MONSUMMANO (PT). Non ha bisogno di simultanei, né di abili storiografi, come di esperti gondolieri, o traghettatori di fama carontiana, Boccaccio; le sue opere, il suo Decamerone, si riciclano automaticamente: è la storia che parla la sua lingua. Però, un abile intrattenitore, un cronista eccellente non guasta affatto. E allora, seppur genovese a marchio di fabbrica, Tullio Solenghi, che si è fatto ossa e palcoscenico con la scuola classica, sembra davvero essere il crooner ideale di questa rappresentazione teatrale del volgare d'epoca più comprensibile, che ha aperto ieri, 23 ottobre, la stagione al Montand di Monsummano Terme, in un teatro, nonostante le lusinghe televisive dittatoriali del calcio che conta, pieno come se il piccolo schermo avesse mandato in onda una partita del Forrottoli, anziché della Juventus.
SESTO FIORENTINO (FI). Lo zoccolo morbido, perché variabilissimo, di ogni estratto societario ha i suoi maledetti; ci sono stati, ci sono e ci saranno. Kate Tempest, londinese del 1985, con una faccia incredibile da Monty Python, di questa razza di mezzo, in bilico tra la glorificazione della dannazione e la salvezza per l’assorbimento tra gli zombi, ne è diventata un’attendibile cronista, offrendo, di questo spaccato rintracciabile ovunque, recintato in vari zoo di origine berlinese, alcuni aspetti determinanti: lo fa scrivendo poesie e testi, allestendo drammaturgie, cantando in salsa rap (e in quale altra?) il nichilismo di una fetta marchiata a fuoco della sua generazione, quella dei trentenni/quarantenni. Anche il fiorentino Edoardo Zucchetti, il regista della trasposizione teatrale di Wasted (si replica stasera e domani, domenica 14 ottobre, alle 21, alla Limonaia, a Sesto Fiorentino) è un ragazzo dei tempi rappresentati, come i tre protagonisti: lo strimpellatore di chitarra che sogna senza alcuna cognizione professionale di diventare un rocker (Cristiano Dessì), l’impiegato di banca che è riuscito a tirar via le gambe dalle sabbie mobili dell’insostenibilità dell’essere salvo rimettercele, saltuariamente, perché è lì che ci si diverte davvero (Lorenzo Terenzi) e la professoressa nubile, senza figli, fidanzata storica ed elastica del chitarrista spiantato che non riesce a trovare mai un punto di contatto con i suoi studenti, anche lei emersa, seppur a malincuore, dalla palude degli inni alla dissoluzione (Francesca Sarteanesi).
FIRENZE. Rileggere è un’operazione indispensabile. Soprattutto in considerazione del fatto che di nuovo, da qui all’infinito, ci sarà ben poco. Quando si affondano le mani nella memoria poi, a teatro, ad esempio, un passaggio indispensabile è quello nella poetica di Eduardo De Filippo, di cui, per pudore, non ci permettiamo di dire nulla: basta il suo nome; Eduardo. E il gruppo dei Diplomati della scuola per attori Orazio Costa della Fondazione Teatro della Toscana (Francesco Grossi, Filippo Lai, Athos Leonardi, Claudia Ludovica Marino, Luca Pedron, Laura Pinato, Nadia Saragoni, Erica Trinchera e Lorenzo Volpe), sotto la guida di Gianfelice Imparato, parente acquisito della divinità sopracitata, ha deciso di mandare in scena, tradotti in italiano dalla lingua originaria napoletana, quattro atti brevi: Pericolosamente, I morti non fanno paura, Amicizia e Uomo e galantuomo. E visto che per questa prima nazionale, la compagnia ha scelto il restaurato Teatro Niccolini, di via Ricasoli, a Firenze, a due passi da quella meraviglia senza tempo che è il Duomo, l’operazione appare del tutto più che deontologicamente corretta.
SESTO FIORENTINO (FI). La lettura dell’autrice e la rilettura del suo quinto e ultimo testo sono indispensabili per gustare fin nel midollo e in tutta la sua musicalità 4:48 Psicosi, in scena (si replica stasera e domani, 30 settembre, alle 21) alla Limonaia di Sesto Fiorentino. Ma anche ignorando il breve tumultuoso percorso artistico di Sarah Kane, culminato (venti anni fa) a soli 28 anni con il suicidio e glorificato solo dopo la sua morte, dopo questa rappresentazione (diretta e disegnata da Dimitri Milopulos e tradotta da Barbara Nativi) si rientra nel nostro brutale anonimato reso ancor più commovente da fragili matrimoni, famiglie senza identità, macchine comprate a rate, casette con mutui devastanti, figli sconosciuti e sogni puntualmente tenuti ben nascosti sotto chiave nel cassetto, con qualche interrogativo in più e qualche illusione in meno. A cominciare dalle mille anime che albergano in ognuno di noi, che sono quelle che chiedono e vorrebbero che non si chiedesse, che rispondono e che preferirebbero tacere, che si concedono, ma vorrebbero negarsi.
PISTOIA. Siamo tornati a vederlo, al Piccolo Teatro Bolognini, di Pistoia, dopo un pomeriggio diplomatico di fiere e vanità al Manzoni, La scortecata, per due semplici motivi: il primo, è che non ci è costato nulla (facciamo parte di quella schiera di spettatori privilegiati ai quali sono puntualmente e gratuitamente riservati i posti in sala: ogni tanto dovremmo sforzarci di meritarli); il secondo, perché Emma Dante (sua la regìa), gode di una profondità emotiva che travalica i tempi, i generi e consegna al teatro la sua funzione/finzione migliore: la parola, il corpo, la passione. Tanto che nei panni delle due vecchissime sorelle intente a succhiarsi i mignoli per riuscire a sedurre il giovane re che abita poco distante dalla loro vecchia e modesta abitazione, la fuoriclasse palermitana, abile rilettrice della novella seicentesca di Giambattista Basile contenuta nel Cunto de li cunti, ci mette, così come sono, con muscoli poco palestrati e tatuaggi coperti, Salvatore D’Onofrio e Carmine Maringola.
SESTO FIORENTINO (FI). Ha visto, certamente, uno dei capolavori di Kubrick, 2001 Odissea nello spazio, Andrea Bruni, così come siamo sicuri che abbia letto La fattoria degli animali, di Orwell. Le reminiscenze cinematografiche ce l’ha indotte il prologo bucolico, quello fatto nel giardino del Centro Espositivo Berti, a Sesto fiorentino, dove è stato allestito Animal’èsca, il progetto teatrale che il regista ha realizzato, oltre che in virtù dell’Associazione Culturale ZerA, grazie alle scrematura e successiva alfabetizzazione di alcuni dei suoi studenti/attori (Nadia Capanni, Nicola Caprini, David Cinelli, Greta Fanoi, Antonella Gori, Ilaria Mangiavacchi, Jessica Natali, Sara Pedroni Marta Ringressi, Filippo Sottili e Alessandra Taddei: l’ordine è alfabetico) per realizzarlo; quelle bibliografiche ce l’ha invece suggerite la trasformazione delle bestie in ominidi effettuata durante il passaggio sul palcoscenico, anche se nessuno degli undici in scena abbia perso, dal giardino al teatro, piumaggi, suoni gutturali e deambulazioni claudicanti.
CALENZANO (FI). Hanno tenuto a ribadirlo in più di una circostanza, durante lo spettacolo, che questo LinguaIncontro fosse, per lo più, un laboratorio. Ma nonostante le avvertenze, soprattutto in virtù di una cornice senza tempo (il Castello di Calenzano, sito da urlo), a quest’idea di Livia Gionfrida, alla quale non smetteremo mai di essere grati, manca la poesia, anche se, sul palco, Lucia Sargenti, voce incantevole, femmina di classe e attrice rispettabilissima, prova in ogni modo ad ammantare la rappresentazione con il velo della prosa. Ma l’intera messinscena soffre, senza riuscire a staccarsene quanto dovrebbe, il peso della comunicazione, che è un’altra iniziativa a favore dell’accoglienza, intesa come inevitabile contaminazione umana tra indigeni e migranti contraddistinta dall’unico, reale e, spesso insormontabile, ostacolo: la lingua.
PISTOIA. Spettacolo pop, da Club Med, dove nessuno si indignerebbe se accanto, qualcuno, invece che ascoltare e guardare quello che sta succedendo sul palco, fosse concentrato sullo schermo luminosissimo del proprio telefonino; in vacanza, anche se non è il massimo della deontologia, può anche starci; a teatro, no, cazzo! Ma fino a dittatura, occorre sopportare. Guido Catalano e Giuseppe Peveri, divenuto Dente, quest’ultimo, forse pensando a dove batta la lingua, quando questo duole, comunque, sono una coppia ben assortita: poeta in tono minore, il primo, che si dichiara, puntualmente, rocker fallito convertitosi alla letteratura solo perché meno affollata e più violabile e cantautore semiserio, il secondo, alla ricerca spasmodica e parossistica di rime troppo banali per essere vere che si rincorrono su un pentagramma facile e orecchiabile. Il pubblico e la critica comunque li hanno già assolti con formula piena e promossi e dall’inverno scorso solcano l’Italia in lungo e in largo presentando Contemporaneamente insieme, anche d’estate non lo abbiamo aggiunto noi, ma loro, proprio perché dopo i puntuali sold out dei quali hanno fatto incetta da ottobre a maggio, hanno deciso di sondare anche gli umori estivi.
PISTOIA. Serve a noi grandi, l’identificazione, non a quelli che abbiamo deciso di catalogare. Che a loro volta, cresciuti con i nostri condizionamenti, faranno altrettanto con i loro piccoli, in questo vortice senza fine, dove a ogni colore si abbina un genere, un’emozione, un’idea, una cultura. Ma i colori, per fortuna, sono alla portata di tutti coloro sappiano guardarli, corteggiarli, meritarli. E Il colore rosa, andato in scena al Funaro di Pistoia, nel panorama della seconda edizione del Pistoia Teatro Festival, può felicemente ed esemplarmente abbinarsi a qualcosa che con le femmine non abbia nulla a che fare; così come il celeste con i maschi e ogni altro cromatismo che per necessità tribale abbiniamo a un gruppo, a una setta, così come succede negli anfiteatri calcistici, o nelle guerre.
PISTOIA. Siamo in un salone di una casa di cura per pazienti con problemi comportamentali. No, siamo a teatro, che è la stessa cosa, che dovrebbe essere la stessa cosa. Perché lì, in quella struttura, come sui palcoscenici di tutto il mondo, la linea di confine è e deve essere sottilissima, quasi invisibile, da superare ogni volta che se ne sente la necessità, ma anche quando la vita, per cause di inerzie insopprimibili, semplici coincidenze, casualità, ti sospinge oltre, mandandoti poco più in là, che è comunque altrove. Cristiana Minasi e Giuseppe Carullo, artefici psicotici e ansiogeni di Delirio Bizzarro, andato in scena nel salone del Funaro, a Pistoia, all’interno della rassegna estiva Pistoia Teatro Festival, ne incarnano esemplarmente le sagome, frantumando, fino alla polverizzazione, quelle poche certezze che ci offrono l’illusione di non essere preferibilmente ricoverabili. Un domicilio coatto in una struttura preconfezionata nella quale, ognuno di noi, se ospitato, troverebbe certamente i propri spazi e sarebbe in grado di costruirci, all’interno, un suo habitat, se non ideale, quanto meno capace di tenerci lontano dal calice della tentazione estrema più suggestiva, il suicidio, che nella rappresentazione dell’altra sera nel circolo culturale pistoiese ha assunto connotati surreali, impalpabili, onirici.
PISTOIA. Basta spostarsi di poco verso sud, verso nord, o verso est, che si entra nelle province di Lecce, Brindisi, o Taranto. Erchie è lì, muta e silente, che aspetta che qualcuno faccia il proprio dovere, che poi è la storia, necessaria e impellente, che tutti aspettano che accada. Stavolta, a rompere le abitudini, a sconquassare la falsa ritmica armonia del paese, le sue tragiche incontrovertibili leggende, c’ha pensato La sorella di Gesucristo, decidendo di vendicarsi in prima persona contro chi, la sera precedente, si è tolto lo sfizio di abusare di lei. La pellicola scorre veloce e inesorabile sulla campagna al limitare del Salento. Il regista conosce bene quella terra e la gente che la popola; ognuno si rispecchia nel proprio pseudonimo, nomignolo, scagnanome; anche quello è una sorta di destino. La campagna ingiallita dal sole, dalle disillusioni e dalla musica che arriva anche lì, quella dei meravigliosi anni ’80, osserva in silenzio tutto quello che succede sopra di lei, giorno dopo giorno. Il racconto, di questa naturale, comprensibile, giustificata. inarrestabile e inarrestata vendetta, è affidato alla scrittura e all’interpretazione di Oscar De Summa, che con questa opera chiude la propria trilogia aperta da Diari di Provincia e proseguita con Stasera sono in vena.
