio, si cerca di inquadrare la storia.
FIRENZE. Il contesto, che pare di fortuna, è oltre modo corretto invece. Il problema, è solo arrivarci, al Riva Lofts Florence, perché via Baccio Bandinelli, a Firenze, dove è il meraviglioso B&B e dove stasera (sabato 13 aprile, ore 21) si replicherà Giusto la fine del mondo, è una caccia al tesoro, un gioco dell’oca, per i quali, per chi non è pratico della zona, è indispensabile non innervosirsi. Il figliol prodigo (Riccardo Naldini), però, suo fratello e sua sorella (Roberto Gioffrè e Luisa Bosi), la cognata (Laura Croce) e la madre (Sandra Garuglieri) sembra proprio che in quell’albergo preso in prestito da Marmuris + Attodue, la produzione di questa traduzione e trasposizione teatrale di uno dei testi di Jean Luc Lagarce, ci vivano davvero. Un testo surreale, beckettiano, dal trono poetico sudamericano, che si ispira a Gabriel Garcia Marquez, che richiede uno spiccato senso semiserio della trascendenza, del qui e ora, dell’altrove e del mai, un viaggio claustrofobico, ironico, tragico, dove si scontrano l’amore e l’odio, la parentela e le sue incomprensioni, il rigore geometrico della piramide e le sue contraddizioni, il fascino dell’appartenenza e l’invidia della contiguità. Jean Luc Lagarce è uno di quegli autori con i quali è già difficile misurarsi; confrontarsi, risulta diabolico.
PRATO. Ha fatto bene, una spettatrice, a fine rappresentazione, urlando più forte degli applausi, a dire grazie. Perché più di così, a teatro, in un teatro spoglio di ogni orpello, come lo è il Fabbricone di Prato (si replica oggi domenica 7 aprile, alle 15,30, imperdibile), dove ci sono una poltrona, custodita ai lati da pile di libri, dove siede un uomo (Franco Branciaroli), islamista docente universitario, in attesa di avere notizie della figlia (Marina Occhionero), che le gira nervosamente attorno, ma da oltre 5.000 chilometri di distanza, perché è scappata a Fallujah, in Irak, per stare vicino al suo uomo e a combattere la sua guerra, non si può avere. Saltiamo a piè pari tutto quello che ha voluto raccontare, dire e provare a innescare Rachide Benzine, islamologo, nuovo lettore del Corano, autore del romanzo Lettere a Nour, che è anche il titolo della rappresentazione, perché altrimenti dovremmo intavolare una seduta che inizierebbe ora senza avere una fine, anche se per noi, le religioni, sono, tutte, indistintamente, oppio (ma della peggior fatta, quello che fa venire fame chimica) per i popoli, e ci concentriamo sulle performances dei due protagonisti: un vecchio (mostro sacro) e una bambina (che diventerà una regina).
PISTOIA. Serata difficile, onestamente e oggettivamente, con tutto il fascino che si deve e si è portato dietro, quella con la quale Il Funaro, una delle cose più belle capitate a Pistoia da quando è diventata Provincia, ha deciso di chiudere la stagione (che ha messo in mostra, come succede da quando è nata, cose che voi umani non potreste nemmeno immaginare): la lectio magistralis di Piergiorgio Giacché, antropologo dello spettacolo, uno dei pochi estimatori di un filosofo che continua a subire l’ostracismo collettivo e inconsapevole delle masse, Aldo Capitini. E dire che all’inizio della rappresentazione eravamo convinti che la serata avrebbe avuto un andamento jazz, visto e considerato che il vate perugino che ci ha condotto per mano dal suo padre spirituale ha deciso di presentarsi al pubblico di spalle, stile Miles Davis. Che ci fossimo sbagliati lo abbiamo capito subito, però. Lo stare in piedi, davanti a un leggio nascosto dal corpo, sciorinando alcune note autobiografiche di uno dei più incisivi educatori antifascisti e nonviolenti d’Italia, è stato solo un encomiabile segno di rispetto, che qualsiasi nano farebbe bene ad avere nei confronti di un gigante come lui.
CASALGUIDI (PT). I sensi precedono la percezione, sempre, non solo per gli stolti, o più bonariamente, per gli istintivi, ma anche per i soggetti più profondi. Guardare Laura Morante (sessantatré anni) e restare abbagliati dalla sua semplice, naturale, sconvolgente bellezza è un tutt’uno, senza soluzione di continuità. Anche se lei, della sua biochimica eleganza, della quale sarà certamente grata e soprattutto riconoscente, non sembra farne uso smodato. Anzi. Anche ieri sera, infatti, sul palco del Teatro Francini, di Casalguidi, terra che congiunge la piana pistoiese con il Montalbano, che l’ha ospitata con la sua nuova Brividi immorali, esordio letterario trasformato in reading alla bisogna, per chiudere, come meglio non avrebbe potuto, la stagione, la musa ispiratrice delle donne misteriose di Nanni Moretti era come al solito vestita affinché nessuno si accorgesse di lei, con un pallone prossemico invalicabile. Pantaloni di flanella, maglia di lanetta e giaccone, tutti abbondanti, senza scandire le forme, di lana, neri, come le scarpe (calzatura da mademoiselle del ‘700), con un leggio, i fogli sui quali c’erano i racconti estratti dall’omonimo volume (edito da La nave di Teseo)
CALENZANO (FI). Addentrarsi nei meandri processuali sarebbe servito a poco, forse a nulla. Degli otto duplici efferatissimi omicidi consumati nella provincia di Firenze tra il 1968 e il 1985, generando delle vere e proprie piscosi, ma anche lugubri lazzi, amplificati dai caroselli processuali, soprattutto con Pietro Pacciani, persona indegna di essere definita tale, ma vera e propria star mediatica, nemmeno le Magistrature di Firenze e Perugia sono riuscite a fare piena e definitiva luce. Sì, certo, ci sono due ergastolani, Marco Vanni e Giancarlo Lotti, ritenuti responsabili della metà delle mattanze, ma sulla storia del Mostro di Firenze troppe cose sono rimaste coperte da misteri e da una fitta coltre di interessi e deviazioni. Per questo ha fatto bene Eugenio Nocciolini ad avvicinarsi a quel lunghissimo caso di cronaca nera allestendo, ma dalla parte delle vittime, innocenti e inconsapevoli, NESSUNO, Il mostro di Firenze, in scena al Teatro Manzoni di Calenzano (nella provincia di Firenze, ma la più anonima che si possa immaginare) fino all’ultima replica di oggi, domenica 31 marzo, alle 16,30. Con lui, sul piccolo palco dello stabile, scenografato da due tavoli, ad uso scrivanie della Questura, banchi di frutta, tavolini di Circoli per filotti e confidenze erotiche, Gabriele Giaffreda, Monica Bauco, Antonio Fazzini, Roberto Gioffrè, Vania Rotondi e alcuni ragazzi (che devono lavorare sodo se vogliono fare gli attori) della CalenzanoTeatroFormAzione.
PRATO. La guerra la fanno gli uomini: padri, mariti, amanti e figli; le donne, madri, mogli, amanti e figlie, restano a casa, ad aspettare che tornino i maschi. Solo se vincitori, naturalmente. Quella tra Troiani e Greci, raccontata da Euripide e terminata, come si legge dagli abbecedari in poi, dopo dieci anni con la beffa del cavallo, tragico presagio della sola Cassandra (Manuela Mandracchia), lo è per antonomasia una guerra di uomini; anzi, di eroi, dei, per lo più. Ma Troiane, Frammenti di tragedia, in scena al Metastasio di Prato (si replica stasera, alle 19,30 e domani, domenica 31 marzo, alle 16,30), una delle tre opere della trilogia del Collettivo Mitipretese che ha contemplato anche altre visualizzazioni solo femminili, come Roma ore 11 e Festa di famiglia, racconta the day after della Troia in fiamme, devastata, saccheggiata e vilipesa dando voce e dolore solo alle donne, rinchiuse in uno spazio in attesa, come trofei di guerra, delle loro destinazioni: l’anziana Ecuba (Alvia Reale), sua nuora Andromaca (Corinna Lo Castro) e la femmina della discordia, del baratto, del tradimento, la bellissima Elena (Sandra Toffolatti, bellissima veramente),
FIRENZE. Da ottima e dotta teatrante quale è e che non ha alcuna intenzione di nascondere, per invocare un inevitabile ritorno alla civiltà femminile, più che matriarcale, Marta Cuscunà si è presa la licenza di rovistare tra gli annali storiografici delle civiltà ladine riportando in luce, oltre che liberarla dalla polvere, la leggenda del mito di Fanes, quella popolazione gemellata con le marmotte che vive nascosta tra i fondali del lago di Braies e la valle del Cadore, posti cari tanto al giornalista antropologo austriaco Karl Felix Wolff, a cui si deve la modernizzazione di quelle leggende sepolte in attesa di resurrezione, quanto a Walter Bonatti e Reinhold Messner, scalatori indefessi che con Dolasilla, figlia della regina che sposò uno straniero che la trasformò da umile ancella in indomita guerriera, gettando nel vortice dell’astio bellico la pacifica comunità di Fanes, hanno fatto i conti una vita intera, ogni volta che si sono avvicinati a una parete, ferrandola per i posteri dilettanti, o conquistandone le cime in religioso, ma laico, silenzio.
FIRENZE. È stato uno degli autori che non potevano mancare nei circoli rivoluzionari; rigorosamente. Oltre a Samuel Beckett e la sua Aspettando Godot, negli anni delle illusioni finite malissimo, gli altri insostituibili erano Heinrich Boll (Opinioni di un clown) e Hermann Hesse (Siddhartha), che formavano la triade generazionale di quelli che sostenevano che non succede, ma se succede…Non è successo, d’accordo, ma per fortuna, quei libri, oltre ad averli letti, li abbiamo soprattutto riletti e nel tempo, l’effetto, anziché limitarsi a vivacchiare e rimbalzare da un decennio al successivo, si è andato addirittura fortificando, aumentando ulteriormente rammarico e nostalgie. Le nostre, ma non quelle di Maurizio Scaparro, il regista e dei protagonisti (Antonio Salines, Luciano Virgilio, Edoardo Siravo, Fabrizio Bordignon e Gabriele Cicirello) dell’omonimo capolavoro del filosofo irlandese, naturalizzato francese, riadattato, grazie al Teatro Biondo di Palermo e alla Fondazione Teatro della Toscana, per i palcoscenici italiani, come quello fiorentino della Pergola, che li ospiterà fino a domani, 28 marzo.