Leggi tutto: Cristo si è fermato a Eboli; la sorella è scesa fino a Erchie
MONSUMMANO (PT). Più che a Gaber e a Jannacci, Tricarico sembra volersi ispirare ad uno dei meravigliosi poeti maledetti che insanguinarono di tristezza e nichilismo la Francia e l’Europa intera. La struttura ci potrebbe anche essere, ma sono alcuni dettagli hipster (la cravatta tenuta slacciata, gli occhiali da sole tenuti in piena notte sulla testa su una chioma che non ha bisogno di fermagli) a tradirlo, finendo per farlo naufragare in una serie di incomprensibili nonsense che non piacciono. E non fanno nemmeno ridere. Non a caso, Francesco Bottai, il cantautore pisano che ha preceduto sul palco dell’Yves Montand di Monsummano, vicino a Montecatini (dixit Tricarico) con Vite semiserie, l’esibizione del collega milanese (Da chi non te lo aspetti), entrambi fulcro di una delle tante serate che animeranno questa seconda edizione di Pistoia Teatro Festival, quando ha terminato la propria simpaticissima e gradevole esibizione e ha salutato lo sparuto pubblico, ha testualmente detto che d’ora in poi si sarebbero fatti du’ coglioni.
PONTEDERA (PI). Il cerchio si chiuderà domenica, 10 giugno (alle 21,30), quando Marco D’Amore (Un amore), Anna Foglietta (Una guerra) e Claudio Santamaria (Il potere), i tre protagonisti delle altrettante premesse andate in scena all’Anfiteatro dell’Era di Pontedera, si ritroveranno all’Anfiteatro del Triangolo Verde di Peccioli per chiudere – e aprire verso l’ignoto – Il caso e l’invenzione, la rilettura effettuata dal regista Michele Santeramo sulle tragiche e attuali Storie del Decamerone. Ieri sera, è stata la volta del limite e del paradosso dell’onnipotenza, che si ravvede, fino a pentirsi e a rinnegare il proprio trascorso proprio di fronte a quell’anonimato di cui ha gestito morte e miracoli, affidata al reading di Claudio Santamaria. Apparso leggermente ingessato, con un diaframma poco propenso alle modulazioni di frequenza e uno sguardo anonimamente ancorato all leggio, anche se animato e accompagnato dal violoncello di Francesco Mariozzi, una colonna sonora indispensabile a scandire tempi e pause di queste riflessioni ad alta voce.
FIRENZE. Quando si imbocca il viale del tramonto, verosimilmente breve e non sempre alberato, abbiamo l’opportunità, quasi sempre inconsapevole, di voltarci indietro. E guardare. Così hanno deciso di fare, dietro esplicita richiesta del regista, Roberto Bacci, Giovanna Daddi e Dario Marconcini, che si sono prestati a dare parola e scena ai loro ricordi, a volte sfumati dall’età, di una vita, la loro, vissuta nel teatro. Insieme. Mano nella mano, paura nel coraggio, per arrivare sul limitare del capolinea e contare le fermate, la gente salita a bordo, quella scesa, con loro due sempre lì, decisi e convinti di arrivare fino in fondo. Insieme. Quasi una vita – sottotitolato Scene dal chissàdove, ma anche, in omaggio a Bergman, Scene da un matrimonio – è il dubbio amletico che può, che deve, o almeno dovrebbe, interrogarci, ogni tanto, sui nostri confini, sulle nostre consapevolezze, sui nostri bilanci. Stasera, domenica 13 maggio, terza e ultima replica, poi, il Teatro Studio Mila Pieralli, che l’ha ospitato in uno dei suoi meccanismi scenici matrioskali, chiuderà i battenti della stagione.
Un PISTOIA. La linea di demarcazione tra memoria storica e finzione, a teatro, più che labile, è inesistente. Certo, per saggiarne a pieno il peso, occorre sapere l’inglese, ma questo, per fortuna, è un problema che ci ha condizionato solo questa sera, quando siamo stati costretti a tenere il naso all’insù, rivolto sul telone della sala del Funaro, per leggere le simultanee offerte dalla direzione del centro culturale pistoiese, invece che concentrarci sui marionettismi di Mark Down e della sua Henry – Memorie teatrali d’oltretomba. Pazienza. Il messaggio, il segnale, l’offerta della nuova produzione del Blind Summit sono comunque arrivati a destinazione, anche a noi, che abbiamo puntualmente riso a scoppio ritardato rispetto alla maggioranza degli spettatori forniti di una conoscenza, almeno dignitosa, dell’idioma britannico e che non hanno dovuto leggere cosa stesse dicendo, il regista, in azione come protagonista con i due assistenti Fiona Clift e Tom Espiner, per capirlo e apprezzarne l’humor.
FIRENZE. L’avevamo già visto, La merda, ma siamo tornati a vederlo (Teatro di Rifredi, stasera ultima replica, che chiude la stagione); e ne avevamo già scritto, ma recensiamo di nuovo. Ne vale la pena. Per noi, beninteso. Lei, Silvia Gallerano, la strepitosa e straordinaria mattatrice di un monologo scrittole addosso (sei anni fa) dal marito/regista, Cristian Ceresoli, non ne ha alcun bisogno delle nostre congratulazioni, né dei nostri incoraggiamenti. I coniugi, insieme, hanno vinto e stravinto tutto e ovunque e oltre alla doppia versione italo/inglese interpretata sempre da quella piccola incommensurabile macchina da guerra, lo spettacolo gode di una miriade di traduzioni in idiomi di cui non sappiamo nemmeno in quale paese si parlino. Ne scriviamo di nuovo perché oltre che addomesticare la nostra morbosa affezione di protagonismo recensorio, siamo convinti di aver colto un aspetto che ci era sfuggito, la volta precedente e che, dando un’occhiata alle dovute lodi sperticate scritte per loro dalla Spagna al Brasile, dalla Lituania alla Danimarca, sembra non aver coinvolto nemmeno i colleghi decisamente più titolati (in virtù di cosa, poi) di noi, a glorificare e/o crocifiggere uno spettacolo.
FIRENZE. Le cose stanno all’incirca così, dietro il sipario, per scegliere chi salirà sul palco, ma anche nella vita, per stabilire chi sarà il protagonista, proprio come ce le hanno raccontate stasera Alessandro Riccio (scrittore e regista) e Gaia Nanni, coppia teatrale sperimentatissima che al Teatro di Rifredi, fino a domenica, darà vita al loro ultimo lavoro in ordine di tempo, Audizioni, due monologhi contaminati e contaminanti che si interfacciano con un fantomatico regista (Paolo Santangelo, sua la voce fuori campo), una divinità inavvicinabile, invisibile, intransigente fino al sadismo, ma che non riesce a resistere ai peccati di gola. C’è un posto vacante nella compagnia e all’ultima audizione si presentano due candidati, un attore e un’attrice, ognuno con il proprio rispettabilissimo back ground: il regista rivendica la ricerca di un’anima e non di un genere; c’è poco da stupirsi se il ruolo sarà affidato a un uomo o a una donna.
FIRENZE. Poesia alla stato minimale e puro, con un livello emotivo di coinvolgimento spaventoso, diretto, totale. Senza precauzioni, senza rete. Una tenerezza sconfinante, che abbraccia, indistintamente, le papille gustative dello sbalordimento, della felicità e della tristezza. Succede continuamente, senza sosta, a Pss Pss, spettacolo di e con Camilla Pessi e Simone Fassari, della Compagnia Baccalà, che dopo aver fatto incette di premi in tutti e cinque i Continenti, sono passati dal Teatro Puccini, a Firenze, per l’ennesima (più di seicento) replica del loro capolavoro. Una summa clownesca di rara bellezza e precisione, dove i due monelli chapliniani esibiscono alcune navigatissime gemme circensi: prima e dopo ogni esibizione, Camilla e Simone si incoraggiano e si abbracciano; farà anche parte del copione, ma siamo convinti che questi due bambi spaventati dal mondo abbiano sistematicamente e fisicamente bisogno di sapere di non correre il rischio di essere abbandonati.
PISTOIA. È più facile rileggere Pina Bausch sul suo territorio o provare a farlo altrove? Non ne abbiamo idea. Vero è che quello che hanno fatto al Funaro di Pistoia è semplicemente esemplare, corretto, utile, costruttivo. Palermo Palermo appartiene all’imponente repertorio danzattoriale e coreografico dell’artista tedesca, conservato, come altri imprescindibili attestati artistici e culturali degli ultimi quarant’anni, dall’archivio del produttore internazionale Andrés Neumann, a sua volta conservato proprio dall’associazione culturale pistoiese. Il materiale, insomma, c’era; occorreva dipanarlo, spianarlo, renderlo commestibile, senza poter contare su nemmeno uno dei vari e tanti agenti del corpo di danza. Massimiliano Barbini, uno degli insostituibili del Funaro, ha riassunto, in pochi momenti nevralgici della vita di questo spettacolo, andato in scena nel 1990 al Biondo di Palermo e instancamente riproposto ovunque si sia voluto glorificare Pina Bausch, affidandosi, per una completezza umorale e scenografica, all’estro del polistrumentista Gennaro Scarpato, che ha rappresentato l’arcobaleno del suono di un altro immonetizzabile archivio, quello della Fondazione Tronci.
PRATO. Non scenderemo nei dettagli (sarebbe sacrilego) solo perché Belve, alla quale abbiamo assistito ieri, al Metastasio di Prato (si replica fino a domenica 22 aprile), è in prima nazionale. Ma di cose da dire e scrivere, di questa farsa del terzo millennio, ce ne sono in abbondanza. A iniziare dalla scelta dei protagonisti (Alberto Astorri, Salvatore Caruso, Alessandra De Santis, Monica Demuru, Vincenzo Nemolato e Aldo Ottobrino – l’ordine è alfabetico), assoldati dalla coppia Armando Pirozzi/Massimiliano Civica (testo e regia), un connubio già sperimentato, quest’ultimo, con risultati oltremodo soddisfacenti, addirittura con tanto di Ubu. Sei attori per dieci personaggi, tutti verosimilmente (in)credibili, patetici e schizofrenici, ognuno con il proprio trascorso misterioso, metropolitano, proletario e tutti animati e armati (non solo in senso figurato) dal diritto di guardare, ottimisticamente, al futuro. La struttura greca, prima e francese, poi, è tassonomicamente rispettata.
FIRENZE. La storia del piccolissimo siriano Alan Kurdi finisce nel settembre del 2015, su una spiaggia di Bodrum, in Turchia. La sua prima foto, e forse unica, gliel’ha scattata Nilufer Demir, la reporter che lo ha ritratto a pancia in giù, con il viso nella battigia, morto. Da allora, quel bambino e quell’immagine sono state, contemporaneamente, un veicolo, mostruoso, indifferentemente usato dalle coscienze e dalla demagogia. Giuliano Scarpinato ha provato – riuscendoci meravigliosamente – a tessere la storia di quello che non è stato e che non potrà mai essere ma che sarebbe potuto, solo se al padre di Alan, Abdullah Kurdi, il suo piccolo non gli fosse sfuggito dalle braccia durante una tempesta a mare aperto su un’imbarcazione di fortuna durante la migrazione verso la speranza. La rappresentazione, Alan e il mare, con la quale, meglio, il Teatro Mila Pieralli di Scandicci la stagione non avrebbe potuto chiuderla, è un concentrato senza soste, nitido, chiaro, efficace, poetico oltre ogni ragionevole sopportazione e oltremodo eloquente del teatro/studio, del teatro/denuncia, del nuovo teatro, quello che non ha alcuna voglia di morire,
PRATO. Molière, probabilmente, era davvero lungimirante o il genere umano, il mondo e le sue varie sfaccettature esistenziali, da lì in poi, di progressi, ne han fatti davvero pochi. Dove alberghi la ragione, poco importa, ma ci è parso necessario fare questo piccolo incipit per iniziare a raccontarvi Il misantropo, opera anomala del drammaturgo francese prodotto da Elsinor Centro di produzione teatrale, tradotto da Cesare Garboli, riadattato dalla regista/pianista Monica Conti e che sarà replicato ancora due giorni al Fabbricone di Prato. Il rigore morale di Alceste (Roberto Trifirò) è noto, così come la sua ostinata intransigenza – che lo condurrà alla misantropia - nel non sottomettersi, mai, ad alcun compromesso. A patto che a chiedere eccezioni non sia l’amore, o meglio, il desiderio, che si incarna nella bella Celimène (Flaminia Cuzzoli), che nonostante possegga, o sia posseduta, da tutti i detestabili vezzi e vizi della società, esercita, universalmente, quell’attrazione fatale, che coinvolge intorno alle sue gonnelle (e ai suoi commoventi polpacci) tanto gli intellettuali che gli stolti borghesucci.