AGLIANA (PT). Chiunque, a Genova, decida di voler far ridere, con una semplice battuta, una barzelletta, ma anche di professione, deve fare i conti con due mostri sacri della città della Lanterna: Gilberto Govi e Paolo Villaggio. Il primo, seppur vagamente cinico (soprattutto con la sua immancabile e insostituibile moglie Luigia), è pur sempre stato una macchietta meravigliosa, con quella faccia inconfondibile, la stessa che sempre sul mar Tirreno, ma a centinaia di chilometri più a Sud, lo è stato Eduardo per i napoletani, in un teatro di cabarettisti e intrattenitori sopraffini, che non avevano alcun bisogno di ricorrere mai alle volgarità, per suscitare ilari e robusti consensi. Il secondo, invece, ha letteralmente rivoluzionato il modo di ridere, travolgendo in modo sadomasochistico i pochi pregi e gli innumerevoli vizi dell’italiano medio, senza confidare nella melodica musicalità del proprio slang, ma adducendone nuove, tragiche, letali. Anche Tullio Solenghi è genovese e di essere un discendente doc di quella scuola popolare ne va fiero, tanto che da qualche tempo gira i teatri dell’Italia portando in scena Una serata pazzesca,
PRATO. Un personaggio come Jan Fabre non ha bisogno di altro per essere spettacolo. È già estremo, quanto basta, alcune volte anche con eccessi chirurgici, che sembrano essere stati pianificati dal sistema, così come si prepara una macchina per la guerra dello stupore. Lino Musella, però, onemanshow di The night writer, Giornale notturno (al Fabbrichino di Prato fino a domenica prossima, 24 marzo), (ri)lettura di alcuni spunti dell’onnivoro belga, riesce, perfettamente, a sottrarre qualcosa alla sua non sempre comprovata polivalenza artistica per accrescere ulteriormente la propria certificata vis teatrale. Un’operazione saprofitica esemplare: ridurre all’essenziale – citando date e appunti come un navigato speaker telegiornalistico psicopatico – le informazioni e lavorare su queste alla ricerca di una traiettoria che ne garantisca un profilo sufficientemente contorto e maledetto e un approdo dispensatore di consensi e applausi. Sullo sfondo della sala della diretta, che ha tutte le sembianze di un paesaggio lunare sul quale sono appoggiate e spiccano alcune staine, neologismo utile a una sottile, seppur prevedibile, battuta in quarta, Lino Musella, alfabetizzato alla movenza del viso, delle mani e dei piedi da Michela Lucenti e glorificato da Antonio Latella in quel capolavoro, senza se e senza ma, che è Natale in casa Cupiello,
di Alessandra Pagliai
FIRENZE. Tre soli attori sul palco per un denso, essenziale e comico Shakespeare che ha l'intento di fare a pezzi la tragedia. Al Teatro di Rifredi, ancora fino al 21 marzo, la Compagnia La macchina del suono è in scena con trentasette opere del Bardo in soli novanta minuti. Una pièce lunga quanto una partita di calcio, ma senza l'intervallo. Inutile chiedersi cosa ne penserebbe William Shakespeare; la domanda è un'altra: cosa ne pensiamo noi, noi che abbiamo ancora le lacrime agli occhi per aver visto Ofelia annegare in un bicchier d'acqua e Tito Andronico partecipare a Master Chef in stile collaboratore di Quentin Tarantino e il Moro di Venezia versione rap alle prese col kleenex tutto ricamato? Le commedie di Shakespeare, ben sedici, sono velocemente citate; quel che gli e ci interessa sono le tragedie.
PISTOIA. I matrimoni riparatori non sono finiti; ora, rispetto alle tecniche di inizio secolo scorso, quando Luigi Pirandello scrisse e portò in scena Il piacere dell’onestà, sono solo cambiate le procedure della finzione, ma l’ipocrisia, con la quale l’apparenza riesce in qualche modo a salvarsi, continua a farla da padrona. Alessandro Averone, consapevole che al drammaturgo siciliano ci sia ben poco da appuntare, figuriamoci da aggiungere, ha deciso che la storia del malfattore Angelo Baldovino e la sua grande occasione di liberarsi da debiti e malelingue e riscattarsi veramente, così come fu confezionata più di cento anni or sono, bastava e avanzava. Piacque molto ad Antonio Gramsci; è piaciuto parecchio a Beppe Grillo. E allora, complice il Teatro Metastasio di Prato che l’ha prodotto, in collaborazione con Knuk Company, ha convocato a sé Agata, la moglie del riscatto, sua madre, il marchese Fabio Colli, ammogliato, ma padre del bambino di Agata, il suo vecchio compagno di scuola e il parroco battesimale (Laura Mazzi, Alessia Giangiuliani, Marco Quaglia, Gabriele Sabatini e Mauro Santopietro) e con loro, al Teatro Manzoni di Pistoia (si replica oggi, domenica 17 marzo, alle 16),
FIRENZE. La montagna di (in)formazioni che sovrasta la rappresentazione, utili a svelare la struttura concentrica, ma centrifuga, dello spettacolo, è il magma che serve ai Premi, Ubu su tutti, per classificare e/o declassare un’opera, il suo autore e la sua scuola/dottrina. Roberto Latini è già, da tempo, nel cerchio degli illuminati e questa Sei. E dunque, perché si fa meraviglia di noi? altro non è, non per riduzione, ma per consacrazione, un’altra pagina indelebile della sua produzione, affidata, sul palcoscenico del Cantiere Florida, a Firenze, a una sua creazione, reincarnazione metempsicotica, l’acrobata PierGiuseppe di Tanno. Che a differenza, addizionale, non sottrattiva, di Mangiafuoco, oltre alle mani, usa anche i piedi, per la precisione i dieci alluci. Lo fa su un piedistallo che non si muove a sì spirar di vento, in consolidato equilibrio, un palco sul palco, sottolineando, già dai presupposti, che si tratterà di metateatro, a livello puro, cristallino, prendendo in prestito, con la consapevolezza di renderlo a Luigi Pirandello, il proprietario, Sei personaggi in cerca d’autore, che per materializzarsi alla bisogna chiedono lumi e venia al loro misterioso fratello, il settimo, che è mascherato, con la figura di un teschio, come Amleto (?), o Kriminal (?), ma anche di un pagliaccio, se preferite;
Leggi tutto: Il settimo personaggio è l'autore che cerchiamo
di Alessandra Pagliai
FIRENZE. Col Ku Klux Klan, l'organizzazione segreta nata negli Stati Uniti e tutt'ora in attività (sic!), i nostri eroi hanno solo l'assonanza, e che consonanza. Gli ideali discriminatori qui non c'entrano? l’omofobia, l’anticomunismo, il segregazionismo, il razzismo? forse si. Nella cerimonia di iniziazione il KKK declama che L’uguaglianza sociale dovrà essere bandita per sempre. Nella storia disperata di Gabriele Di Luca infatti l'omogeneità sociale è inesistente. La piccola comunità di senzatetto di cui si narra vive recintata e ben lontana dai ricchi. La sopravvivenza è il loro affare. E anche fra loro vige la distanza per quanto allo stretto, ma non l'indifferenza. La vita, nella versione tragicomica della Carrozzeria Orfeo, è raccontata al presente, il nostro, nessuno escluso. Siamo gli spettatori di una pièce che va in scena ogni giorno sotto gli occhi di tutti, nostro malgrado, basta avere gli occhi. Come scriveva José Saramago, Se puoi vedere, guarda. Se puoi guardare, osserva.
PISTOIA. Non sappiamo se conosca più e meglio il Teatro o gli Spettatori, Roberto Valerio; un dubbio ininfluente, però, perché il risultato, puntualmente, è sempre lo stesso: applausi a scena aperta e orgogliosi inchini soddisfatti al termine. È successo anche ieri sera, con il Tartufo, al Manzoni (domenica 10 marzo, alle 16, terza e ultima replica), che l’ha prodotto, per questa nuova antica versione della commedia di Molière, della quale il funambolico romano (slang con cui l’abbiamo benevolmente appellato) firma la regia e indossa i panni di Orgone, marito tanto rigido quanto sprovveduto che non riesce a capire l’inganno che il finto amico Tartufo gli sta ordendo. Il Teatro lo conosce alla perfezione e non a caso, la sua squadra, che come una duttilissima fisarmonica si allarga e si stringe a seconda delle circostanze, vanta delle presenze che sono insostituibili: come la candida Valentina Sperlì (Elmira, la moglie di Orgone), ad esempio, o lo speaker Massimo Grigò (Cleante, il fratello di Elmira e Lorenzo, il servo di Tartufo), tutti con lui nelle precedenti fortunatissime e applauditissime esperienze, dal Vantone a Casa di bambola, passando per L’impresario delle Smirne.
FIRENZE. Immacolata Concezione è una pagina coraggiosa, vera, realista, che trasuda bellezza da tutti i pori, dall’inizio alla fine, che impone un’implosione di tenerezza, alla quale abbiamo dato libero sfogo solo all’uscita, lontano dalle altrui emozioni, piangendo a dirotto. Immacolata concezione è uno di quegli spettacoli che non si devono in alcun modo perdere, perché è delittuoso non vedere all’opera Concetta (Federica Carruba Toscano), ideatrice di questa novella creata dal Teatro della Vuccirìa - prodotta dalla Fondazione del Teatro di Napoli e dal Teatro Bellini e affidata alla regia di Joele Anastasi -, trascinata nuda, come una cavalla da monta o una mucca da mungere, con una corda al collo, dal fondo del Teatro di Rifredi (stasera, 9 marzo, ultima replica: vi consigliamo, spudoratamente, di andare a vederlo) fino sul palcoscenico, accompagnata dagli schiamazzi, dalle urla e dai fischi pecorari dei suoi vecchi proprietari, i genitori, che la barattano a DonnaAnna, meretrice di un bordello, che in cambio di questa puledra vergine anche un po’ ritardata perché inspiegabilmente felice e con un seno spropositato offre la sua capra, gravida e piena di latte.
PRATO. Che il Don Giovanni di Valerio Binasco non fosse e non volesse soprattutto essere un copia/incolla delle migliaia di rappresentazioni precedenti, tra irresistibili incantatori di serpenti e fascinosi dark emaciati, lo si è capito subito, dalla scelta musicale con cui si è aperto ieri sera il sipario del Metastasio di Prato (si replica oggi, 20,45, domani, 19,30 e domenica 10 marzo, 15,45) sulle note di quella controversa, criptica, biblica e demoniaca, leggendaria Stairway to Heaven, di Robert Plant. E subito dopo, una volta inquadrato nel suo delirante eccesso psicopatico il magistrale tragicomico servo Sganarello (Sergio Romano), ecco che sulla scena piomba un imprevedibile Don Giovanni (Gianluca Gobbi), camionista impomatato, rockettaro, naturalmente sovrappeso, soprattutto per l'abuso di alcool, uno che si è fatto da solo, gettando alle ortiche le doti e la morale familiare, un Don Giovanni inconsapevole di esserlo, ma arciconvinto di volerlo diventare, pur ignorandone le gesta, perché quella è l’unica strada alla sublimazione, quella che gli suggerisce l’impeto di impossessarsi delle donne, tutte, indistintamente, la successiva sempre un po’ di più della precedente, per sposarle o promettersele in spose e averle davvero.
di Alessandra Pagliai
FIRENZE. Signore e signori, Nerium Park è uno spettacolo che si dipana per dodici scene, in una Prima nazionale svolta al Teatro di Rifredi di Firenze il 1 e il 2 marzo. Nerium Park è il nome del luogo dove si svolgono i fatti e misfatti; un comprensorio moderno immerso in un territorio costellato di oleandri, belli, colorati e molto velenosi. È una vasta area dove vivono solo Marta e Bruno, due giovani che lavorano e possono permettersi un mutuo trentennale, sposi in attesa di un figlio. Qui si parla d'amore, unione, lavoro, possibilità economiche, speranze, una bella casa e di come la vita possa trasformarsi in un brivido febbricitante quando tutto cade in un rovinoso domino: il lavoro-dignità, i soldi-potere d'acquisto, la comunità-forza che manca, l'intimità della coppia che scoppia e arriva un figlio da crescere con tutti i sogni e bisogni che comporta. Bruno perde il lavoro e l'amore si logora anziché fortificarsi nella battaglia solidale contro le difficoltà. Qui c'è l'Italia, nonostante il testo arrivi dal nord-est della Spagna, dalla Catalogna di Josep Maria Mirò nel 2013. Qui c'è l'Europa dell'Unione Europea ancora in divenire.
PRATO. Un comizio, sarebbe stato più semplice. È quello che hanno fatto tutti, del resto, immediatamente dopo e per molti anni a venire, fino a quando la storia si è fatta leggenda, già dalla mattina del 9 maggio, quando Aldo fu trovato Morto nel bagagliaio di quella Renault 4 rossa, rubata pochi mesi prima a Filippo, un operaio stradale emigrato a Roma da Macerata in cerca di fortuna. Daniele Timpano, però, nato a Roma appena 4 anni prima della prima mattanza che ha segnato questo paese (le altre due sono Falcone e Borsellino), attore, regista, della scuola storta del Teatro, tra Mister Bean e Daniele Luttazzi, all’epoca dei fatti, era troppo piccolo, per capire. Ma anche per prendere posizione. Però, con quel macigno sulle spalle, sulla memoria collettiva e sul futuro di ogni pensatore, ci è cresciuto, facendoci i conti e facendoci teatro. Il suo Aldo Morto infatti, in scena al Magnolfi di Prato (si replica stasera, alle 20,45) parecchi anni dopo un indiscusso riconoscimento di premi, critica e pubblico, è ancora un’ottima indispensabile relazione tra il cadavere dello statista democristiano e i suoi carnefici, annessi e connessi gli accurati depistaggi dei servizi segreti: americani, russi, israeliani e palestinesi;
AGLIANA (PT). L’epica ha il suo fascino, indiscutibile. Basti pensare alle gesta, appunto epiche, in quanto mitologiche, con le quali si sono combattute estenuanti battaglie, riscritti i confini degli Imperi, escogitate imprevedibili astuzie, generate caste e discendenze, partorito divinità immortali, spesso dai nomi tanto leggendari quanto impronunciabili, quasi tutti rafforzati da dittonghi, consumati amori, combinati matrimoni, ordito vendette attese decenni anche facendo ricordo ai tradimenti, consultati oracoli. Una trafila di avvenimenti conditi da intrecci spesso inestricabili di parentadi promiscui che hanno generato alberi genealogici letteralmente impossibili da ricostruire. Il fascino di esperienze così lontane e con una lentezza realizzativa insopportabile, riportate nei secoli dalle scritture classiche, quasi tutte al limite della credenza, si infrange con la loro dubbia verosimiglianza, per tracimare, inesorabilmente, nel campo degli sbadigli, generati dalla noia, che a teatro diverrebbe letale.
FIRENZE. Un po’, la faccia da maestra che ha dedicato l’intera esistenza alla scuola, dimenticando amori, famiglia, interessi, ce l’ha anche, Antonella Questa. Iniziamo così, giusto per sdrammatizzare quanto non basta, il racconto di Infanzia felice, lo spettacolo prodotto dall’Associazione Culturale LaQ-Prod (fondata nel 2005 proprio da Antonella), in collaborazione con i padroni di casa del Teatro Rifredi (dove replicherà stasera e domani pomeriggio, 24 febbraio), Pupi e Fresedde e con Armunia Centro di Residenze Artistiche Castiglioncello Festival/Inequilibrio. Lo facciamo perché il tema, troppo delicato e vitale da sempre, in particolare per le future generazioni, è uno di quelli che scottano parecchio e che quasi sempre, ma il quasi è un eufemismo, risulta decisivo. Nel bene e nel male. E non occorre andare molto lontano nel tempo, sfruttando così il distico novellistico di c’era una volta, per rintracciare e individuare nell’amore non dato, nell’ascolto non offerto, nel tempo non perso il germe della distruzione. La fiaba per adulti, sottotitolo scelto dall’autrice/regista/attrice, racconta la storia di Rossana Caramella,
PRATO. Chiunque decida di misurarsi con il Teatro non può permettersi il lusso, sarebbero una mancanza e una lacuna imperdonabili, di non affrontare Shakespeare. Anche perché, con La bisbetica domata, una delle opere tra le più rappresentate al mondo di ogni tempo e tra tutti gli autori, ci si possono consentire una miriade di licenze. A patto che si possa fare affidamento su un cast che sappia giocare a nascondino come si deve e che all’interno dei mestieranti della bisogna si sappiano individuare gli amanti/duellanti, la vittima/carnefice, il sequestratore/rapito Caterina e Petruccio. Che Andrea Chiodi, il regista, confidando nella traduzione e nell’adattamento di Angela Demattè, ha individuato nel diaframma in falsetto di Tindaro Granata (collant, di lana, rossi; fruits nera con un inno alle ragazze) e nel machismo schietto e presuntuoso, ma pericolosissimo, di Angelo Di Genio (giubbotto di pelle nera, pancetta da chi ha smesso di andare in palestra), accompagnati, in questa esposizione al Metastasio di Prato (fino a domenica 24 febbraio), dal resto della ciurma di un apprezzatissimo bateau ivre composta da un cast tutto maschile, con Ugo Fiore, Igor Horvat, Christian La Rosa, Walter Rizzuto, Rocco Schira e Massimiliano Zampetti.
FIRENZE. Quel braccio del lago di Como è un cantiere a cielo aperto, una palazzina restata a metà, come succede spesso nel sud d’Italia, in attesa che i figli, maschi, si sposino e occupino i piani superiori, con ferri e impalcature a vista, teloni e la leggendaria non s’ha da fare scritta sul muro, che durante la rappresentazione perde la sua negazione - perché poi anche Renzo e Lucia vivranno felici e contenti, cazzo -, lasciando il posto al video di Addio ai monti, per l’inevitabile recita collettiva di stranieri dell’ultim’ora. Arriviamo decisamente tardi (lo abbiamo visto solo ieri, al Cantiere Florida, a Firenze; replica stasera, 20 febbraio, alle 21) a recensire I promessi sposi, riletto da Michele Sinisi, che decise di perseverare, tre anni fa, dopo l’orgia di consensi ricevuti con Miseria e nobiltà, conservando, oltre che la stessa formazione (Elsinor alla produzione, Francesco Asselta alla scrittura e le scenografie di Federico Biancalani) l’irriverenza pop di questi incauti, ma brillanti aggiornamenti. Don Abbondio (Stefano Braschi, un conto in banca sicuro), che di coraggio non ne ha mai avuto e il coraggio, uno, da solo, non se lo può dare, anche se arriva dalla platea con il piglio del protagonista per nulla timido, tra tutti, è quello che si allontana meno dal testo originario, insieme al focoso, temerario e incazzato Renzo Tramaglino (Donato Paternoster).
FIRENZE. Quel braccio del lago di Como è un cantiere a cielo aperto, una palazzina restata a metà, come succede spesso nel sud d’Italia, in attesa che i figli, maschi, si sposino e occupino i piani superiori, con ferri e impalcature a vista, teloni e la leggendaria non s’ha da fare scritta sul muro, che durante la rappresentazione perde la sua negazione - perché poi anche Renzo e Lucia vivranno felici e contenti, cazzo -, lasciando il posto al video di Addio ai monti, per l’inevitabile recita collettiva di stranieri dell’ultim’ora. Arriviamo decisamente tardi (lo abbiamo visto solo ieri, al Cantiere Florida, a Firenze; replica stasera, 20 febbraio, alle 21) a recensire I promessi sposi, riletto da Michele Sinisi, che decise di perseverare, tre anni fa, dopo l’orgia di consensi ricevuti con Miseria e nobiltà, conservando, oltre che la stessa formazione (Elsinor alla produzione, Francesco Asselta alla scrittura e le scenografie di Federico Biancalani) anche l’irriverenza pop di questi incauti, ma brillanti aggiornamenti. Don Abbondio (Stefano Braschi, un conto in banca sicuro), che di coraggio non ne ha mai avuto e il coraggio, uno, da solo, non se lo può dare, anche se arriva dalla platea con il piglio del protagonista per nulla timido, tra tutti, è quello che si allontana meno dal testo originario, insieme al focoso, temerario e incazzato Renzo Tramaglino (Donato Paternoster).
PRATO. La bellezza dei gesti, delle parole, delle emozioni, della fisicità come ariete dissacratore, uniti a scritti, datati, anche se privi della certezza del mittente, trasformano questi Sonetti shakespeariani (al Fabbricone di Prato, con repliche stasera, alle 19,30 e domani, 17 febbraio, alle 15,45) in un meraviglioso girone dantesco, dove la lussuria si impadronisce dell’amore e la morte si burla della vita. Ma si può trascendere l’autore, che non ne avrà a male, visto che lo sapeva in vita, di non avere tempo e tempi, e concentrarci sulla figura del regista/poeta/narratore/buffone, Valter Malosti, che è un uomo ferito a morte dal suo tempo e dall’inesorabile vortice cronologico con ancora il diritto/dovere di dare sfogo alle proprie passioni, al canto del suo cuore, alla vibrazione del proprio piacere, alla cura della sua agonia, trasversali, ridicole, goffe, omosessuali, a tratti incestuose, ma sinceramente sublimi, epiche, difficili da non ascoltare, arduo resisterne alla seduzione, impossibili da non annoverare tra quelle cose che il teatro non può prescindere.