PRATO. Veniva da Udine. Si chiamava Pasquale, don Pasquale. Era alto, vicino ai 190 centimetri; colto, elegante. La parrocchia di san Policarpo, a Cinecittà, periferia sud di Roma, reputò opportuno, poco dopo il suo arrivo nella canonica in pietra, affidargli la messa domenicale d’élite, quella delle 11. Se ne pentirono presto, i vertici ecclesiastici. La goccia che fece traboccare il vaso, che si colmò comunque nel giro di poche settimane, fu una sua omelia particolarmente vibrante dopo il famoso passo evangelico di Matteo: è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli. Apostrofò, indicandole addirittura, alcune fedeli che si erano presentate in chiesa con costosissime pellicce. Don Sisto, il parroco, preoccupato del pericolo rosso, più che di un’emorragia di fedeli, si rimpossessò, immediatamente, della celebrazione delle 11, retrocedendo il giovane friulano a quella delle 9, popolata da frequentatori molto anziani o da giovani scalpitanti per andare quanto prima a giocare a pallone nel campo di terra attiguo, utenti questi che non avrebbero potuto, in alcun modo, restare irreparabilmente affascinati dai moniti del loro pastore.
PRATO. Solo quando si diventa genitori si scopre il terzo lato dell’amore, che è il volume, o la profondità. Solo allora. I sentimenti che ci brulicano l’esistenza fino a quel momento sono soltanto un preparativo, ma che non rendono, perché non possono, minimamente l’idea. L’idea, invece, questa idea universale, che non conosce cromatismi epidermici, idiomi, latitudini, la rende alla perfezione Livia Giunfrida, (con)fondendo due novelle leggendarie: il Vangelo e Pinocchio. Gioia (ieri sera, 30 marzo, ultima replica al Fabbrichino di Prato), sottotitolata Via Crucis per simulacri, è una straordinaria novella, siciliana per benefiche circostanze attoriali, che la registra/drammaturga porta in scena dopo aver lavorato anni e anni in carcere, a diretto contatto con i carnefici di ieri, che a volte, si sono trasformati in vittime, portando sulle loro spalle e su quelle delle loro madri, in particolare, la Croce del Golgota.
PISTOIA. Il contrappasso è doloroso: ci sono uomini in divisa, pronti a condurci chissaddove, senza però evitarci di sfilare in passerella e mostrarci al pubblico ludibrio. Che è quello che suscitiamo agli altri, che sono lì, ad aspettare, incollati davanti alle tivvù e hanno una famelica necessità di ringhiare contro gli sfigati, che sono spesso quelli che non hanno saputo reggere al gioco. Il gioco, ufficiale, è quello al quale non possiamo più sottrarci, è quello che ci fa sentire vivi, o ci regala l’illusione di non essere ancora morti, o che per darci l’inebriante sensazione di vita ci induce a sacrificare quella di chiunque altro. Il gioco che potremmo organizzare invece è la rivoluzione, ma non appena se ne accenna l’idea, arrivano i rabbonificatori, le droghe, l’alcool, la musica alla consolle, i pestaggi. La sommossa e il suo Teatro comunque continuano, imperterriti, a non aspettare liberatorie, tregue, condoni, passaporti. E dopo La Merda, si ostina a disobbedire. Ancora, con la stessa caotica nevrosi, velocità, modalità e partitura, stavolta affidata non più alla sola Silvia Gallerano, la piccola Ado, innaorata della vita, ma timorosa di non saperla condurre, ma anche a un suo collega, Stefano Cenci, il fratello, Kerfuffle, che gioca pochissimo a pallone perché è sempre in panchina e ha il pisello piccolo, per questo fa la doccia con la mutande, ma se si masturba...
LAMPORECCHIO (PT). In linea di principio e logica, non dovrebbe esserci alcuna relazione tra l’esposizione televisiva e il richiamo teatrale. Soprattutto perché sono due mondi, artisticamente, molto diversi. E invece, sono corrispondenzialmente biunivoci: il secondo, serve al primo per regalare, a palinsesti che traboccano di nani e ballerine, qualcosa di pregiato; la prima, assicura alle sale strabilianti e imprevedibili pienoni. La tivvù pesca a teatro i migliori, anche se sono spesso molto poco televisivi; lo fanno perché quando è tempo di rendicontazioni, i vari direttori possono comunque vantare di aver assoldato a cause altrimenti destinate a personaggi pseudo inqualificabili nomi di spessore reale e non presunto. E i teatri, a loro volta, non temono fiaschi o platee desolatamente semivuote quando in cartellone compare uno di quei nomi che la televisione ha, più o meno opportunamente, glorificato.
CALENZANO (FI). Ha riposto nei due cassetti sventrati da chissà quale armadio i calcinacci di un bombardamento qualsiasi e dopo aver ridotto la rete da letto pieghevole e aver appoggiato ad un lato del tavolino le due sedie libere da orpelli dolorosi, ha lasciato la scena, prendendosi tutti gli applausi possibili e immaginabili che il pubblico del Teatro Manzoni, più noto come il Teatro delle donne, nella desolatissima landa fiorentina di Calenzano, ha voluto decretarle. Gli studi matti e disperatissimi di danza classica le hanno ingentilito il volto e i movimenti; per la mimica, il diaframma e i tempi teatrali, è dovuta passare dall’Accademia del Piccolo di Milano di Giorgio Strehler, dove si è diplomata e dove ha avuto la fortuna di incontrare anche Giulia Lazzarini, che deve averla artisticamente adottata, visto il candore e la forza delle parole. Nei Monologhi dell’atomica, che l’attrice genovese ha estratto da Preghiera per Cernobyl, di Svetlana Aleksievich e Nagasaky, di Kyoko Hayashi, prodotto da Le Imperdonabili e che porta in scena, rigorosamente nei Teatri di nicchia e, possibilmente, nelle scuole, da due anni, Elena Arvigo si presenta sul palco con la tuta anti radiazioni e la maschera antigas.
PRATO. L’idea non è affatto malvagia: il teatro nel teatro a presa diretta con il pubblico che viene investito da una pregevole messinscena, oliata a dovere, da un regista (Tindaro Granata) e una drammaturga (Mariangela Granelli) che si muovono su una scenografia che sorregge sistematicamente lo spettacolo chimicamente confusionario della storia, scusate, della leggenda di Ifigenia, alla quale succederà, nel caso specifico, di essere liberata. Ma dopo la virgola, che vuol dir ben altro; anzi, il contrario. Al Fabbricone di Prato (si replica stasera, alle 19,30 e domani, domenica 25 marzo, nel pomeriggio), Carmelo Rifici (l’erede di Luca Ronconi, almeno sullo scranno del Piccolo Teatro di Milano) e Angela Demattè portano in scena parecchi dubbi esistenziali sulla violenza di genere, la necessità di individuare un nemico, la decisione di sopprimerlo, quanto più teatralmente possibile, come soluzione, lasciandosi ispirare dalla tragedia della bellissima primogenita di Agamennone (Edoardo Ribatto) e Clitennestra (Giorgia Senesi), Ifigenia (Anahì Traversi) appunto, che viene immolata e sacrificata ad Artemide affinché il vento riprenda a soffiare sulle vele delle migliaia di condottieri greci bloccati in Aulide dalla vendicativa calma piatta che impedisce loro di salpare per andare ad assediare e sconfiggere Troya.
FIRENZE. Poesia e dolore; solitudine. Luci, ombre, pittura; speranza. Corpo e muscoli; disciplina. Ossessione e musica; studio. Teatro. Emma Dante non si smentisce. Anzi, rincara le dosi, dolorifica e onirica, e nella circostanza, La Scortecata (Teatro di Rifredi: si replica stasera e domani, sabato 24 marzo), esaspera magistralmente il suo dispotismo, affidandosi però al macchiettismo di due meravigliose vecchie zitelle, Carolina e Rusinella, che resuscitano nei corpi incorruttibili e malleabili di Salvatore D’Onofrio e Carmine Maringola. Uno spettacolo potente, un portento spettacolare, ancora una volta minimale (due sedie, un tavolino sul quale poggia il plastico di una reggia e una porta coricata a terra, dalla serratura della quale passa il dito mignolo e un effetto luce, Cristian Zucaro, da far impallidire) affinché il pubblico non subisca distrazioni e si concentri sul cono di luce che illumina smorfie e bicipiti, che amplifica lo slang, che renda il giusto onore a motivi musicali passati oltraggiosamente in cavalleria, che si genufletta alla poesia di immagini carioca e che abbia, come regalo conclusivo, se non la consapevolezza, almeno l’illusione di assistere a una mostra del Caravaggio.
FIRENZE. Le letture collaterali che La meccanica dell’amore sfoggia con imponente disinvoltura, precedute e ribadite da altri spettacoli ai quali si può tranquillamente apparentare, sono molto importanti ai fini di un’analisi artistica complessiva. In primis, la solitudine, che perseguita inesorabilmente l’incedere del tempo e dell’età, seguita, come effetto collaterale, dall’indispensabilità di una qualsiasi compagnia e dalla spasmodica conservazione della memoria, degli oggetti, anche quelli non più utili ad alcuna causa, che a sua volta innesca un altro meccanismo, quello del riuso, del riciclaggio, fino ad arrivare all’atteggiamento che dovremmo quanto prima adottare tutti, se vogliamo salvarci: la decrescita. Ma Alessandro Riccio, che firma anche la regia e Gaia Nanni, i protagonisti di questa commedia che continua a registrare, ormai da cinque anni, gradimenti e pienoni, come sta succedendo al Teatro Reims di Firenze (si replica fino a domenica 18 marzo) arrivano diritti ai centri nervosi, e dunque a quelle delle sinapsi del divertimento, anche senza alcuna elucubrazione intellettuale, senza approfondimenti sovrastrutturali.
CALENZANO (FI). I punti interrogativi che chiudono quasi tutti (quasi è un eufemismo che regge malissimo, in questo caso) i nostri dubbi esistenziali sono destinati a rimanere tali. Anzi. Si corre seriamente il rischio, qualora si voglia incaponirci, per scioglierli, di ingarbugliarci ulteriormente e a quel punto solo le sostanze chimiche altamente dissuasive, o il suicidio, rendono pace. Anche il Teatro, inteso nel senso più nobile tra le espressioni di vita, deve necessariamente, per sopravvivere, attenersi ai rigori sopra descritti; altrimenti, esula da qualsiasi classificazione e perde la propria identità, diventando, nella migliore delle ipotesi, altro, che non è più teatro, almeno quello con il quale siamo costretti a relazionare le nostre recensioni, che soffrono, a loro volta, della nostra percezione, nella quale vivono e convivono, oltre che una oggettiva considerazione del testo e dei protagonisti, anche gli umori, le vicissitudini oggettive e soggettive e gli stati transitori.
FIRENZE. La linea di demarcazione tra la sobrietà e la follia si fa sempre più sottile, così come quella che separa, a teatro, la fuffa dai capolavori; alcune volte, per riuscire a distinguerle, occorre fare molta attenzione e non lasciarsi andare a emotività preconcette; si rischia grossissimo. Come ieri sera, ad esempio, quando ci hanno fatto accomodare nel retro dello Teatro Studio Mila Pieralli di Scandicci, a Firenze e una volta tolti giacconi e cappotti, invitati a trasferirci nella sala attigua, inverosimilmente illuminata e riscaldata da rettilario. Ma non sarebbe potuto essere altrimenti; e noi, che avevamo storto il naso, ci siamo dovuti immediatamente ricredere, perché quel gioco aveva bisogno di queste accortezze, di quella promiscuità, di quella reciproca invasione di campi e ruoli, come in un vero e proprio laboratorio. Domenico Cucinotta, del resto, è un clown, e che clown, e come tutti, semiserio, onirico, un simpaticissimo burlone, ma di assoluto e impeccabile rigore, un traghettatore di sogni, un delizioso cantastorie di emozioni, un Attore con la A maiuscola.
FIRENZE. Non è blasfemo traghettare La locandiera dalla Firenze del ‘700 a due secoli successivi, fino sul delta del Po. Anzi, l’operazione è oggettivamente indolore e il risultato, con un Carlo Goldoni che non tramonterà mai, è oggettivamente e insindacabilmente piacevole. Soprattutto perché Mirandolina si chiama Silvia Gallerano, una piccola grande donna del palcoscenico, alla quale Stefano Sabelli, il regista-riadattatore di una delle opere più rappresentate, ha dato le chiavi di questo intramontabile groviglio di corteggiamenti, malizie e miserie del genere maschile al cospetto di una femmina che piace, sottotitolandolo l’arte per vincere. Anche l’idea della locanda-luna park è, oltre che funzionale al palcoscenico del Teatro di Rifredi, che ospita fino a sabato prossimo, 10 marzo, la rappresentazione, estremamente redditizia e soprattutto offre alla commedia, veloce, senza pause, il ritmo giusto di una scrittura che aveva con sé, già alla nascita, tutti i tempi ideali del teatro.