FIRENZE. La facilità con la quale la musica e i testi di Pino Daniele trasferiscono le anime degli ascoltatori altrove non è inversamente proporzionale alla semplicità con la quale si possa poi riuscire a imbastire, attorno alla storia delle sue ballate, un’opera. Alessandra Della Guardia e Urbano Lione invece, in debito, probabilmente, come tutti, del resto, con Pino Daniele, sono riusciti a regalargli, postumo, un dono particolarmente ambizioso, ma semplice: raccontare una storia, dai bassi napoletani, lungo i binari di alcune sue canzoni, costruendoci intorno una vicenda affatto fantascientifica. Un giovane napoletano, Antonio, da tempo emigrato a Torino, riceve una raccomandata che gli comunica che suo padre, che non ha mai conosciuto, come lascito testamentario, gli ha lasciato una cospicua somma di denaro e la proprietà di un immobile, che nel tempo è diventato il Ue man, locale storico del sottobosco musicale partenopeo, rifugio prezioso per musicisti, cantanti, attori e ballerini della Napoli meno abbiente, con tanto di sogni e frustrazioni, amori e sesso, personaggi ideali e camorristi, saggi e cantori, scugnizzi e femmine di lusso, bene e male a intrecciarsi meravigliosamente in questa storia on the road.
di Alessandra Pagliai
FIRENZE. Chi è tormentato dall'alcol chi dal fuoco, chi alcolista, chi piromane, a ciascuno il suo inferno. Yngvild Aspeli, che dirige la Compagnia franco-norvegese di teatro visivo Plexus POolaire, mette in scena due delle brutte bestie che mordono cuore e cervello all'essere umano. La storia, raccontata sul palco del Teatro di Rifredi, narra le vicende di due giovani uomini vissuti in tempi diversi nel sud della Norvegia, che incrociano il loro scompiglio e perversione nel libro scritto dall'alcolista che si interroga su cosa vediamo quando guardiamo noi stessi: forse un lupo feroce, famelico e orrendo? talvolta si; è il lato oscuro della vita, baby. Bambino all'epoca dei fatti, afferrato dall'ignoto, colpito dalla vicenda per trent'anni, la devastazione del fuoco appiccato da Dag, figlio del pompiere del paese, che ha reso la vita cenere, lo scrittore - bevitore descrive la similitudine dei loro mali oscuri che ha lo stesso codice: il complesso rapporto padre/figlio. Ispirato al romanzo Prima del fuoco, di Gaute Heivoll, Ceneri
FIRENZE. Dopo averle urlato brava l’ennesima volta, abbiamo preferito andarcene. Ma non perché il dibattito condotto dal collega (e amico) Attilio Scarpellini seguito allo spettacolo Bad Lambs non fosse gradevole; anzi, senza alcun dubbio qualche nodo ce l’avrebbe sciolto e la comprensione, migliore, ci avrebbe sicuramente consentito una recensione più attenta, dettagliata. Ma ci siamo ingelositi della cascata di emozioni ricevute durante la rappresentazione e siamo scappati a casa, per scrivere, senza aggiungere nulla a quello che siamo sicuri d’aver sentito. Un balletto cocondotto da un ragazzo su una sedie a rotelle, uno senza l’avambraccio destro e un non vedente, che hanno atteso in fondo al palco che il pubblico affluisse tutto, al Cantiere Florida, di Firenze e si sedesse, prima di iniziare, sarebbe potuto essere una coraggiosa perlustrazione, seppur iniettata d’arte, sulla disabilità. Che ci fossimo sbagliati l’abbiamo capito immediatamente, per fortuna, ma non per merito del nostro acume o per le immagini sul fondale del proscenio, la musica profusa, i manifesti attaccati alle pareti, o la cronaca dettagliata dell’incidente. Solo perché ci siamo seduti, rilassati e abbiamo avuto l’umiltà (è questa, forse, l’arma con la quale si può sconfiggere la morte, o almeno il vuoto che produce) di ascoltare.
PISTOIA. Siamo da sempre propensi alle riletture, pur senza scomodare Caetano Veloso e Gilberto Gil, fautori, a tal proposito, per quel che riguarda la musica. E dopo Luigi Pirandello, stravolto con meno impeto e stravaganza, l’Associazione teatrale pistoiese prosegue il tema dei riadattamenti ospitando, nella sua prestigiosa succursale, sfruttata troppo poco, a nostro avviso, il piccolo Teatro Bolognini, La bisbetica domata, di William Shakespeare. La rappresentazione arriva dopo tre repliche mattutine effettuate dalla Factory Compagnia Transadriatica per gli studenti del corso secondario d’istruzione e le voci scolastiche, che la precedono con enfasi, esercitano il loro benefico effetto, visto e considerato che il Teatro è finalmente pieno. Dopo secoli e secoli di riadattamenti, anche Shakespeare, probabilmente, si sarà stufato di assistere a piccole derivazioni tematiche delle sue opere e al cospetto di questa, forse, non senza qualche rimbrotto, si sarà anche congratulato.
PRATO. Impossibile parlarne male; difficile, restarne stregati. L’atteggiamento neutrale che esterniamo dopo aver visto il riadattamento goldoniano, prodotto dal Teatro Stabile del Veneto, de Le baruffe chiozzotte, per la regia di Paolo Valerio, si materializza inevitabilmente nel momento delle riaccensioni delle luci del Metastasio di Prato (in replica da stasera a domenica, 10 febbraio). Un’opera eseguita senza alcuna approssimazione, con una gradevolissima libertà scenografica e condotta dall’inizio agli applausi finali con sapienza, musicalità, ordine e tanta disciplina attoriale. E non è certo il chioggiano, slang con il quale conversano i tredici del cast e con un tasso di incomprensibilità altissimo, a indurci in asettiche riflessioni; altrimenti, Emma Dante, dovrebbe stare negli inferi, anziché nell’Olimpo! Ma restiamo a Goldoni, e volentieri. Anche per tessere le lodi, uno a uno, dei protagonisti di questa commedia, che si esaltano singolarmente proprio nella misura in cui il regista riesce a generare quel senso di appartenenza collettiva al progetto.
PISTOIA. Come ci si può riconciliare con il Teatro, qualora, con l’incedere dell’età e dopo aver visto, in parecchie salse, molti dei classici, bilanciati, mestamente, da una parte di quel nuovo che avanza e che fa incazzare, per quanto è brutto e oltretutto presuntuoso? Basta avere la fortuna di imbattersi, come è successo a noi, al Teatro Manzoni di Pistoia (si replica oggi pomeriggio, domenica 3 febbraio, alle 16) in un’opera tra le più rappresentate nel mondo di quel genio di Luigi Pirandello, Così è (se vi pare), ma quella prodotta dal Teatro Stabile di Torino con la regia di Filippo Dini. Subito dopo, si ha voglia di vederne un altro di spettacolo, perché se il Teatro è quello visto in questa occasione, regalatecene ancora, vi preghiamo. Maestoso, divertente, esemplare, incalzante, ironico (non potrebbe essere altrimenti), con due mostri sacri a tirare le fila (Maria Paiato e Filippo Dini), le loro e quelle di tutti gli altri, che si sono goliardicamente ambientati e immersi in questa impeccabile, straordinaria rivisitazione. Di Pirandello e della sua opera, fortunatamente contemplata in ogni ordine e grado in tutti gli Istituti scolastici secondari, non ve ne parliamo, dando per scontato che ognuno di voi, tra chi legge e chi era a Teatro, ne sappia abbastanza per non perdere tempo. Superfluo, potreste obiettare, è anche tessere ancora una volta le lodi di attori che stanno tenendo alto il Teatro.
FIRENZE. Dai presupposti biblici e fino a quando esisterà il mondo, probabilmente, nell’unico regno animale pensante, il genere umano, la donna vivrà un’esistenza subalterna a quella dell’uomo. Non a caso, Tarzan, o Adamo, se preferite, riducono drasticamente secoli di storia e fraintendimenti e scesi nudi, dal letto di fortuna sospeso, nella civiltà, dopo essersi vestiti e incravattati, incarnano tre uomini dei nostri tempi, vittime e carnefici di loro stessi, dei ruoli a loro assegnati e dalla presunzione con la quale, più o meno inconsapevolmente, decidono di difenderli. È questo il distico generazionale, imposto in ogni angolo del mondo e a qualsiasi latitudine morale, intellettuale e religiosa, da cui discendono leggendarie convinzioni così radicate da risultare, oggettivamente, inestirpabili. Massimo Sgorbani, Giampaolo Spinato e Roberto Traverso hanno affidato al poliedrico incantatore Alex Cendron le loro rispettive sfumature che sono diventate, assemblate, Fuck Me(n), spettacolo prodotto dal Festival Mixité e da Dionisi Compagnia Teatrale, ideato da Renata Ciaravino, musicato da Paolo Coletta e con la regia di Carlo Compare, in scena venerdì 1° febbraio al Cantiere Florida di Firenze.
di Alessandra Pagliai
FIRENZE. L'incommensurabile opera I fratelli Karamazov, nella versione teatrale della Compagnia Mauri-Sturno, per la regia e la riduzione di Matteo Tarasco, al Teatro della Pergola di Firenze fino a domenica 3 febbraio (20,45 feriali; 15,45 domenica), è riuscita a metà. I Fratelli Karamazov, testamento di Fëdor Dostoevskij, ultimato pochi mesi prima di morire, da sempre considerato un capolavoro universale, amalgama di conflitti familiari, infelicità e morte, sangue e redenzione, permeato da interrogativi e certezze sull'esistenza di Dio, fin dal primo sguardo fa tremare i polsi. Dostoevskij penetra nelle vene e nel cervello di ciascuno come in quei 21 grammi chiamati anima, lo fa con un tema che non ha limiti di tempo e di spazio: la famiglia. Un padre ruvido, egoista, incapace d'amore, vittima e carnefice, la sua uccisione. Un parricidio per mano di quei fratelli tutti responsabili, ciascuno per un motivo più o meno manifesto, compreso il giovane e buon seminarista Alëša, il più piccolo dei fratelli, timorato di Dio. In quanto cristiano, porta sulle spalle la responsabilità di non aver saputo fermare tanto odio.
PRATO. Anche Luca Cottone, quando gli chiedevano come stesse, lui rispondeva sempre: male, non sono mica scemo. Ma erano altri tempi, qualche generazione fa. Oggi è diverso; è tutto più tremendamente facile, anche se tutto è più maledettamente difficile che succeda, soprattutto la felicità. L’unica cosa che è rimasta la stessa, è il malessere, quello che di vivere a volte si è incontrato e si incontra sempre più frequentemente, quasi tutti i giorni. Soprattutto in rete. Sì, perché questa è la generazione informatica, dislessica, ma telematica e prima o poi, durante la giornata, un salto in piazza lo fanno tutti. E qui, siamo onesti, nani e ballerine, spiantati e cocainomani, intellettuali e cubiste, atleti e claudicanti, sono tutti affratellati da un unico senso di desolazione, che è il malessere; della solitudine. Riccardo Goretti, Stefano Cenci e Lorenzo Colapesce Urciullo, guidati da un ex Omino ad origine controllata, hanno centrato in pieno il nichilismo ossessivo generazionale, mettendo in scena Stanno tutti male, che proprio in questi giorni (fino a domenica 3 febbraio, con due repliche straordinarie) sarà al Fabbrichino di Prato in prima nazionale, a tastare con mano la vis attoriale del teatro contemporaneo.
PRATO. Informazioni a raffica, sparate forse con eccessiva lentezza, con una mitraglietta dagli effetti speciali considerevoli, senza tappo rosso, dunque pericolosa, ma caricata a salve e a parte lo spavento, nessuno, alla fine, resterà ferito a morte. Idea scoppiettante questa Queen Lear, parodia shakespeariana, come il drammaturgo avrebbe gradito, portata in scena al Fabbricone di Prato (anche stasera, alle 19,30 e domani pomeriggio, 27 gennaio), che ha coprodotto (il Metastasio, naturalmente) lo spettacolo con Aparte Soc. Coop e Teatro Carcano. In scena le ideatrici/interpreti/audaci Nina’s Drag Queens (Alessia Calciolari, Gianluca Di Lauro, Sax Nicosia, Lorenzo Piccolo e Ulisse Romanò), vallette mute, l’estate scorsa, alla presentazione ufficiale della stagione del Metastasio, che si sono prese ogni licenza possibile e immaginabile. L’autore, William Shakespeare, tratto alla bisogna da Claire Dowie, non avrà probabilmente nulla da dire di questa sfiziosa rilettura;
FIRENZE. L’esistenzialismo, se non amletico, ma almeno quello brechtiano, non gli si addice moltissimo. Alessandro Riccio, infaticabile trasformista, dopo aver inanellato incredibili ma meritatissimi successi, che sono quelli che gli impongono lo straordinario di un replica non contemplata sabato 26 gennaio, alle 18, sempre al Teatro di Rifredi, dove si esibirà da stasera fino a domenica pomeriggio 27 gennaio in Serrature, si è voluto maldestramente sgrezzare, perdendo, a nostro avviso, quella carica umana, pittoresca, simbolica e fumettistica che lo contraddistingue. I tutto esaurito che si sono registrati non appena si è aperta l’asta delle vendite dei tagliandi della rappresentazione dimostrano, insindacabilmente, l’affettuosa stima che in particolare il pubblico fiorentino gli tributa da parecchie stagioni, un’affezione quasi da stadio che non richiama nei teatri dove vanno in scena i suoi spettacoli solo e soltanto gli ultrà, lo zoccolo duro dei suoi fan, ma anche e soprattutto i parenti, i conoscenti, gli affini e i curiosi degli irriducibili, che riempiono gli stadi in tutti i loro anelli, non solo in Curva.
PISTOIA. La longevità dei tormenti generazionali delle scritture di Anton Cechov sono stati sui palcoscenici di tutto il mondo e se dipendesse da Marco Sciaccaluga, regista di questa prima edizione de Il gabbiano ante censura zarista, tradotta da Danilo Macrì, prodotta dal Teatro Nazionale di Genova e in scena, oggi come ultima replica, 20 gennaio, alle 16, al Teatro Manzoni di Pistoia, ci resterebbero a lungo. La bravura, indiscriminata, trasversale, totale di tutti e undici i protagonisti addolcisce, da una parte, alzando il tono delle recriminazioni da un’altra, l’oggetto di questa riflessione. Solo uno stolto, ma incallito, eh, e per giunta presuntuoso (come lo sono gli idioti per antonomasia, del resto) stenterebbe a eleggere Cechov come uno dei momenti più importanti della drammaturgia mondiale di tutti i tempi, anche di quelli che verranno e che noi non potremo conoscere, ma in questo momento di passaggio teatrale generazionale, i vecchi classici da una parte, i giovani rampanti dall’altra, c’è urgente bisogno di un collant che non disperda il passato, lo conservi e lo sappia riciclare.
FIRENZE. Una cosa è certa: Suor Lidia - Madre Generale, come ci hanno nostalgicamente specificato al telefono -, era ‘na stronza. Detto questo, però, e conclamato dalle confessioni/ricordo di buona parte degli alunni di quel corso delle scuole elementari nel lustro 1983-88 all’Istituto Suore di Carità di Roma, in via di Monte del Gallo, quartiere Aurelio, dietro San Pietro, zone da ricchi, eh, La classe, lo spettacolo di Fabiana Iacozzilli, senza la gratuita, cinica, sadica cattiveria di quella maestra, non sarebbe mai nato. E invece, dopo aver fatto incetta di premi, la rappresentazione, tra pupi e drammaturgia, artigianato e designer, linguaggio e documentario, è arrivata al Cantiere Florida, a Firenze, richiamando nell’alcova di via Pisana buona parte degli addetti ai lavori, incuriositi. E sulla bontà manifatturiera del lavoro, il giudizio finale, da parte di tutti, ancor più granitico dell’odio e del rancore riservato a quella suoraccia da parte dei suoi ex scolari almeno del corso 1983-88, è plebiscitario: bello, costruito meravigliosamente, con tecnica e professionalità, pittorico. Un felicissimo intrattenimento trasversale, che secondo canoni dimenticati da noi grandi, potrebbe addirittura affascinare i piccoli, casomai suggerendo loro di ribellarsi, qualora la situazione sul palco richiami in qualche modo quella che potrebbero vivere e subire loro.
FIRENZE. È Maria Amelia Monti nei panni di Miss Marple, o il contrario? Quando siamo usciti dalla Pergola di Firenze al termine dello spettacolo, a questa domanda, che ci siamo posti appena la regina delle trasformazioni minori è apparsa sul palcoscenico, non abbiamo saputo rispondere. E nemmeno ora, che ve ne raccomandiamo la visione (si replica stasera e domani alle 20,45 e domenica 20 gennaio, alle 15,45), il dubbio, si è svelato. E non sono i costumi di Alessandro Lai, che la trasformano in un’allegra zitella inglese che si preoccupa di sferruzzare a maglia per il nipote che la mantiene, curare il giardino e combattere, strategicamente, le talpe, a confonderci le idee. Perché così ce la ricordiamo, dai tempi televisivi di Drive In e della Tivvù delle ragazze e così è rimasta, nonostante un’interminabile partecipazione a fiction televisive, un matrimonio che non offre il fianco al pettegolezzo e tre figli, di cui uno adottivo, nato in Africa. Miss Marple, giochi di prestigio, beninteso, non è soltanto Maria Amelia Monti; il resto della compagnia teatrale di questo testo di Agata Christie, riadattato da Edoardo Erba, per la regia di Pierpaolo Sepe e ingiallito da Roberto Citran, Sabrina Scuccimarra, Sebastiano Bottari, Marco Celli, Giulia De Luca, Stefano Guerrieri e Laura Serena, potrebbe giustamente indispettirsi, ma sono tutti consapevoli che questo divertente noir, sprovvisto dell’allegro cinismo di Maria Amelia Monti, pardon, Miss Marple, renderebbe diversamente.
PRATO. A Iole (la moglie, che lo sopporta, ma questo lo aggiungiamo noi) e a Andrea Camilleri, suo primo grande maestro. E a tutti noi, che ieri sera, al Magnolfi di Prato, abbiamo assistito al monologo/reading di Massimiliano Civica, Scampoli. Che almeno noi, non abbiamo capito di cosa si sia trattato, ma è stato oggettivamente piacevole; dunque, benvenuto. Sarebbe potuta essere una lezione di teatro, perché no; il 45enne regista reatino, che ha inanellato svariati Premi Ubu nel corso della sua folgorante carriera, ha titoli e curricula per farlo. Ma non è il caso di questa sera. Allora si è trattato di un ripasso aneddotico dei suoi innumerevoli contatti, reali, e non su facebook, che hanno allietato, illuminato e divertito i presenti. Nemmeno, siamo ancora lontani. Ma allora? Non lo sappiamo, ma se lo rifacesse, torneremmo a sentirlo, casomai in compagnia di Tommaso Chimenti Bencini, unico citato (sarà un onere o un onore, tra la selva di critici teatrali?), facendo sapere agli altri, al termine della serata, di essere suoi amici. La lectio magistralis ha debuttato con la dedica, speciale, a sua moglie Iole (nell’augurio che non si scriva con la J), che gli ha raccomandato di non esordire come poi ha fatto, citando il Pontefice.
FUCECCHIO (FI). Abbiamo tra le mani una grande occasione: sarà meglio, per tutti, che non ce la si lasci sfuggire. L’esodo, biblico anche per laici incalliti come noi, che stiamo vivendo, sopportando, soffrendo, sfruttando deve per forza di cose migliorarci; sbagliare, anche solo valutazioni, potrebbe essere letale. È il lungo sottotitolo che abbiamo voluto dare a Lampedusa, del britannico Anders Lustgarten, prodotto da Bam Teatro, Artisti Associati e Mittelfest 2017, tradotto da Elena Battista, diretto da Gianpiero Borgia e rappresentato, ieri sera, al nuovo teatro Pacini di Fucecchio, da Stefano (Fabio Troiano), pescatore di Lampedusa che raccoglie cadaveri nel Mediterraneo e Denise (Donatella Finocchiaro), immigrata di seconda generazione, marocchina, che vive e studia in Brianza, dove lavora, agognando un posto alle Nazioni Unite, come agente addetta alle riscossioni di prestiti: bravi, bravissimi, con trasporto e distacco, cinismo e calore, terrore e speranza.
FIRENZE. Non è affatto peregrino che dalle parti di Coverciano, in una di quelle ville sontuose ma demodé nascoste da una fitta e minacciosa vegetazione, esistano ancora Teresa, Carolina e Giselda, tre anziane sorelle (due zitelle e una ripudiata) e la loro governante, Niobe, anch’essa nubile, ma per causa di forza maggiore, che si portano addosso la decaduta nobiltà di un casato, quello dei Materassi, che sopravvive, a stento, nella memoria dei più vecchi e sugli annali conservati alla Marucelliana. E poi, gli addobbi e i presepi sono ancora nelle strade, nelle case, nei negozi e in ognuno di noi, che vorrebbe forse prolungare a dismisura la posticcia allegria natalizia per rimandare, il più possibile, il ritorno alla traumatica quotidianità. Questo è il mix che ha suggerito alla direzione artistica della Pergola di Firenze di riprendere la stagione, con l’inizio del nuovo anno, con una commedia antica e intramontabile, entrata nell’immaginario collettivo a partire dai libri di testo delle scuole elementari, di sicura presa, Sorelle Materassi, appunto (si replica stasera e domani, domenica 6 gennaio), l’opera migliore, forse, di un sopravvalutato Aldo Palazzeschi, affidata, in compenso, a un drammaturgo storico, Ugo Chiti, a un regista apprezzato come Geppy Geijeses e a un cast che bazzica i palcoscenici da una vita: Milena Vukotic, Lucia Poli e Marilù Prati.