PISTOIA. Se ne trovano anche in Occidente e anche nel nostro piccolo paese – eccome! – famiglie come quella che trascorre una Lunga giornata verso la notte. Non è infatti così lontano dalla realtà provare a immaginare un padre fiero del proprio semifallimento (Arturo Cirillo), sposato con una donna ostaggio della tossicodipendenza (Milvia Marigliano), genitori di due figli (Rosario Lisma e Riccardo Buffonini) che non riusciranno in alcun modo a riscattare l’opacità genitoriale. Certo, negli Stati Uniti, un Paese con scarse identità e alla ricerca spasmodica di almeno una, la famiglia, certi quadretti sono più frequenti, soprattutto se a tinteggiarne i confini, fino all’esasperazione, claustrofobica, ossessiva, a volte surreale, è Eugene O’ Neill, drammaturgo americano con il quale il regista, Arturo Cirillo, ha voluto chiudere la trilogia (al Teatro Manzoni di Pistoia; si replica stasera, 3 marzo, alle 21 e domani alle 16) tutta statunitense del declino americano iniziato con lo Zoo di vetro, di Tennesse Williams e proseguito con Chi ha paura di Virginia Woolf, di Edward Albee.
MONSUMMANO (PT). Sono passati trentacinque anni dalla prima rappresentazione di Coppia aperta, quasi spalancata, ma le cose stanno quasi nello stesso identico modo. Gli uomini-mariti continuano a sentire la necessità di esplorare passioni, ardori, sperimentazioni e quando lo fanno (tutte le volte che vogliono, in pratica) hanno anche la presunzione che le loro compagne capiscano, chiedendo loro addirittura complicità; quando quelle donne-mogli, subdolamente incalzate dai mariti a prendersi i loro spazi (per giustificare quelli che loro si sono indebitamente aggiudicati) e spronate dai figli a riallacciare le fila dei loro sentimenti si azzardano soltanto a pensarlo di provare a vivere amore e passione con un altro uomo che non sia il marito, scatta, automaticamente, la tragedia.
PISTOIA. Il dubbio che ci stessero prendendo bellamente per il culo, per un attimo, ci ha assalito, dobbiamo essere onesti. La bellezza rovesciata ha un limite, pensavamo, mentre sul palco del Funaro, a Pistoia, Claudia Marsicano dava corpo, vita, poesia, musica, ritmo, armonia e soprattutto intelligenza all’ultima pro-vocazione di Silvia Gribaudi, R.OSA – dieci esercizi per nuovi virtuosismi -. E quando eravamo sul punto di ricrederci, l’ansia che si trattasse di un’impressione è tornata a impossessarsi dei nostri sensi ancor più prepotentemente. È successo quando in uno degli esercizi, Claudia R.OSA Marsicano ha invitato il pubblico del Funaro a seguire le sue piroette da convention, quelle che si addicono parecchio agli stages dove si insegna a guadagnare una fortuna in poco tempo, o dove il santone di turno infligge ai suoi seguaci gli anatemi della subalternità.
PRATO. Non occorre sfogliare i dossier che racchiudono le denunce fatte dalle donne agli uomini, spesso ai loro uomini, per sapere, prima di leggere, che all’inizio era molto premuroso, dolce, comprensivo. E non occorre nemmeno andare molto verso Meridione per rintracciare storie simili di ordinaria follia. Spesso, anzi, sui tavoli dei giudici, queste cose non ci arrivano proprio, perché le donne, sovente, sono solite aspettare, aspettare che tutto torni com’era all’inizio. E invece. Con Polvere, Saverio La Ruina ci va giù duro per denunciare i secolari soprusi sofferti dal mondo femminile, dimenticando gli struggenti monologhi didascalici, ma portando in scena, al Teatro Magnolfi di Prato, un angolo domestico di cui, prima che sui giornali nelle pagine della cronaca, ne abbiamo sentito parlare sicuramente, augurandosi, tra l'altro, di non essere addirittura stati vili protagonisti. Per intavolare questo meraviglioso e terrificante quadretto familiare, fatto di perfide rassicurazioni, sottili e subdoli ricatti, altalene psicotiche di profonda tenerezza miste a processi sommari, sentenze e, quasi sempre, violenze, Saverio La Ruina svuota come sempre il palcoscenico e si avvale di Cecilia Foti e della sua grande interpretazione di una donna che sta lentamente provando a dimenticare e cancellare una violenza sessuale subita e della quale ha preferito tacere.
PRATO. Ribadiamo un concetto, che si racchiude in un aggettivo, precedentemente e orgogliosamente espresso da quando abbiamo avuto la fortuna e l’onore di imbatterci nel teatro di Saverio La Ruina: indispensabile. Nella dinamica, come nei contenuti, un laboratorio teatrale che si avvale, rapacemente, di parola, forma, luce, espressività, carica emozionale. Tutte cose diligentemente apprese alla Scuola di Teatro di Bologna, dove si è diplomato, certo, ma la palestra più grande e redditizia, per Saverio La Ruina è stata, lo deduciamo, non è scritto su alcun resoconto biografico, la terra, aspra, silenziosa, vendicativa e (im)memore della sua Castrovillari. Lo diciamo perché vederlo, per l’ennesima volta, all’opera (al Teatro Magnolfi di Prato, che gli ha dedicato un trittico; ieri sera, La borto), non possiamo in alcun modo sottrarci dalla sensazione che la sua prima professoressa sia stata una sua nonna o quella di un amichetto con il quale sarà cresciuto. Nella sua profondità, nella capacità d’immersione tra i meandri più occulti e sconfinati della paure e delle verità tenute per secoli a freno e sotto spirito, Saverio La Ruina estrae, come un solo un lungimirante ma infaticabile cercatore d’oro sa fare, l’essenza della materia, quella che viene asetticamente tramandata da generazioni e che ha trovato, nel suo teatro, un attento, rigoroso e tenerissimo interprete.
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PRATO. I bar, specialmente quelli notturni e i loro clienti più affezionati, che sono quelli più anonimi, di passaggio, ma spesso prolungato, si somigliano tutti; cambia l’arredo, i proprietari, cambiano i paraggi e le città che li ospitano, ma rappresentano quasi sempre posti di frontiera. Raccontati da quell’anticristo di Harold Pinter e portati in scena da Valerio Binasco poi, quei bar notturni assumono il tepore romantico e maledetto dell’ultima anticamera prima della fine. Indifferentemente. Che si tratti de Il Calapranzi, Tess, o L’ultimo ad andarsene o Night, se preferite, l’equazione borderline risulta essere la stessa claustrofobica soluzione. Certo, ci vogliono gli avventori giusti, quelli che oltre a bere, lasciarsi andare, cullare la propria schizofrenia e maledirsi sappiano anche non raccontarsi, così come ci riescono, meravigliosamente, Nicola Pannelli, Sergio Romano e Arianna Scommegna, che potrete vedere soltanto oggi pomeriggio, al Metastasio di Prato, nella sesta e ultima replica di Night bar.
FIRENZE. La velocità con la quale si muove, da qualche tempo, l’umanità tutta, almeno quella connessa alle piattaforme sociali, è tale e tanta che non consente riflessioni; si sopravvive, correndo a perdifiato, su una lamina affilatissima, sottesa tra due strapiombi: da una parte l'inferno, dall’altra, il paradiso. Difficilissimo restare a lungo in equilibrio; l’importante è cadere dalla parte dove ci si fa meno male. Con Il Principio di Archimede, la teoria supposta, non sembra avere molta relazione, ma Josep Maria Mirò, autore del testo, tradotto da Angelo Savelli (che firma la regia) e Josep Anton Codina e sul palco del Teatro di Rifredi fino al prossimo 25 febbraio, è intorno a questi pregiudizi e a queste violenze che sembra voler indagare. Il matematico siciliano, oltre duemila anni fa, quando postulò il proprio principio, così straordinario da prendere il suo nome, non voleva, probabilmente, relazionarsi con gli effetti collaterali di una società allo sbando, delegittimata, violentissima, ma è proprio intorno alla teoria che - ogni corpo immerso parzialmente o completamente in un fluido riceve una spinta verticale dal basso verso l'alto, uguale per intensità al peso del volume del fluido spostato - si muove lo spettacolo.
PRATO. Da qualche tempo si chiama ludopatia e i suoi pazienti virtualmente convinti di voler guarire (la stragrande maggioranza sono quelli che non ne vogliono sapere, comunque, e dilapidano fortune, o anche solo la pensione) riempiono i centri di recupero. Ma la malattia del gioco è morbo antico e già nel 1866, Fedor Dostoewskji, anche lui vittima dell’adrenalina delle scommesse, cercò di guarire da quella dipendenza stendendo, in poco meno di un mese, uno dei suoi capolavori, Il giocatore appunto, che Gabriele Russo, grazie alla lettura e riadattamento operate da Vitaliano Trevisan, ha portato in scena (al Fabbricone di Prato), affidandosi ad un’équipe attoriale particolarmente oliata e bravissima a darsi il cambio alla testa della corsa a eliminazione per tenere puntualmente il cronometro e la suspence all’altezza dell’inesorabile incedere della clessidra, che ha suonato il gong dell’inizio della rappresentazione e non ha concesso nemmeno un attimo di replica, se non per gli applausi, subito dopo il travaso dell’ultimo granello di sabbia da un’ampolla all’altra.
PRATO. Un sobillatore. Un poeta. Saverio La Ruina è l’uno e l’altro, costantemente, continuamente, anche se il romanticismo prende puntualmente il sopravvento. Giusto così, del resto, visto e considerato che il giovanotto, in splendida forma, è un attore, uno di quelli che lascia il segno, che ti riaccompagna verso casa con la tragica tenera consapevolezza della solitudine, quella che accompagna ognuno di noi, quella che accompagna ogni essere umano specialmente quando imbocca la via del tramonto. Anche gli omosessuali, certo, perché anche un ricchione, un invertito, un frocio, chiamatelo come meglio potete dispregiarli, a una certa età, gestisce male quella che un tempo chiamava indipendenza. Il pretesto confessorio è incantevole, sublime, delicato, solitario, diretto, invernale, come per Walter Bonatti fu la parete nord del Cervino; in un cimitero, di fronte alla lapide della madre, alla quale non ha mai confessato la propria malattia, Saverio La Ruina racconta il proprio essere Masculu e fìammina (al Teatro Magnolfi, di Prato, che ospita un suo trittico) nel posto meno indicato, nel posto più sbagliato.
LAMPRECCHIO (PT). Del libretto originario ne ha fatto quel che ha voluto, senza correre il rischio di essere tacciata di blasfemia. La vedova allegra, del resto, non ha mai avuto pretese leggendarie, anche se poi, a teatro, in molti ci si sono sbizzarriti, e parecchio. Anche Maddalena Crippa, in verità, che ha collaborato con il regista Bruno Stori in questa rivisitazione musicale dichiarandosi immediatamente e apertamente con l’inversione sostantivo/aggettivo, L’allegra vedova, si è divertita molto, ma soprattutto ha divertito il pubblico che ne ha ancora una volta piacevolmente sottolineato la meravigliosa duttilità e camaleontismo, doti che abbinate a un profondissimo professionale senso del termine attrice, fanno della fascinosa sessantunenne brianzola una delle donne più interessanti dello spettacolo artistico italiano.
FIRENZE. Vogliamo parlare dello strano caso cronachistico-giudiziario di Gloucester, piccola cittadina del sudest inglese con poco più di centomila abitanti, dove in un college diciotto minorenni rimasero contemporaneamente incinte con il consapevole desiderio di creare una comunità al femminile, strane gravidanze che suggerirono a cinquecento uomini di marciare contro il loro genere (maschile) di fronte al dilagare della violenza domestica perpetrata sulle donne, che pure merita attenzione, spazio giornalistico e indignazione o di Sorry, boys, lo spettacolo teatrale che alla vicenda si ispira, ideato e portato in scena dalla meravigliosa Marta Cuscunà e che ieri sera, a Rifredi, ha chiuso, tra gli applausi e lo stupore (come può, uno scricciolo, sprigionare tanta energia), la tre giorni di Firenze?
PISTOIA. Un’opera concertistica apparentemente sprovvista di direttore d’orchestra - ma forte di un poderoso impianto scenografico, con schermi e video chirurgici e di un popolo in viaggio, di migranti - che riesce a restare in piedi per tutta la durata dell’esibizione senza cedere mai, di un solo atomo, alla fatica, a psicosi mnemoniche, a crisi di identità. Uno staff strumentale eccellente, con un battitore libero, Franco Branciaroli, nell’occasione eunuco, nell’abito di Medea, che ricalca, quasi ossessivamente, quello che nel 1996 il maestro Luca Ronconi disegnò sul foglio del palcoscenico con l'allora collaboratore Daniele Salvo, che oggi lo ripropone. Non sappiamo a quante riletture della controversa tragedia greca abbiamo già assistito e, abbiamo il sentore, non abbiamo la minima idea di quante ancora ce ne riproporranno. Forse, però, può bastare così. Lo diciamo dopo aver assistito alla prima al Teatro Manzoni di Pistoia (si replica stasera, alle 21, e domani, domenica 4 febbraio, alle 16), un capolavoro polifonico, con un intreccio di umori e sensazioni e traiettorie meraviglioso, un impianto scenico roteante, con le vertigini per una scala dalle quale piovono, nel salone della villa regale di Corinto, attori e sgherri, argonauti e strilloni.