FIRENZE. Non sapete cosa cucinare per il cenone di fine anno? Beh, vi consigliamo di assoldare, nelle vostre cucine, il quartetto spagnolo di Yllana; dubitiamo, e molto, che vi preparino qualcosa di delizioso, ma statene certi: se lasciate a Susanna Cortés, Antonio De La Fuente, César Maroto e Rubén Hernàndez carta bianca con licenza di mettere a soqquadro la vostra abitazione, sicuramente vi divertirete. E parecchio. Se non convincono le nostre lusinghe, rivolgetevi pure agli spettatori che hanno riempito il Teatro di Rifredi venerdì e sabato sera, o chiedetelo a quelli che lo riempiranno oggi, alle 16,30 e domani, alle 22, un insolito inizio per finire intorno all’ora del brindisi e fatevi raccontare da loro cosa succede nell’ora e mezzo nella quale i quattro improbabilissimi camerieri spagnoli con spiccate qualità culinarie si dilettano in Chefs. L’ironia ai nuovi mostri sacri della cucina internazionale, fomentati da dirette televisive e programmi a eliminazione impietosa e diretta per cuochi d’alto bordo è spietata; ma non pensate che sia la denuncia il piatto forte della rappresentazione.
PRATO. Le cose serie, spesso letali, sono alle spalle e, quando si può ancora progettare, nel futuro, oltre le sbarre. Durante, è solo tempo fine a se stesso, che deve trascorrere, senza senso. E senza fare buonismo demagogico, è pure giusto così; anzi, spesso, è quasi troppo. Sarebbe infatti interessante radiografare l’intimità di Robert Da Ponte, uno dei detenuti del carcere La Dogaia di Prato che ha avuto la disdetta/fortuna di incontrare, durante la sua domiciliazione coatta, Livia Gionfrida, con la quale ha diviso e condiviso uno dei tanti progetti artistici di Teatro Metropopolare. Perché prima di parlare di Teatro e della sua performance Talking crap, al Magnolfi di Prato, bisognerebbe, per doveri cronologici e di giustizia, fare un passo indietro. Ma non è questa la sede. Qui, si racconta il narrabile e nello specifico, sono fesserie, quelle che riescono a tenere in vita, per svariati motivi, un sacco di gente: Robert Da Ponte e i suoi colleghi detenuti, prima di tutti, ma anche la regista Livia Gionfrida e lo staff di Teatro Metropopolare, come Giulia Aiazzi, Paolo Gruni, Michele Percopo, Marco Cecchi, Alice Mangano e Laura Meffe,
FIRENZE. Tra Natale e San Silvestro non si potevano certo chiedere al pubblico fiorentino della Pergola (lo spettacolo sarà replicato fino al prossimo 2 gennaio) sforzi emotivi in grado di mettere in discussione la festosa vacuità di fine anno. Per chiudere al meglio questo 2018 occorreva portare in scena qualcosa che suscitasse soprattutto buonumore ma, perché no, suggerisse anche qualche riflessione, che a una certa età, soprattutto alla metà meno nobile, qualche volta balena rabbiosamente. E allora, cosa ci poteva essere di meglio che allestire A testa in giù, di Florian Zeller, per la regia di Gioele Dix, una divertente, beffarda, tragicomica cena in casa di Daniel (Emilio Solfrizzi) e sua moglie Isabelle (Paola Minaccioni) a cui fanno visita il vecchio amico Patrick (Bruno Armando) e la sua nuova, giovanissima, esplosiva compagna, Emma (Viviana Altieri, la woman in red de no'antri). All’effervescente testo, che recita, nel suo titolo originale, L’enverse du décor (Dietro le quinte), i quattro mattatori aggiungono sapientemente tutto il sale e il pepe della nuova commedia francese,
PRATO. Claustrofobico, dall’inizio alla fine, senza speranza. A poco e nulla serve l’improvvisa visita dell’amico/amante adolescenziale, l’arrivo della figlia e del genero detestato e la degna sepoltura del cane ammazzato a fucilate dal vicino. La famiglia matriarcale (il padre non è contemplato: è morto, probabilmente, o non è mai esistito) norvegese fotografata e condannata a vivere nel salone della casa con un’unica fonte di luce e contatto con il mondo rappresentata dal proiettore 5.000watt/ finestra è il prototipo ideale e disumano di globalizzazione che l’autore, Jon Fosse, un genio contemporaneo della drammaturgia, ha voluto offrire, con il suo Cani morti, nudo e crudo, dislessico, disgiunto e disarcionato, al teatro, affinché quest’ultimo se ne impossessasse per riciclarlo, così com’è nato, al pubblico. E il giovanissimo regista neodiplomato alla Silvio D’amico, Carmelo Alù, seppur figlio legittimo del beckettiano Massimiliano Civica, ha capito letteralmente, più che perfettamente, la lezione,
PRATO. Così come molti nostri trisavoli hanno avuto il diritto di provare, emigrando in cerca di dignità, più che di fortuna, a cancellare le loro irriconoscenti origini, noi, eredi decisamente più fortunati dei nostri nonni, abbiamo il dovere di andarle a ricercare. È questo, riassunto frettolosamente, il lavoro che sta svolgendo, da qualche tempo, la regista, attrice e drammaturga francese Clyde Chabot, della Compagnia transalpina Commanauté inavoauble, che oggi pomeriggio, domenica 16 dicembre, al Fabbrichino di Prato, offrirà la sua ultima replica di Sicilia, uno sguardo appunto, frutto di ricerche, testimonianze, viaggi, fotografie, tentativi, di provare a ricostruire il proprio albero genealogico, che affonda le radici in Sicilia, tra Agrigento e un paesino del quale si sono perse le tracce toponomastiche e affettive. Per riconciliarsi con le proprie origini, Clyde Chabot, nel suo spettacolo, prodotto proprio dal Metastasio, ha deciso di ricordare a voce alta, per raccontarlo, il proprio viaggio a ritroso ospitando gli spettatori intorno a una lunga tavola bandita di soli bicchieri, bottiglie di Nero d’Avola, pane, pecorino pepato (tre elementi della cultura gastronomica sicula fortunatamente conservati)
FIRENZE. Come potrebbe immunizzarsi, Alan Ford, dalla corruzione, dalla cupidigia, da qualsiasi forma di immoralità, dai deliri di onnipotenza, dall’arsura di denaro, potere, successo, fama, sesso incestuoso, dal brutto che tende a impossessarsi delle sue volontà? Dovrebbe decidersi di diventare come Vindice e spendere l’esistenza intera a ordire vendetta trasformandosi in uno spietato e sadico serial killer, o potrebbe optare per una rieducazione dei sensi alla bellezza, per esempio andando a teatro. Se il bello del gruppo TNT dovesse accettare il consiglio e coinvolgervi, a proposito di rieducazione all’armonia con una massiccia dose di provocazione, non perdetevi, lui e loro (stasera e domani pomeriggio, 16 dicembre, alla Pergola, a Firenze), La tragedia del vendicatore, di Thomas Middleton, nella versione di Stefano Massini, con la regia e la drammaturgia di Declan Donnellan. Che è una cascata trash e pulp delle migliori memorie e occasioni cinematografiche, dove non si risparmia un atomo di spregiudicatezza, sadismo, cinismo, sangue, infamia, violenza esasperata, trivialità allo stato puro;
di Paolo Ferro
PRATO. Prato otto dicembre duemiladiciotto stop Teatro Metastasio stop grande spettacolo Maestro e Margherita stop previsti giochi magia stop. Potrebbe essere questo l’incipit. Ma potrebbero essere migliaia e tutti diversi i resoconti di quanto visto ieri sera sul palco del Metastasio pratese, ognuno attinente all’idea che ci siamo fatti quando abbiamo letto per la prima volta l’insuperabile romanzo di Bulgakov. Ogni lettore, nel suo intimo, avrà sempre il desiderio di vedere rappresentate le proprie fantasie e le proprie versioni delle incredibili storie intrecciate fra loro e degli impossibili caratteri dei personaggi. Quella proposta ieri sera da Letizia Russo e dal regista Andrea Baracco è solo una (a dirla tutta, piuttosto interessante) delle possibilità di risolvere l’enigma della trasposizione, dal libro alla scena, delle pirotecniche vicende di questa meravigliosa opera.
FIRENZE. Al di là e oltre la genialità del testo, con Leonardo da Vinci, sottotitolato L’opera nascosta, Michele Santeramo oltrepassa, anche fisicamente, la frontiera, prendendosi lo scettro del Centro per la sperimentazione e la ricerca teatrale. Lo spettacolo – perché di spettacolo si tratta, in tutti i sensi –, prodotto dalla Fondazione Teatro della Toscana, che verrà replicato stasera, 9 dicembre, alle 19, alle ex scuderie granducali nel piazzale delle Cascine, a Firenze, è un meraviglioso compendio affabulatorio tra immaginazione, ingegno, novellistica e surrealtà, così lucida, quest’ultima, che si ha davvero l’impressione di averne già sentito parlare delle storie dell’imparagonabile pittore, ingegnere, scienziato, architetto, scultore, disegnatore, scenografo, musicista e inventore di Anchiano che per sbarcare il lunario, nonostante la sua sconfinata magniloquenza, fosse costretto a soddisfare le mire di dominio del Duca e fabbricare, per lui, armi potentissime. Ma questo, voi, lo sapevate già; dunque, non ha senso che ve ne parliamo. Ci preme invece raccontarvi cosa Michele Santeramo abbia scoperto avvicinandosi alla storia di quel gran genio del suo amico, Leonardo appunto, da Vinci, incontrato, lo scorso anno al Louvre, confuso tra le migliaia di ammiratori della sua Gioconda.
FIRENZE. È consigliato che portiate i vostri bambini a vederlo, Popcorn. Perché è un modo, efficacissimo, per come disboscare la vegetazione della meraviglia dagli effetti speciali e riconsegnarla a quella naturale prodotta dall’abilità umana, che si materializza con enormi sacrifici e applicazioni, senza dover mai ricorrere al supporto della finzione. E visto che ci siete anche voi grandi, a teatro (a Rifredi, stasera e domani pomeriggio, 9 dicembre), approfittatene, perché clown della portata di Jean-Baptiste Diot e Jonathan Lardillier, in giro, non ce ne sono poi moltissimi. Con loro, sul palcoscenico, a parte qualche parallelepipedo di compensato, piccole abat-jour da scrivania e uno stereo dal quale, durante la rappresentazione, escono melodie rap e funk, Denis Paumier, il regista, ha anche messo quindici anelli rossi, diciassette palle bianche e sette birilli, dai cromatismi circensi.