FIRENZE. Grisélidis Réal somiglia vagamente a Bocca di Rosa; un po’ meno a Efe Bal, pochissimo, anzi, affatto, ad una qualsiasi escort, ma la sua storia, scritta e trascritta e portata a teatro da Coraly Zahonero, per la regia di Juan Diego Puerta Lopez, è una di quelle nella quale qualsiasi prostituta – chiamarla mignotta renderebbe forse più l’idea, ma ci imbatteremmo nelle censure deontologiche - di entrambi gli emisferi ci si può riconoscere. Casomai sorvolando su qualche dettaglio e lasciando allo spettatore un briciolo di scontata immaginazione che nel bel mezzo di una rappresentazione, anzi, soprattutto, non guasta davvero.
PRATO. Non è facile separare il coinvolgimento emotivo dalla cruda recensione. La colpa, comunque, è solo sua, di Tindaro Granata, il vocalista del nuovo capitolo dei Malavoglia, quello che Verga non avrebbe mai pensato di dover scrivere. Perché anche ad Aci Trezza, uno dei figli di Padron ‘Ntoni o di Bastianazzo, scegliete voi, ce l’ha fatta a lasciare il paese dove si vive solo di pesca e andare a Roma, a fare l’attore. Contro tutto e contro tutti, contro la storia, la leggenda e i pregiudizi, contro la fortuna, i luoghi comuni, i nepotismi incancreniti, salendo sul primo treno appena giunto alla stazione. Le lacrime si sono già asciugate, tornando a casa e quella tenerissima rabbia che ci ha regalato il suo sorriso la mettiamo da parte, dimenticandola giusto il tempo di recensire Antropolaroid, ma conservandola gelosamente, per il suo e il nostro futuro, ma soprattutto per il suo e il nostro passato.
PRATO. Chissà chi sia mai stato a presentare, a quelli di Punta Corsara, Shakespeare. In un primo momento, siamo convinti che l’abbiano scambiato per un pazzo (dalle parti di Scampia, poi, tra presunti e reali, il campionario è coloratissimo). Poi, però, quando qualcuno deve aver detto loro che quel tipo parecchio strano, in realtà, era uno molto, ma molto importante, nonostante non abbiano cambiato idea – anzi -, se ne sono fatti una ragione. E uno spettacolo, Hamlet travestie, che gira l’Italia ormai da tre anni, lasciandosi ovunque dietro una cortina di spontanea e applaudita simpatia. Come ieri sera al Fabbricone di Prato (si replica stasera, 20,45, domani, 19,30 e domenica, 21 gennaio, alle 16,30). Il riferimento amletico però è molto più complicato di quanto si possa immaginare, perché all’incipit shakespeariano dovete poi aggiungere la parodia anglosassone settecentesca firmata da John Poole e miscelare il tutto con una commedia napoletana di Antonio Petito, il Don Fausto.
AGLIANA (PT). Anche il più incallito razzista e xenofobo non può non impietosirsi di fronte alla storia di Cher (Alessio Zirulia), un giovane pakistano che arriva dalle nostre parti fuggendo da tutto e da tutti e riesce a farsi inserire in un centro d’accoglienza per minori grazie al fattivo prodigarsi dell’avvocatessa Viviana (Amanda Sandrelli), che è la compagna di Paolo (Luca Giordana), uno degli addetti della comunità di profughi. Ma Vivo in una giungla, dormo sulle spine, lo spettacolo ideato e diretto da Laura Sicignano e scritto con la collaborazione di Shahzeb Iqbal, in scena ieri sera al Teatro Moderno di Agliana, è un manifesto teatrale di corretta denuncia, che parteggia spudoratamente per gli ultimi (il padre di Viviana è un terrone emigrato al Nord, dove ha lavorato una vita in fabbrica, di giorno e studiato altrettanto, di notte, il comunismo), ma che non dimentica di denunciare come dietro questa macchina umanitaria si muova un pauroso sottobosco di interessi mafiosi, un vortice di permessi e soldi che abbrutisce e devia l’aspetto umanitario, offre gratuitamente linfa preziosa al revanchismo più bieco, ma non allevia, di un solo atomo, la disperazione che affligge questa umanità di particolari e spesso indesiderati viaggiatori.
PISTOIA. Il dolore – è una commedia noir – ci è sfuggito, ma anche la vena umoristica; quest’ultima, in compenso, non è stata afferrata nemmeno dal resto del pubblico del Teatro Manzoni di Pistoia (si replica stasera, sabato e domani pomeriggio, 14 gennaio), perché a ridere sono stati in pochi e con parecchia parsimonia. Che siamo in una villa che rappresenta fortune dimenticate lo si capisce leggendo le note, non certo dalla caustica e caotica confusione scenografica. Le Sisters, o Come stelle nel buio (la sovratitolazione anglosassone lascia ulteriormente perplessi), sono due sorelle con trascorsi artistici: Regina (Maria Rosaria, in arte Iaia, Forte), corpulenta e sguaiata ma modesta cantante napoletana, come Igor Esposito, autore del testo e Chiara (Isabella Fogliazza, in arte Ferrari), la sorella meno vesciaiuola, che non slenga i bassi anche perché (bisognerebbe chiederlo a Valerio Binasco, il regista) ha fatto un po’ di cinema, forse.
di Luigi Scardigli
PRATO. Per molti, è un’ossessione, un disagio incolmabile; per lui, la liberazione dell’indefinito, l’opportunità di scrittura, l’esaltazione della spiritualità. Lui, è Roberto Latini e l’opera, infinita, nel senso letterale del termine, è I giganti della montagna, iniziata e mai conclusa da Luigi Pirandello, di cui ve ne parliamo a stento, con parecchie difficoltà, nostre, ma solo e soltanto per il senso del pudore che ci ha assalito non appena è calato il sipario sul Metastasio di Prato (si replica da stasera fino a domenica pomeriggio, 11 gennaio) e abbiamo capito che non ci saremmo potuti sottrarre dalla gioia, onerosissima, di recensirlo. Ci proviamo, ma siate clementi se non riusciremo lontanamente a portarvi sul limitare della follia, della poesia, dell’assurdo, della morte e della resurrezione così come ha invece saputo fare Roberto Latini entrando e uscendo da tutti i numerosi personaggi, ben più di sei, che popolano l’ultimo capolavoro di Pirandello, inarcandosi su se stesso fino a decidere di farsi morire sul limitare dell’asse del trampolino dal quale, per paura, preferirà non gettarsi, senza comunque sottrarsi dall’inevitabile epilogo.
AGLIANA (PT). Qualcosa ha omesso, Debora Caprioglio, nel ripercorrere alcune tappe della propria vita, quella che l’hanno condotta fino sul palco del Teatro Moderno di Agliana, nella provincia di Pistoia, dove stasera, 7 gennaio, ha portato in scena il suo Debora’s love, per la regìa di un pistoiese che fino a ora ha dovuto cercare fortuna lontano da casa, Francesco Branchetti. Forse si è vergognata di spargere ai quattro venti la propria spiritualità adolescenziale, quella che deve averla forgiata e in virtù della quale il famoso Klaus Kinski, già sessantenne, rimase profondamente colpito dall’audace minorenne, invaghendosene e innamorandosene e dalla quale fu tumultuosamente ricambiato. Si trattò di questo – e cos’altro, altrimenti –, per giustificare una coppia anagraficamente così anomala, un flirt che ci rimanda, con i dovuti benefici di inventario e spessore, ad Alessandro Manzoni, che al culmine della propria carriera letteraria e alle porte del suo epico romanzo trovò spunto conversivo e nuovo fulgore artistico dall’incontro con la sedicenne Enrichetta Blondel, dalla quale, in compenso, ebbe dieci figli.
AGLIANA (PT). Ugo Chiti, il regista, nelle sue note, fa sapere che in questa rilettura de L’avaro, la figura di Arpagone è sì centrale, ma non solo per la sua tragicomica, asfissiante e penosa nota avarizia, quanto per la sua irritante, commovente, detestabile e altrettanto conosciuta miseria umana, che sfocia nella solitudine più assordante, che il vecchio bisbetico riesce a costruirsi in modo del tutto inattaccabile nel giro di una sola giornata, quella nella quale si consumano i cinque atti della commedia di Molière e che Alessandro Benvenuti e il cast al suo seguito hanno riassunto e condensato in due, andando in scena, ieri sera, 3 gennaio, al Teatro Moderno di Agliana. Lungi da noi voler sottrarre alla leggenda la sempiterna vicenda, ideata e scritta quattro secoli or sono, del nobile ricchissimo e avarissimo Arpagone, delle sue naturali vittime designate, i due figli e del concatenarsi degli accadimenti che si consumano, nel giro di 24 ore, nella sua modesta, spoglia, misera e triste villa.
FIRENZE. Difficile come ciappanò, la Briscola in 5, ma se intorno al tavolo, anzi, a emiciclo, ci piazzi dei vecchi marpioni della risata, lo spettacolo, al Teatro di Rifredi fino a domenica 7 gennaio, è assicurato. Con gli interessi, visto e considerato che la storia è storia, seppur ricca di battute, doppi sensi e ammiccamenti tipici del fiorentinismo meno disposto a morire, di cronaca nera, una di quelle che Marco Malvaldi ha scritto e riassunto in una serie, I delitti del Bar Lume, e, trasportate sul piccolo schermo, bucato i video di ogni telespettatore. I vecchi pensionati che stazionano sistematicamente nel bar della Pineta, immaginifica località balneare lungo la costa tirrenica, equidistante da Pisa e Livorno, sono niente meno che Sergio Forconi, Raul Bulgherini, Diego Conforti e Luca Corsi, piacevolmente infastiditi, di tanto in tanto, da Giovanna Brilli, moglie spazientita, ma loquace e ben informata di ogni pettegolezzo del quartiere, di uno dei quattro.
FIRENZE. La bellezza, giunonica, e l’eclettismo, non affievoliscono. Monica Guerritore, sessant’anni il prossimo 5 gennaio, resta una delle femmine più fatali del cinema e del teatro italiano e anche nella sua ultima fatica, Mariti e mogli (alla Pergola, di Firenze, fino al prossimo 2 gennaio), che sta portando, come regista e protagonista, per mano a spasso per l’Italia, nonostante l’insostenibile leggerezza della commedia all’americana di Woody Allen, la signora dei palcoscenici si prende la scena e, messa sotto il braccio, la porta con dignità fino alla conclusione. Il resto del cast, a onor del vero, non fa rievocare con la dovuta arguzia quello cinematografico, perché se Monica Guerritore non ha davvero nulla da invidiare alla collega Mia Farrow (anzi, è l’americana a non reggere il confronto), il resto degli attori, rispetto a quelli statunitensi che impreziosirono la pellicola del 1992, sì, e anche parecchio. La trasposizione teatrale è indovinata e la notte di tuoni e fulmini avvolge, tra nonsense e macabro romanticismo, la compagnia di amici e conoscenti che si ritrovano in una sala da ballo dalla quale non usciranno che all’indomani, con le ossa scricchiolanti, i cuori infranti e inaspettabili novità.
di Luigi Scardigli
PISTOIA. Benedetta Gomorra, altrimenti, certi tentativi, sarebbero potuti rimanere nei cassetti di chissà quali scantinati dei Bassi. E invece, il giovanissimo Marco D’Amore, si è presa la briga di catapultare, in un sogno, il dramma dei suburbi statunitensi e portarlo a due passi da casa sua, per ridisegnarne un affresco tutto napoletano. Il tentativo di rimettere le mani su American Buffalo - monetina americana dall’inestimabile valore, regolarmente acquistata da un autodidatta rigattiere senza acume alcuno da un fine intenditore -, è l’escamotage teatrale attorno al quale tre diseredati imbastiscono e pianificano un improbabilissimo furto. Della trama, dell’epilogo, dell’incipit, credeteci, non ce ne frega nulla: se vi preme, andate a vederlo, non ve ne pentirete; anche se per dovere di cronaca vi segnaliamo che sarà al Teatro Manzoni di Pistoia fino a domenica 17 dicembre, che è tratto da un’opera di David Mamet, tradotta da Luca Barbareschi, adattata da Maurizio de Giovanni e che vede in scena, oltre al regista, Tonino Taiuti, l’ala musicale del teatro napoletano e Vincenzo Nemolato.
PRATO. Una divertentissima ragnatela di ipocrisie, crudeltà, cinismi, un quadretto familiare di rara cattiveria e di tassonomico riferimento brechtiano. Anzi, un ring, dove sono ammessi anche i colpi bassi, in alcuni casi, dove non vince nessuno, se non il male di vivere, che tutti noi, mariti e mogli, inesorabilmente, incontriamo. Play Strindberg (rielaborazione della Danza macabra di August Strindberg, di Friedrich Durrenmatt, affidata alla regia di Franco Però, al Fabbricone di Prato fino a domenica 17 dicembre), è, oltre che un graditissimo esercizio teatrale per tre vecchi marpioni (si aggirano attorno ai sessanta, vecchi è in corsivo, eh) che conoscono perfettamente il proprio lavoro, una disputa senza tempo, un miserabile affresco della falsità matrimoniale che riesce a trascinarsi dietro, con estrema leggerezza, tutto il peso incombente e devastante dei sotterfugi che ognuno di noi calibra e gioca a proprio piacimento, collassi compresi.
LASTRA A SIGNA (FI). La situazione, nel frattempo, non è migliorata. Anzi. La società continua a sfornare serie illimitate di Luciana Colacci, che (s)fortunatamente non tutte reagiscono come il personaggio cardine di Gli ultimi saranno ultimi, rappresentazione teatrale sfornata dodici anni fa dall’idea di Massimiliano Bruno, catapultata al cinema nel 2015 e tornata in scena, ieri sera, al Teatro delle Arti di Lastra a Signa, a Firenze, con la regia di Marco Contè e il solito camaleontismo di Gaia Nanni, una e tutte. In un paesino qualsiasi di un’Italia martoriata da se stessa, si ritrovano, in un contesto drammatico, dolcissimo e fantozziano, una donna delle pulizie, un’amministratrice delegata e un’operaia della GreenLife, azienda internazionale leader in sfruttamenti, un poliziotto friulano mandato a fare gavetta altrove e una trans colombiana.
di Luigi Scardigli
FIRENZE. È andata all’incirca proprio così: abbiamo sognato, ci abbiamo creduto, ma abbiamo perso. Ora, in quegli scantinati nei quali un giorno si costruivano i volantini con il ciclostile, si scopava come dannati senza alcuna precauzione, ci si stordiva il sistema nervoso con quantità industriali di fumo – buonissimo -, si leggeva in continuazione, si ascoltavano talenti e si suonava pure, solo Musica ribelle, naturalmente, da dove si trasmettevano clandestinamente (Radio Nebbia) gli appostamenti, si leggevano i sogni, si produceva la felicità, dove c’è ancora tutto, conservato come reliquia, i proprietari, che sono stati compagni, ma che non lo sono più, in quei sottoscala lontani dagli occhi indiscreti della polizia, ma sotto il rigido controllo della rete informatica (che è molto peggio), ci vanno le nuove orde giovanili, senza regola alcuna, per organizzare rave, che sono i nuovi uffici per stordirsi, proprio come succedeva quarant’anni prima, ma senza il minimo criterio, senza messaggi, senza rivendicazioni, se non quello di sottrarsi da un futuro, che non esiste più.
di Luigi Scardigli
PRATO. Sul dondolo ci giocano i bambini. Ma quando cala la sera e i piccoli sono già stati riportati in casa dalle mamme e, dopo aver fatto il bagnetto, messo il pigiama e portati a letto, sui dondoli, spesso, ci giocano i grandi, soprattutto quelli che sono a caccia del tempo perduto, facendo finta di non sapere che quel gioco è riservato a corporature esili e di scarso peso e che sotto lo sforzo degli adulti, rischiano di rompersi. Valentina Banci e Flavio Cauteruccio sono due di loro, due di noi, due scelti da Roberto Latini, che li ha vestiti da majorette e superman e li ha messi lì, ai lati del lungo tavolo, che spesso è un pendolo, uno scivolo, un trabocchetto, un gioco di prestigio, un esercizio ginnico, un amplesso, una tentazione, un rischio, una sodomia, affinché provino a parlarsi, confrontarsi, avvicinarsi. Confidando nel loro camaleontismo, nella loro sensualità, nella loro sessualità; con risultati empaticamente e scenicamente ideali, teatralmente sublimi. Il pubblico, quello del Fabbrichino di Prato, che ieri sera, 1° dicembre, ha assistito alla prima nazionale di Quartett (si replica fino al 17), per entrare fino in fondo nella visione surreale del testo di Heiner Muller, tradotto da Saverio Vertone e portato in scena da quel visionario di Roberto Latini,
PISTOIA. È così magico il teatro-circo dei fratelli Forman, che si potrebbe addirittura soprassedere al ruolo del cantastorie e ottenere, comunque, il fascino, indiscreto della magia. A patto però che nel ruolo di narratore non ci sia Massimo Grigò, perché quando è così, il racconto diventa davvero fiaba e i bimbi, ma anche i loro genitori, si immergono nel tutto nella storia, incantata e incantevole, di Aladino. È successo al Funaro, a Pistoia, ma siamo pronti a scommettere che su un impianto così ben architettato di felliniana memoria e affidato al misterioso diaframma di Massimo Grigò, il sogno, ammalierebbe tutti i suoi spettatori, a qualsiasi latitudine. La scenografia è veramente monumentale, senza perdere nemmeno un atomo dell’intimità familiare che riconduce alla famiglia classica, quella del Mulino bianco, tanto per intenderci, che attorno al fuoco del camino di una casa di montagna immersa nella neve, si raccoglie attorno al calore salvifico della legna che arde per sentire il nonno che racconta una storia.
di Luigi Scardigli
FIRENZE. I volti rilassati del numerosissimo pubblico della Pergola ci hanno indotto a pensare, poco prima dell’inizio de L’ora di ricevimento (fino a domenica 28 novembre al Teatro della Pergola, a Firenze), che non si sarebbe trattato di un’analisi e un attacco furioso ai tempi di profonda trasformazione che stiamo vivendo e che avevamo ipotizzato fossero sviscerati. Però eravamo autorizzati a pensarlo che Fabrizio Bentivoglio, il professore di francese di in un Istituto scolastico delle Banlieu, si sarebbe dovuto confrontare con una classe, di tredici adolescenti, di profonde difficoltà e differenze. E che l’incontro/scontro con i rispettivi genitori nell’ora (dalle 11 alle 12) di ricevimento avrebbe prodotto incomprensioni, manicheismi, scintille generazionali, se non razziali. E invece, Stefano Massini, che ha affidato la regia ad un molosso di nome Michele Placido e con loro la produzione del Teatro Stabile dell’Umbria, han preferito optare per una chiave di lettura e traduzione decisamente ottimista, per non dire buonista, spostando addirittura l’accento (che si consacra nel finale della rappresentazione) sul vizio, comune a molti Prof., ma anche e soprattutto a chi è nella posizione di decidere della vita degli altri, di farsi condizionare dalle apparenze, dalle deambulazioni, dai linguaggi o, come nel caso specifico, dalla scelta del banco a inizio anno scolastico fatta dagli studenti.
PISTOIA. Ai molti spettatori che, durante l’intervallo, fingendo di essere diventati tabagisti, hanno preferito abbandonare il Teatro Manzoni per andare ad appisolarsi altrove, possiamo solo dire che la seconda parte di Richard II ha offerto due o tre spunti simpatici, quasi comici, che ne hanno leggermente risollevato le sorti, senza comunque avere il potere di riportare la tragedia shakespeariana, oggettivamente poco brillante, rispetto al sontuoso repertorio, seppur attualissima, su accettabili livelli di gradevolezza. In troppi angoli, anche se correttamente minimalista, ma luminosa e compiuta, la rappresentazione è parsa un inutile esercizio di stile di una tragica tragedia che non ha fatto altro che appesantire un copione già poco malleabile. A questo, poi, occorre aggiungere la scelta, culturalmente spiazzante, ma indovinata, di affidare il ruolo del Re, indebitamente spodestato, a Maddalena Crippa.
PRATO. Ebbe paura della critica e per questo, quattro anni dopo il debutto (1921), lo ripresentò, riveduto e corretto, aggiungendo al testo originario una prefazione che ne giustificasse la follia: peccato. Peccato, perché sarebbe stata cosa sana e giusta che il pubblico di allora facesse uno sforzo superiore e riuscisse a scorgere, contemporaneamente alla stesura del dramma, la sua universale e lungimirante intuizione e gli tributasse immediatamente, anziché accoglierlo alle grida isteriche di Manicomio, Manicomio!, come urlarono molti romani a fine rappresentazione al Teatro Valle, la sua sconfinata tragica bellezza. Quasi un secolo dopo, però, e precisamente nel 2017, di novembre, giovedì 16 (si replica stasera, 20,45, domani, 19,30 e domenica 16,30), al Metastasio di Prato, al termine della fedelissima meravigliosa maratona rievocativa dell’opera massima di Luigi Pirandello, il pubblico si è alzato dalle poltroncine e ha voluto applaudirli in piedi i Sei personaggi in cerca d’autore (prodotto dai Teatri Stabile di Napoli e Genova e da quello Nazionale).
PRATO. Il palmares parla da solo; quelli dell’Ubu si sono genuflessi e dopo averli ringraziati, li hanno omaggiati di premi. E non siamo andati a vederli, oggi, al Fabbricone di Prato, nell’ultima replica del cartellone, con la volontà di allinearci agli applausi tributati loro dai colleghi in precedenza, né con quella opposta di darci il tono della voce, quella che esce fuori dal coro e si pavoneggia per l’unicità del controcanto. È solo che oggi pomeriggio, a Prato, con Amore, non abbiamo preso la scossa, tutto qui. Senza voler sottrarre nulla all’originalità dell’idea e alle sue scientifiche banalizzazioni: il colloquio surreale su due lapidi attigue, popolato a talamo da due coppie di anonimissimi vecchietti: un marito e una moglie e due vigili del fuoco (Francesco Sframeli e Spiro Scimone, che firma anche la regia e Francesco Casale e Giulia Weber), un comandante e un pompiere semplice, legati, questi ultimi, da un amore omosessuale clandestino consumato in fretta e furia, di soppiatto, dietro la betoniera e mai dichiarato, soprattutto in Caserma.
FIRENZE. Ha fatto anche un piccolo accenno di break dance, scimmiottando, con una geniale vena umoristica, anche l’intramontabile Jako. Quelli che l’hanno applaudito ieri (si replica stasera, sabato 11 novembre, alle 21) a scena aperta e anche dietro il suo esplicito suggerimento (ogni tanto espone un cartello con le scritte degli sketch che andrà a presentare; talvolta, c’è scritto applausi), al Teatro di Rifredi l’avevano già visto; non ricordiamo quando precisamente, ma sicuramente dal 1992, da quando iniziò a portare in giro per il mondo La lettera, il capolavoro anomalo di un personaggio obliquo dell’intellettualismo francese, Raymond Quineau, lmanipolato, più che liberamente tradotto e catapultato in scena. Un po’ Jacque Tati, ma anche parecchio i Brutos, nonostante sembri, in realtà, un contrabbassista jazz anni ’50, Paolo Nani è veramente un animale del linguaggio del corpo, delle orbite, delle mani e delle sue incalcolabili proprietà aritmetiche ed espressive.
di Luigi Scardigli
PISTOIA. Sono tutti portoghesi i passeggeri del treno arrivato, senza partire, alla stazione di Pistoia; del resto, nessuno che li abbia accompagnati alla partenza e nessuno che li aspetti all'arrivo. Non hanno biglietto perché non hanno mai viaggiato e non sanno che occorra per viaggiare e soprattutto perché a nessuno di loro, qualcuno, ha mai detto che serva un tagliando per riuscire, se non a partire, almeno a sopravvivere. Del resto, un solo vagone, più vuoto che pieno e solo in fondo alla carrozza, che senso avrebbe farlo circolare. Ma anche questo modestissimo scompartimento, lontano dall’essere nemmeno parente delle affascinanti e supersoniche Frecce, senza locomotiva e non annunciato dagli altoparlanti, se non per un ingombro che ne rimanda la partenza, che è solo un peso per le economie aziendali dei trasporti, ha comunque bisogno dei propri protocolli e delle sue regole e perché queste vengano rispettate e applicate, è necessario che a bordo ci sia almeno un controllore, anzi, Il controllore.