PISTOIA. Chi meglio di Alessandro Haber può incarnare la figura di un anziano ex ingegnere che nel bel mezzo della sua tenera e meritata pensione inizi a dare insoliti e preoccupanti cenni del morbo di Alzheimer? Per Piero Maccarinelli, traduttore, adattatore e regista de Il padre, testo di Florian Zeller, nessun altro e così, da tre stagioni, il toccante tragicomico racconto dell’incedere di questa malattia tentacolare lo ha eletto testimone, con una rappresentazione degna di un Teatro di tutto rispetto, dell’Associazione italiana malattia di Alzheimer (Aima) che a fine spettacolo, nel foyer dei vari teatri nei quali va in scena (oggi, 2 dicembre, è al Manzoni di Pistoia per la terza e ultima replica), raccoglie fondi e distribuisce depliant informativi. Ma siamo e stiamo qui per raccontarvi teatro e allora, al di là della silenziosa insidia che si insinua in tutte le sue designate vittime, scelte per altro a caso, senza alcun criterio, ci facciamo a nostra volta megafono di questo spettacolo e ve ne consigliamo la visione, perché l’anziano Alessandro Haber (71 anni) si sublima veramente in questo tenero, fastidioso, commovente e irritante ruolo,
PISTOIA. I singhiozzi e le lacrime, impossibili da nascondere, di fine rappresentazione, riassumono probabilmente lo stato d’animo di tutti i protagonisti di Nora, e non solo di Tania Ferri, che piangeva a dirotto, a cui la regista Dora Donarelli ha deciso di affidare il ruolo della frustrata mattatrice. Perché Casa di bambola, di Henrik Ibsen, dramma introspettivo che affida ai protagonisti non solo e non tanto la partitura dei testi, quanto l’espressività, muta, dei rispettivi stati d’animo, non è certo un’opera facilmente traghettabile su un palcoscenico. Il benestante e viscido Torvald Helmer (Pino Capozza), infatti, si svela in tutta la sua meschinità solo un attimo prima del tragicomico epilogo; Nilse Krogstad (Marino Filippo Arrigoni), suo compagno di studi, a cui la vita ha decisamente riservato sorte meno benevola, riesce parzialmente a riabilitarsi solo dopo aver paventato e sfiorato il secondo e forse letale tracollo esistenziale; il dottor Rank (Riccardo Baldini), il medico di famiglia, quello di casa Helmer, confida all’amica Nora tutta la sua incondizionata e inconfessata passione solo in punto di morte, così come Cristina Linde (Simona Calvani), la vecchia amica ritrovata di Nora, che solo in prossimità dell’epilogo offre tutta la sua aggressività.
FIRENZE. La fila di liceali che hanno atteso, dopo lo spettacolo, in strada, fuori dai camerini della Pergola di Firenze, due dei tre protagonisti (facile immaginare di chi si sia trattato: basta guardare le foto di scena) di After miss Julie, è l’ennesima riprova di quanto la popolarità, esentetatro, influisca mostruosamente sul numero degli spettatori in platea. Premessa doverosa che non inficia, e non ha la minima intenzione di volerlo fare, la dimestichezza scenica con la quale Gabriella Pession (Giulia), figlia di nobili milanesi condannata a un’esistenza circoscritta nell’alta società, decida di ribellarsi al proprio rango provocando e circuendo il sottoposto Lino Guanciale (Gianni), l’autista del padre, ufficiosamente (non hanno l’anello, non è ufficiale) fidanzato con Roberta Lidia De Stefano (Cristina), cuoca della famiglia. Giampiero Solari, il regista dello spettacolo di Patrick Marber, prodotto dal Teatro Franco Parenti con il sostegno del Mibac di Milano, ha voluto trasportare temporalmente lo scandalo di Corte svedese di fine ‘800 all’indomani della Liberazione in Italia dalle truppe nazifasciste.
FIRENZE. La smaterializzazione ha radici profonde, che arrivano fino alla mitologia. Oggi, chi crede di compiere un gesto nuovo immortalando l’immagine di se stesso dietro la sollecitazione dell’io che vorrebbe essere ma che non lo potrà mai, è soltanto un fedele soldatino di quello che è stato sentenziato, scritto e amorevolmente imposto nei secoli. Perché per piacersi veramente occorrerebbe lavorare, duramente, sulla nostra esistenza, che invece si realizza più facilmente e velocemente nelle apparenze, che diventano l’universale biglietto da visita con il quale credere di circumnavigare la Terra restando, goffamente, nel solito posto. L’illusione è altissima; il prezzo che si paga ancor più salato. Marta Bevilacqua e Leonardo Diana hanno preziosamente riassunto la spersonalizzazione millenaria dell’uomo con Narciso_Io, spettacolo del quale sono artefici totali, grazie anche alle luci di Fausto Bonvini, i costumi di Lucia Castellana e alla coproduzione di Compagnia Arearea e Versiliadanza, senza dimenticare il sostegno di Mibac Regione Toscana e e il Sistema regionale dello spettacolo.
FIRENZE. Quasi irritante, per passione, precisione, perfezione, immedesimazione, nonostante quel Teatro, il suo Teatro, stia ormai inesorabilmente tirando le cuoia, lui, il debuttante Gabriele Lavia, alla milionesima rappresentazione di se stesso catapultato su un palcoscenico, tira fuori dal suo cilindro senza fondo un’altra perla spaventosa e impone al popolo della Pergola di Firenze un naturale e unisono stand up, con le mani a battere fragorosamente e ritmicamente un grazie lungo più di cinquant’anni. La moglie e la cognata (Laura Marinoni e Federica Di Martino) di John Gabriel Borkman riescono magnificamente a stargli accanto, rintuzzando istericamente le sue ossessioni d’onnipotenza e rinfacciandogli, con materno erotismo, il cinismo con il quale ha barattato la sua passione per la carriera; così come il figlio Francesco Sferrazza Papa, la sua compagna occasionale per giustificare la fuga dal grigiore infernale della casa, Giorgia Salari, l’amico fallito, ma non recluso nelle patrie galere, Roberto Alinghieri e sua figlia Roxana Doran, che si unirà alla fuga degli eredi senza portafogli e dunque irriconoscenti.
PISTOIA. Come sovente accade, anche in questa circostanza, al termine dello spettacolo, Virgilio Sieni, invitato da Saverio Barsanti, direttore artistico del Teatro Manzoni di Pistoia, che ha ospitato il balletto, ha spiegato agli spettatori, con dettagli storici e professionali, cosa sia stato il suo Petruska. Il messaggio, altrimenti – è giusto che il creatore esiga coscienza e consapevolezza -, arriva deformato, confidando, per la comprensione, unicamente nell’oggettiva osservazione della bellezza delle specifiche emotività di ogni singolo osservatore. Che può capire molto – ieri, il Teatro, pullulava di aspiranti danzatrici, maestre di scuola di ballo, appassionati ai quali non si può spacciare per arte il semplice movimento -, molto poco, alcune volte addirittura più di quanto si dovrebbe; altre meno, sotto la soglia della comprensione più elementare. Ma con la danza, affidata poi a danzattori del calibro del sestetto che ha animato la doppia rappresentazione (Jari Boldrini, Ramona Caia, Claudia Caldarano, Maurizio Giunti, Giulia Mureddu e Andrea Palumbo), si percorre un sentiero probabilmente unico, assimilabile alla pittura e alla scultura, che esula da qualsiasi altro contesto artistico.
PRATO. Chissà, a tournée terminata, dopo aver solcato l’Europa da Ovest a Est, cosa peserà di più, sulla bilancia dei contrappesi, se gli appalusi o i fischi. Certamente, Katie Mitchell e Alice Birch, regista e adattatrice di questa ulteriore trasposizione del romanzo di Marguerite Duras, La maladie de la mort, si fregano allegramente le mani, perché bene o male, per la gioia evangelica di San Pietro e quella laica di Napoleone, di questo traghettamento teatrale se ne sta parlando, e scrivendo, in abbondanza. Pensando a quello che abbiamo ricevuto, l’altra sera, al Fabbricone di Prato (si replica fino a venerdì 23 novembre, ore 20,45), crediamo di poterci porre, in elastica equidistanza, tanto dai fautori che dai detrattori. Lo schermo che sovrasta la scena è un privilegio cinematografico che riduce sensibilmente i decibel teatrali, difesi con onore, comunque, dai due protagonisti, Laetizia Dosch e Nick Fletcher, che parlano, seppur con il contagocce, in francese e traghettati con un filo di poetica seduzione fino alla comprensione immediata, senza letture, dalla cronista Jasmine Trinca, che ricorda, ai più attempati, la signora Longari il giovedì sera ai Telequiz.
PISTOIA. Nel corpo di Charlie Chaplin (Serena Balivo) vive un uomo che ha la voce di Fracchia, una delle più nobili e tragiche sagome della genialità di Paolo Villaggio. Mariano Dammacco, presidente dell’omonima piccola compagnia, di Esilio, firma la regia negli abiti di un cronista nel giorno dell'elezione di miss drag queen, più che in quella dell'inviato alla resa dei conti nelle volte celestiali. Racconto checoviano, quello descritto l’altra sera al Funaro di Pistoia, dove l’uomo senza tempo ed età può tranquillamente essere iscritto, di diritto, nella lista de I miserabili, pur senza possedere la geniale invettiva di Jean Valjeant, né la disperazione dei suoi amici, capaci di armarsi e fare la Rivoluzione. Perché l’esule (forzoso) di turno è un uomo al quale, improvvisamente, gli viene sottratta, sotto i piedi, la dignità, prima e più che la terra. E in un battibaleno, quest’uomo senza lavoro, senza presente, figuriamoci un futuro, senza il diritto di sognare, senza diritti, viene scaraventato nel limbo, nella terra di nessuno, dove riesce a sopravvivere grazie soltanto ai riverberi cittadini che gli arrivano via internet dalle piattaforme sociali e a un binocolo che ha saputo custodire prima di perdere tutto.
PRATO. Non è il teatro che desideriamo vedere: aulico, sontuoso, inappuntabile, perfetto; lo diciamo subito, perché abbiamo il terrore che, parlando poi, indispensabilmente, della bravura, ricchezza e magniloquenza de I miserabili, ci se ne scordi. Ma davanti a Franco Branciaroli, il Diabolik transalpino, il Marlon Brando della Madonnina, l’eroticissimo dotto di Tinto Brass, togliamoci il cappello e alziamoci dalla poltrona: straordinario, seppur professionalmente distante. Così come lascia ben sperare il nugolo di giovani e giovanissimi che calca la scena al suo fianco al Metastasio di Prato (si replica stasera, sabato 17 novembre, alle 19,30 e domani pomeriggio) in questa riproposizione del capolavoro di Victor Hugo (che assolse la Chiesa dalle tragiche e cruente responsabilità autoritarie), che più che entrare nella memoria della letteratura, acquista, con tragica lungimiranza, l’equilibrio dell’attualità, catapultando i suoi miserabili due secoli avanti.