PISTOIA. Il vecchio e il nuovo. Il vocabolario teatrale dovrebbe fare i conti con queste realtà estreme e portare in scena, soprattutto nelle scuole, Emilia, capolavoro brechtiano scritto e diretto dall’argentino Claudio Tolcachir, che oggi pomeriggio conclude il trittico al Teatro Manzoni di Pistoia. Una palestra potrebbe ospitare i pacchi e le valige accatastati nel salone della nuova abitazione dove Walter (straordinario Sergio Romano), sua moglie Carolina (imponente Pia Lanciotti) e il giovane figlio della donna, Leo (perfetto Josafat Vagni), si sono da pochissimo trasferiti. Una famiglia ideale, seppur non purissima, visto e considerato che Carolina, Leo, non l’ha progettato con Walter, ma l’ha avuto da Gabriel (Paolo Mazzarelli), un freak maledetto, a suo tempo irresistibile, che è lì, nei paraggi dell’appartamento e che aspetta, come un falco predatore, ora che non ha più lo spirito e lo smalto adolescenziale, che scocchi il momento ideale per riproporsi alla sua famiglia originaria dimenticata e abbandonata.
di Luigi Scardigli
FIRENZE. Siamo onesti: a Geppetto, in modo così ostinato e centrale, non ci aveva mai pensato nessuno, nemmeno Carlo Lorenzini, soprattutto perché la figura di Pinocchio è già, di per se’, abbastanza ingombrante. Ma che Geppetto poi potesse essere uno dei due genitori e che l’altro potesse essere, anche lui, un Geppetto, occorreva vivere, in prima persona, la problematica della famiglia dalla prospettiva gay. Altrimenti, si sarebbe continuato a dimenarci sulle fallacità del naso che si allunga, sulla meraviglia della procreazione e si sarebbe infittito il mistero dell’ambiguo e peccaminoso ruolo della Fatina. Tindaro Granata, invece, ha voluto approfittare di una delle favole più famose per ragazzi e poggiare l’attenzione intorno al papà, anzi, ai papà, perché Pinocchio/Matteo, di papà, non ha solo il leggendario falegname/veterinario/Luca, ma anche l’altro, Tony. Ironia della sorte, poi, ha anche voluto che la coppia omosessuale fosse del Sud, del profondo Sud e che dovesse faticare parecchio, per riuscire ad affrancarsi da tutti gli stereotipi per far sì che il loro amore e i loro diritti genitoriali venissero accettati.
di Luigi Scardigli
FIRENZE. Il coefficiente artistico di un soggetto che calca le scene lo si misura anche dal volume con il quale riesce ad occupare lo spazio. Roberto Latini, da questo punto di vista, che non è opinabile, non può prendere lezioni da nessuno. Perché nonostante non sia un marcantonio, in scena, è semplicemente monumentale, letteralmente gigantesco. A una conoscenza enciclopedica dei tempi e dei segmenti fisici occorre poi aggiungere l’utilizzo catartico che fa del diaframma, amplificato a dovere, che gioca un ruolo decisivo nell’analisi collettiva degli spettacoli. In particolare nel Cantico dei cantici, che sarà replicato stasera e domani, 28 ottobre, al Teatro di Rifredi, dopo il battesimo produttivo di Fortebraccio teatro e grazie al sostegno di Armunia Festival. L’avevamo già visto e recensito, lo spettacolo, quest’estate, al Castello di Castiglioncello. Siamo tornati a vederlo, perché era opportuno farlo: osservarlo all’opera, Roberto Latini, è un piacere indiscusso e poi, eravamo convinti che qualcosa, al debutto, ci fosse sfuggito.
di Luigi Scardigli
FIRENZE. Inutile che vi si suggerisca di non perderli; almeno in questa tornata al Foyer del Teatro di Rifredi è impossibile, perché fino a domenica prossima, le repliche sono tutte sold out. Giusto e normale, perché la partita di Bruna è la notte, senza intervallo, è un match che va visto e condiviso fino in fondo, una rappresentazione, volutamente disagiata, in perfetto precario equilibrio che si avvale di un simpatico guascone polistrumentista (al piano, alla fisarmonica e alla chitarra, ma forse, di strumenti, ne suona anche altri), Alberto Becucci e di un poliedrico mattatore, Alessandro Riccio, ancora una volta un altro, ancora una volta esemplare. Non ci dilunghiamo sulla dinamica del testo perché arriviamo a recensirlo decisamente in ritardo (è in giro da tre anni), però non ci vogliamo in alcun modo sottrarre dall’intasato incolonnamento delle lodi perché è giusto che la coppia ne faccia incetta.
PISTOIA. Dopo la rappresentazione, nell’incontro con il pubblico, Virgilio Sieni avrà anche avuto modo di spiegarli, alcuni dettagli, a cominciare dal titolo, Pulcinella Quartet. Ma al di là della profonda stima che ci lega al regista, siamo, per principio, contrari alle spiegazioni, soprattutto perché sempre atterriti dal fatto di dover poi scoprire, a carte scoperte, di non aver capito nulla di quello che volesse dire l’ideatore. In questo caso, però, ci possiamo accontentare – e ne avanzano, per un bel po’ di tempo – delle emozioni ricevute a livello epidermico dal primo spettacolo al teatro Manzoni di questa stagione 2017-18 che ancora deve iniziare, che al di là di Pulcinella, dei suoi due padroni e di Virgilio Sieni, sono state impressionanti.
di Luigi Scardigli
PISTOIA. Giorgio, Enzo, Dario e Gianmaria, i suoi maestri, se ne sono andati. Tutti. E lui, per quel patto tacito stretto con ognuno di loro, è ufficialmente autorizzato a spacciare per proprie le gags partorite da altri, quelle attorno alle quali imbastisce un discorso per poco più di un’ora e si porta, tranquillo, a casa lo spettacolo. È un buffone, Paolo Rossi, misterioso, facilitato inoltre nell’operazione clownesca da un viso incartapecorito sulle proprie false sciagure, ma sostanzialmente onesto e ogni volta che estrae dal proprio cilindro qualche gemma non originale, ha la correttezza e il buon cuore di dirlo a quale fonte si stia ispirando; a patto che si ricordi di chi si tratti, perché, come ha ribadito anche ieri sera, è sempre meglio un alcolizzato famoso che un alcolista anonimo. E anche ieri sera, 19 luglio, alla Fortezza Santa Barbara di Pistoia, il piccolo saltimbanco friulano (di Monfalcone) - milanese nello slang e nell’immaginario collettivo dei suoi numerosi estimatori - nella propria improvvisazione – parecchio rodata, in verità e ormai autotrasportata da più di un anno in tournée – accolta dalla Fondazione Giorgio Gaber, che ha devoluto l’incasso della serata alla Fondazione Firenze Radioterapia Oncologica, i suoi maestri, Gaber, Iannacci, Fo e Testa, che sono stati anche grandi amici, ha voluto ricordarli.
di Luigi Scardigli
CASTIGLIONCELLO (LI). Inequilibrio non è come inesperto, inadatto, incapace. La in prefisso, in questo caso, non è privativa, ma semplicemente scorretta e sarà proprio perché rappresenta un’eccezione alla regola dei linguaggi comuni, accettati, contemplati da slang, prima che da dizionari, che quelli di Armunia, da diciannove anni, continuano a riproporre – siamo alla xx edizione – Inequilibrio. Gli incontri sono numerosi, al Castello Pasquino di Castiglioncello, anche se rispetto agli esordi, il Comune di Rosignano Marittimo è ormai rimasto solo a credere in questa forma espressiva di arte contemporanea; gli altri, della zona balneare livornese, hanno dato forfait, preferendo restare in equilibrio, anziché inequilibrio. Ne abbiamo visti solo due: Geografie dell’istante, di Manfredi Perego, con Chiara Montalbani e Gioia Maria Morisco e Il cantico dei cantici, di e con Roberto Latini, spettacolo questo che ha sostituito, all’ultim’ora, per maltempo, Noosfera Lucignolo, sempre del vulcanico attore romano.
di Luigi Scardigli
PISTOIA. Solo San Martino di Castrozza ha ancora il fascino del secondo decennio del XX secolo, probabilmente; il conio, però, non è più quello di allora: c’è l’euro. Anche quella nobiltà, quella finta nobiltà, tipicamente austriaca, ma non solo, si è lentamente, ma inesorabilmente, sgretolata. Ci sono due cose che rendono straordinaria La signorina Else, una delle novelle più crude di Arthur Schnitzler: l’immarciscibile contemporaneità dell’opera (che ha quasi cento anni) e Lucrezia Guidone, una ronconiana ad origine controllata, un talento (in)naturale – ha studiato tanto per essere arrivata, così giovane, a quei livelli – alla quale Federico Tiezzi ha affidato, senza batter ciglio, il ruolo della protagonista. Al suo fianco, tre musicisti indispensabili alla riuscita della rappresentazione e Martino D’Amico (von Dorsday), il facoltoso amico di famiglia, che trascorre le vacanze nello stesso albergo delle Dolomiti dove soggiorna la giovane viennese, l’unico in grado di poter prestare 30.000 fiorini (che raddoppiano quasi, quando alla lettera della madre, si aggiunge il telegramma) alla famiglia utili ad evitare al padre della signorina Else, avvocato con il vizio del gioco, un clamoroso, infangante e letale arresto per furto.
di Luigi Scardigli
PISTOIA. Si relaziona solo e soltanto con il suo amico Pietro (Gianluca Casadei, al piano e alla fisarmonica), Ascanio Celestini. Rispetto a Laika, primo step di una trilogia che si chiuderà nel giro del prossimo anno, probabilmente, non è più Gesù; anzi, forse lo è ancora, ma ha superato l’esame da professionista: ha finalmente potuto lasciare la cronaca nera seguita dalla strada ed è stato nominato cronista. Da quella stanza ha scritto Che fine hanno fatto gli Indiani Pueblo? sottotitolato storia provvisoria di un giorno di pioggia. La finestra dalla quale osserva il mondo e le sue miserabili imprese è quella della redazione: se fa freddo ci sono i termosifoni accesi; se è caldo, l’aria condizionata. La casa, quella di 35 metri quadrati nella quale viveva, a Roma, davanti all’ipermercato, deve essere stata buttata giù dalle ruspe, per far posto a una rotonda, forse, o a una banca. Ma il mondo che scorre sotto è sempre lo stesso; anzi, ancor più povero e triste di prima, probabilmente.
di Luigi Scardigli
PISTOIA. Fanno lo stesso devastante effetto a Foggia come a Cuneo? Non lo sappiamo, ma si farebbe presto: basterebbe organizzar loro una tournée e stare a guardare. Qui, nei loro paraggi, dove hanno iniziato a scommettere sulla loro assoluta capacità del nonsenso, sono, letteralmente, un’istituzione. Alla Fortezza Santa Barbara, ieri notte, tra il 22 e il 23 giugno, in uno dei tanti appuntamenti di Pistoia Teatro Festival, con Gran Glassé, se n’è avuta l’ennesima popolare conferma. Anche lontano dal palco, da intuizioni recitative, da prove in vista di uno spettacolo che verrà, Francesco Rotelli, Francesca Sarteanesi, Luca Zacchini e Giulia Zacchini, Gli Omini, sono esattamente un Mario Cioni sotto controllo sedativo con licenza di esenzione farmacologica in prossimità di uno spettacolo, una massaia frustrata che avrebbe saputo fare un sacco di cose, passando velocemente e con disinvoltura da un uomo ad un altro, un diversamente abile dall’aspetto rassicurante e per questo ancor più infingardo e una tenera crocerossina che, a furia di frequentarli e accudirli, quei tre, ha finito per assimilarne tutte le psicopatie.
PISTOIA. Forse ci dobbiamo arrendere all’evidenza che la danza, quella che ci ricordiamo e che si continua a studiare in quasi tutte le scuole per adolescenti nel mondo, anche se lì, spesso, è popolata da bambine in cerca di forma e autostima, non esiste più. Da una parte è giusto: si danza la vita delle banlieu in inverno, non i sogni del quartier Latino di mezza estate, ormai ridotti al lanternino in termini di percentuali esaustive. Il merito, o la colpa, scegliete voi, è tutto di Pina Bausch e di quello che è riuscita a instillare nelle visioni artistiche dei suoi discepoli. Una di queste, tra le più rappresentative, è quel genio straordinario di Cristiana Morganti, che ieri sera, al Teatro Manzoni di Pistoia, all’interno della copiosissima rassegna Pistoia Teatro Festival, ha portato in scena A fury tale, una favola vera, decidendo però di stare tra gli spettatori e affidando il racconto della sua vita e di quella di migliaia di altre donne, a Brianna O’Mara e Anna Wehsarg.