FIRENZE. Anche la balbuzie, affatto strategica, abbinata a sagome e deambulazioni modeste, seppur fiere, ha reso perfettamente l’idea. Sì, Ljuba e Gaev, la leggendaria coppia checoviana, somigliano davvero a Giuliano e Annalisa Bianchi, i coniugi bolognesi che nel novembre del 2015, per esigenze della F.I.Co (Fabbrica italiana contadina), dovettero abbandonare per sempre il loro casolare, dove abitavano da trent’anni in comodato d’uso e andare a riparare in un residence di sfollati. Peccato che alla felice intuizione, Nicola Borghesi, regista e forzoso mattatore de Il giardino dei ciliegi, in scena al Niccolini di Firenze, non abbia saputo abbinare un’adeguata struttura teatrale, peccando, soprattutto, della sindrome dell’invincibilità, andando in più di una circostanza oltre lo scibile, il comprensibile e il sopportabile. Peccato, perché anche il presupposto - la funzionale scaramanzia di lasciare nel cassetto della scena il vecchio orologio (il tempo) e il monile (l’oro) -, sembravano poter essere due aspetti sui quali credevamo che il copione avrebbe poi ribattuto il ferro.
PISTOIA. Solo un attore frustrato, a cui da tempo nessun regista offre un copione o una collega invidiosa, per talento e bellezza, non si inchina alla magistrale interpretazione di Monica Guerritore nella sua riproposizione, dieci anni dopo, di Giovanna D’Arco, che ha ufficialmente aperto, questo fine settimana, la stagione del Manzoni. Quarantacinque minuti di energia pura, padronanza scenica, movenze, pause, sussurri e grida, su un corpo che di invecchiare non ne vuol sapere, con alle spalle una scenografia che vuole decontestualizzare l’eroina francese e consegnarla alle storie delle ingiustizie, passando in sequenza, sul fondo del palco, le immagini di Martin Luther King e le didascalie di Giordano Bruno, con Show must go on, ultimo brano dei Queen con Freddy Mercury e quella meraviglia di Adagio for Strings, di Samuel Barber, la colonna sonora della disfatta americana in Vietnam che Oliver Stone ci ha consegnato con Platoon.
FIRENZE. Anche ad Amleto, se fosse stato in sala, ieri, al Teatro Mila Pieralli di Scandicci (replica stasera, domenica 11 novembre, ve ne consigliamo il contatto) i dubbi, sarebbero svaniti. Avrebbe forse potuto obbiettare – ci riferiamo sempre a Shakespeare, eh – alcune vie di fuga e atre contestualizzazioni politiche liberamente attinte e perfettamente incastonate in Yorick, ma si sarebbe certamente inchinato all’interpretazione, fisica, magistrale, di Simone Perinelli, regista e drammaturgo di questo spettacolo di Leviedelfool. Che è, soprattutto, un esaltante omaggio alla recitazione, all’immedesimazione, alla trasfigurazione, alla musicalità di un testo che sembra volteggiare in sala alla ricerca di un senso che rimbalza, con ginnica leggerezza, da un angolo all’altro del palcoscenico, cosparso di sementi per i polli e amplificato da alcuni microfoni che pendono, alternativamente, dall’alto, megafoni di dolore e lucida follia, solitudine e rassegnazione.
di Paolo Ferro
PRATO. Come spostando pietre geme ogni giuntura! Riconosco l'amore dal dolore lungo tutto il corpo. È questo il filo conduttore della messa in scena di Valentina Banci al Teatro Borsi di Prato. Un amore doloroso, quello di Marina Cvetaeva, protagonista della storia, per i figli, per la poesia di cui non può fare a meno, nemmeno quando la fame e il freddo ti danno i morsi più feroci. Valentina attinge a piene mani dagli scritti amari e strazianti della poetessa russa, mescolando con sapienza l’ingrediente della fatica di vivere con quello della cronologia del suo obbligato peregrinare per l’Europa, con voci fuoricampo, strappate e sfinite, e con abili similitudini alla marionetta-attrice, in cui si scorgono persino umori di Gordon Craig. La maestria dei registri usati, tuttavia, non basta a rendere più mite la sofferenza anche dello spettatore, rendendogli difficile l’entrata nel tema.
PRATO. La bravura si vede, si tocca e, come spesso accade, si allea ad altre bravure, diventa un’orgia di bravure. Nel mondo della musica è successo con gli Special Efx, con gli Yellow Jackets, con la Mahavisnue Orchestra, con i Water Report. E ieri sera è capitata la stessa cosa: l’indimenticabile sensazione che ricevemmo e godemmo ai concerti al Palasport di Roma, a Umbria Jazz, a Montreaux, è quella che abbiamo nitidamente avvertito al Fabbricone di Prato (ribadiscono stasera, ore 19,30 e domani pomeriggio, 11 novembre), come spettatori di Quasi niente, un laborioso, articolato, letale lavoro sociale/introspettivo di Daria Deflorian (parla troppo, veramente, ma è una fortuna ascoltarla) e Antonio Tagliarini (parla poco, ma mai a sproposito) che, folgorati, ma non solo, crediamo e ci auguriamo, da Deserto rosso di Michelangelo Antonioni, ne hanno voluto ritessere le fila senza limitare lo sguardo a Giuliana e al suo inutile amante Corrado, ma esplodendo e implodendo attorno alla figura, magistrale ed enigmatica, di Monica Vitti, l’universo del terzo millennio. Un lavoro corale, obliquo, generazionale, con, oltre ai due ideatori, una trentenne (Francesca Cuttica, diaframma portentoso, seppur impegnata in motivi gaberiani), un quarantenne (Benno Steinegger, armonico e delizioso, potente e gentile) e uno degli incidenti più belli del teatro contemporaneo, quella meravigliosa, straordinaria figura policroma e multiforme che risponde a Monica Piseddu.
di Paolo Ferro
PRATO. Ma allora dove sta il teatro? È questa la domanda dello spettatore curioso, quando le luci del restaurato Teatro Borsi di Prato si sono spente, venerdì e sabato scorsi, dopo L’amara sorte del servo Gigi, lo spiazzante prologo dell’attore Claudio Morganti e rimane il suono sconnesso dei tacchi sulla scena. Prendiamo un famoso testo di un altrettanto famoso drammaturgo del ‘900: cambiamo ogni parola, ogni didascalia e vediamo se riusciamo, ciononostante, ad acchiappare dei momenti di teatro. Ci aveva avvertito: questo è un esperimento sulla drammaturgia, una messa in scena sulla maschera della vecchiaia. Bastano pochi passi al buio, invece, per capire che siamo fregati. Irrimediabilmente. L’attore è sparito. Al suo posto un vecchio, stanco, sfibrato. Egli non è l’immagine della vecchiaia, carica di esperienza, che ci apre gli occhi sul presente e ci aiuta a intuire il futuro.
FIRENZE. Siamo convinti che Bella figura non sia uno dei testi più robusti della poliedrica produzione della parigina Yasmina Reza; né che questa scrittura, commissionata appositamente al teatro, diretto da Thomas Osthermeier, sia una di quelle che le ha arrecato le maggiori fortune. Ma in scena, alla Pergola di Firenze (fino a domenica prossima, 4 novembre), per la regia di Roberto Andò, prodotto, in successione, dal teatro berlinese Schaubuhne e poi dalla compagnia Ipocriti Melina Balsamo, l’inevitabile disguido che si materializza nel ristorante dove il giovane sfortunato imprenditore Boris (David Sebasti), in compagnia dell’avvenente farmacista Andrea (Lucia Mascino), sua amante da quattro anni, incontrano il vincente e razionale funzionario Eric (Paolo Calabresi), accompagnato dalla svampita madre Yvonne (Simona Marchini) e dall’intransigente moglie Francoise (Anna Foglietta), supera a pieni voti, alcuni con lode, il concorso dell’intrattenimento.
PISTOIA. È un giallo, uno spettacolo introspettivo, o un’idea alla quale gli autori stessi non hanno saputo dare una risposta tanto che al termine della rappresentazione si stenta a capire dove volessero andare a parare? Oh certo, il teatro è anche provocazione, ma nel caso specifico di Goodbye Diabolik, una produzione Atp che di fatto ha aperto la stagione Manzoniana nella succursale del piccolo Bolognini, crediamo che si sia esagerato un po’. Le note dei Dire Straits che aprono il sipario sulla modesta stanza nella quale le sorelle Giussani, milanesi doc, dell’alta società, dettero vita, sessant’anni fa circa, per la sconosciuta casa editrice Astorina, a uno dei fumetti più amati, Diabolik, è un ottimo specchietto per le allodole, che sfuma velocemente, però.
PRATO. Leggetevi il libricino di sala fornito dal Metastasio (è sul bancone alla destra della biglietteria), prima di assistere allo spettacolo, o portatevelo a casa, quando rientrate: non è un consiglio, ma un suggerimento che vi tornerà utile, se ascoltato. Altrimenti, di questo Decamerone 2.0 (in scena ancora stasera, 27 ottobre, alle 19,30 e domani pomeriggio), ambiziosa produzione locale, vi sfuggirà certamente qualcosa, qualcosa di importante. La rilettura che ne fa Letizia Renzini, regista, ideatrice e videomaker, è parecchio audace, psichedelica, dark, anche se con tinte decisamente freak, traslata da un piano puramente semantico ad altri, sette secoli prima, semplicemente incontemplabili perché nemmeno lontanamente immaginabili: danza, pittura, musica, tridimensionalità, ma è una corretta, oltre ogni più lecito lirismo, contestualizzazione del testo, perché la peste che falcidiò Firenze nel 1347 è la stessa, di dimensioni mostruosamente più grandi, seppur incruente, che sta decimando, quotidianamente, la popolazione internettizzata, collegata, rapita dalle piattaforme sociali e dimenticata dalle più naturali, elementari, genuine passioni.
FIRENZE. Da Vivaldi a Michael Jackson, passando per Lucio Battisti e Gigi D’Alessio. Dalla sacralità della classica, all’irriverenza del pop, attraverso le note d’autore e quelle trash della new melody napoletana. Ci sono voluti secoli di musica perché il cavaliere riuscisse a liberarsi della propria armatura e donarsi in sposa al proprio amato. Non ci sono refusi, né improvvidi arrocchi di vocali: è solo la nuova fase, lunare, di Filippo Timi, autentico fuoriclasse, che si è presentato in prima nazionale al pubblico della Pergola, a Firenze (si replica stasera, domani e domenica pomeriggio, 28 ottobre) con il suo nuovo Un cuore di vetro in inverno. Al suo fianco, in questa cavalcata guevariana contro i timori, le paure, i pregiudizi, le ombre, i rischi di contagio, la solita meravigliosa policroma Marina Rocco, stavolta angelo custode milanese di spudorata memoria monroeiana; Michele Capuano, uno scudiero sognante napoletano che si è poi dovuto accontentare; Andrea Soffiantini, un timido menestrello della pianura padana capace di stupire e Elena Lietti, una sgualdrina amarcordiana che distribuisce, senza alcuna diplomazia, medicamenti per l’anima e per il corpo.