PISTOIA. È un testo per i giovani, La rivoluzione è facile se sai come farla. È scritto sul depliant. Vecchietti come noi, nel giardino della Fortezza Santa Barbara, a Pistoia, infatti, ce n’erano davvero pochi per questo appuntamento notturno, anziché serale, del Pistoia Teatro Festival, scheggia naturale di Teatri di Confine e necessaria per questa (im)provvida incoronazione pistoiese a Capitale della Cultura. Ma più che il testo, riservato ai giovani, è stato l’orario: alla nostra età, iniziare ad assistere ad uno spettacolo, particolarmente complesso, seppur ameno, soprattutto nel dipanamento delle premesse, intorno alle 23, è dura. Ce l’abbiamo fatta, comunque, ad arrivare fino in fondo, ma non è stato semplicissimo. E non perché i tre battitori liberi, Paola Aiello, Nicola Borghesi, che firma anche la regia e Lodo Guenzi siano degli sprovveduti.
di Luigi Scardigli
PRATO. Più brava che irriverente, Silvia Gallerano, interprete direttissima, solitaria e parecchio punk di La merda, lo spettacolo di Cristian Ceresoli andato in scena alle biblioteche Lazzerini di Prato. Sì, perché l’attrice ha dei numeri straordinari, figli di studi meticolosi fatti sul diaframma e sul corpo, con estrema attenzione per le estremità: gli arti inferiori e il viso. Dello spettacolo, che raccoglie incetta di premi e riconoscimenti da circa cinque anni ovunque venga ospitata la rappresentazione, evitiamo di parlarvene: è la denuncia del sistema elevata a sistema, nell’antico, perverso e irrisolvibile meccanismo della domanda maschista e dell’offerta femminile, un puzzle dove vittime e carnefici si scambiano ripetutamente ruoli e posizioni alimentando il disgusto degli spettatori, che sono a loro volta, prima e dopo la rappresentazione, soggetti prelibati delle stesse identiche nefandezze. Il testo è geniale, nella veloce disamina del rapporto padre-figlia e della voglia/diritto, legittima, della figlia diventata donna, di affermarsi; anche lessicalmente: la merda è impronunciabile e quasi mai pronunciata, ma rende perfettamente l'idea; ancor più geniale la sua incarnazione, nel corpo di una bambina che si presenta completamente nuda sulla scena e nuda resta per l’intera durata dello spettacolo, con una strategica disaffezione ai dettagli.
di Luigi Scardigli
PESCIA (PT). Canta, con dovizia di intonazione; recita, con estrema disinvoltura; balla, con tempo e utilizzando il rotear delle mani, e senza suscitare sangue; esercita un’attraente mimica facciale, per non parlare delle voci gergali (straordinaria quando indossa i panni tremuli e caduchi della nonna di Cappuccetto rosso, una vecchia fiorentina con un trascorso di tossicodipendenze) e ha, soprattutto, un senso, smisurato, dell’humor. Erano, questi, una volta, i requisiti che animavano le migliori soubrette: ci vengono in mente Mina e Loretta Goggi, tanto per citare due vallette straordinarie. Manuela Bollani, showgirl di razza, antica, genuina, ce l’ha tutte e ieri sera, al Teatro Pacini di Pescia, con il suo C’era una svolta, le ha snocciolate una a una, mettendo in scena un musical atipico, tra lo (s)concerto e lo (s)cabaret.
di Luigi Scardigli
PISTOIA. Enigmistico e profetico, caustico e delirante, geniale nel senso aladinico del termine, sobillante, istigatore, rivoluzionario, preveggente, ma antico, cultore sofista della parola, della sua forza e delle sue molteplici sfaccettature, non solo toniche e grammaticali, ma significanti. Alessandro Bergonzoni è ancora così, per fortuna, come lo è sempre stato, anche se con qualche chilo in meno, a onor del vero; così lo abbiamo conosciuto e così sarà consegnato ai posteri. E già questo, la sadica necessità dell'informazione patinata di creare un collegamento tra la vita e la morte, è un argomento particolarmente delicato, uno dei tanti che ieri sera, dopo la proiezione di Urge, il suo spettacolo/film, ha affrontato nell’incontro con il pubblico del Funaro, che lo ha invitato in questo onorevolissimo, ma non meno oneroso, anno epocale di Pistoia capitale della cultura.
di Luigi Scardigli
PRATO. Sadico e claustrofobico. Come le nostre esistenze, del resto, soprattutto quando proviamo, anche solo per gioco, anzi, peggio, a interrogarci sul tempo che abbiamo trascorso insieme alla nostra metà, spesso individuata per convenienza, e decidiamo di vuotare tutti i sacchi, casomai approfittando della visita, notturna, indelicata, ma non inaspettata, di una giovane coppia conosciuta la sera stessa. Sul tavolo del salotto di Martha e George (Milvia Marigliano e Arturo Cirillo, che firma anche la regia) ci sono un’infinità di bottiglie e calici, che si riempiono e si svuotano a velocità supersonica; alle due di notte, arrivano i giovani sposini, Nick e Honey (Davide Enea Casarin e Valentina Picello), che nonostante sembrino essere ancora nella fase onirica e illusoria, si adegueranno presto, calandosi perfettamente nel ruolo della vittima/carnefice, al silente gioco del vicendevole massacro prestabilito.
Leggi tutto: Solo chi è senza peccato non teme Virginia Woolf
di Luigi Scardigli
PRATO. Dove finisce il capolavoro e inizia il mistero, che tracima nell’irritazione? Le opere di Romeo Castellucci sono, sistematicamente, esposte a questi insindacabili, ma flessuosissimi, dualismi e Democracy in America (prodotto dalla sua Societas), in scena, in prima nazionale, al Metastasio di Prato, è una di queste, appartenente, con estrema disinvoltura, tanto al primo che al secondo gruppo di pensiero/giudizio. La trasposizione teatrale dell’opera sociologica di Alexis de Tocquevilley è molto libera, iper reale, drammatica nel suo aspetto caricaturale, sofisticamente comica e offre, al regista, scenografo, costumista e responsabile delle ombre, più che delle luci, Romeo Castellucci (solo le musiche sono curate da un estraneo, Scott Gibbons), ogni divagazione, rischiando - e questo è il suo più grande godimento -, puntualmente, di essere osannato tra i profeti o venir condannato a trascorrere il tempo, fino al successivo impianto teatrale, nel girone dei blasfemi.
di Luigi Scardigli
PRATO. Nemmeno all’Unione Sovietica piaceva un granché Tito, tanto che alla prima buona occasione, lo lasciò in balìa di se stesso, coinvolgendo in questo isolamento tutti gli altri Paesi dell’Est europeo comunista. Dal 5 maggio 1980 in poi, dal giorno successivo a quello della sua morte, la Jugoslavia, anzi, la ex Jugoslavia, è diventato unicamente uno scannatoio, una mattanza senza precedenti, con vari dittatori altamente sanguinari (Milosevic su tutti) che hanno cercato di annientare e annichilire le varie etnie slave fino ad allora virtualmente coese, o civilmente represse. Fiona Sansone, giovane regista di Teramo, ha raccolto l’invito della protagonista di mettere in scena, prodotto dalla CSS, Teatro Stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia, quel che Mirjana Bobic Mojsilovic ha pubblicato nel suo romanzo, Diario di una casalinga serba.
di Luigi Scardigli
FIRENZE. È consigliabile, cari mariti, che la spesa andiate a farla voi, anche se siete stanchissimi; soprattutto se tra gli acquisti c’è il detergente. Sì, perché se la lista delle cose da comprare la prendono le vostri mogli e, per praticità, si servono al mercato cosmopolita, che è quello più vicino a casa, statene certi: una sera, rientrando dal lavoro, troverete la vostra metà avvinghiata a Yosip, un rozzo, ma fascinoso croato/balcanico. E non vi fate accecare dalla gelosia, non servirebbe a nulla: il ragazzo ha una sfilza di cugini incredibilmente somiglianti, che si chiamano, tra l’altro, tutti con lo stesso nome. La metafora sull’impossibilità culturale, prima ancora che etnica e fisica, di isolarsi in un angolo incontaminato dal resto del mondo, è paradossalmente, allegramente e cinicamente rappresentata da Angelo Savelli, che dirige Antonella Questa, Ciro Masella e Fulvio Cauteruccio in Alpenstock, scritta oltre dieci anni fa dal drammaturgo francese Rémi De Vos e portata in scena, dopo essere stata tradotta dalla protagonista, al Teatro di Rifredi, in prima nazionale, dal regista fiorentino.
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di Luigi Scardigli
LAMPORECCHIO (PT). Sono chimicamente simpatici, quelli dei Sacchi di sabbia, così come lo è sicuramente stato, storicamente, Luciano di Samosata, novelliere greco che visse e sbeffeggiò l’ambiente ormai diciotto secoli or sono. Da allora, è cambiato poco o nulla, anche se noi contemporanei, come tutti i contemporanei, del resto, ci si fregi puntualmente di essere primati. E invece, tutto, o quasi, è già stato scritto. Lo sa bene Massimiliano Civica, questo, che con la complicità della compagnia Lombardi/Tiezzi e con il sostegno di Armunia, ha allestito I dialoghi degli Dei, uno dei suoi spettacoli minimalisti, orfano di scenografia, musica e suppellettili, ma non per questo ridotto, se non nella durata.
di Alagia Scardigli
PISTOIA. William Blake in vita pensò a scrivere e a disegnare per rappresentare le sue visioni. Probabilmente, se ci fossero stati mezzi adatti già a quei tempi, avrebbe anche registrato qualcosa di musicale o di visivo per i posteri. Ma, almeno questo, lo ha lasciato fare a noi. E, dunque, il nostro modo per omaggiarlo non può essere se non qualcosa che già è insito nelle sue poesie: musica, suoni, rumori, immagini. Nello spettacolo Blake EternalLife Show, prodotto dal Teatro del Carretto e scritto dalla coppia Pappacena/Vezzani, in scena ieri, 21 aprile, in prima nazionale al Funaro di Pistoia, vediamo all’opera quel che Blake ci ha lasciato per iscritto. L’obiettivo era dare voce a ciò che non poteva, all’epoca, essere tramandato in questo modo. E, così, due voci femminili (Elena Nenè Barini e Elsa Bossi) e due maschili (Giacomo Vezzani e Fabio Pappacena) cantano i versi del poeta visionario.
di Luigi Scardigli
BAGNO A RIPOLI (FI). Solo le favole si chiudono, abitualmente, con …e tutti vissero felici e contenti. Nella realtà, invece, le cose, vanno quasi sempre al contrario; per i portatori di disabilità, il quasi, è eufemistico. Con lo speaker di Isoradio in sottofondo e la pioggia che scroscia di fuori (due elementi che si appiccicano ai ricordi del pluripremiato capolavoro sul grande schermo), H come amore –prodotto da Tedavi ’98 - è una storia di queste, anche se la speranza che anche da noi, come altrove, dove la Chiesa non detta condizioni, un giorno il vento possa cambiare direzione ha spinto Alessandro Riccio, scrittore, regista e protagonista dello spettacolo che ieri sera ha chiuso le repliche al Teatro Antella di Bagno a Ripoli a indurre Halina (Gaia Nanni), una prostituta russa, a lasciare nell’appartamento, dove Stefano (Alessandro Riccio) vive con sua madre (Deanna Melai), la borsa piena di soldi pattuiti per la prestazione.
di Luigi Scardigli
PISTOIA. La premessa di subdolo pacifismo ci aveva tratto in inganno; poi, però, il Giulio Cesare di Alex Rigola si è fortunatamente dimenticato dell’autoantefatto del Nobel obamiano e si è beatamente spianato per l’intera rappresentazione, raggiungendo picchi di capolavoro in più di una circostanza. Certo, l’opera originaria di William Shakesperare non ha bisogno di molto altro, per arrivare a dama e in tripudio, in ogni stagione e al cospetto di qualunque pubblico, ma la mano del regista spagnolo è parsa parecchio coraggiosa, audace, contaminante, a volte delirante, ma sempre calibrata, attenta, lucida. A iniziare dall’effetto introduttivo cinematografico, che ricorda la produzione del Teatro Stabile del Veneto; uno schermo che è anche un parallelepipedo e nel quale entrano ed escono vincitori e vinti.
di Luigi Scardigli
FIRENZE. Dobbiamo iniziare ad arrenderci al personaggio Alessandro Riccio. E non lo diciamo con l’alterigia di chi stenti a riconoscere di aver preso un abbaglio, ma nelle precedenti rappresentazioni teatrali, l’autore/attore fiorentino, seppur non mostrando mai il fianco alla possibilità di non essere preso nella debita e meritata considerazione, non ci aveva mai convinto. Ieri sera però, con il suo nuovo spettacolo, Sotto spirito, al Teatro di Rifredi, il suo neo-verismo è andato decisamente oltre ogni nostra ingiustificata diffidenza e al termine della rivisitazione della vita di Eusapia Palladino, la maga (?) pugliese naturalizzatasi napoletana che divise letteralmente l’Europa illuminista e scientifica del secondo ‘800 tra fervidi fautori e insolentiti detrattori, non possiamo che unirci al coro, sguaiato, ma colorito, di tutti quelli che in lui han sempre creduto.
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di Luigi Scardigli
PRATO. Una nuova famiglia, allargata, di diseredati, ognuno con il proprio nome, politicamente scorretto: un vecchio, un negro, una malata d’alzhaimer e una puttana, Vivono tutti lì, attorno a quell’appartamento di una qualsiasi anonima periferia di appena 35 metri quadrati, calpestabili, dove ci abita Gesù (Ascanio Celestini), alcolizzato, di sambuca e delle peggiori marche e il suo amico Pietro (Gianluca Casadei, che suona la fisarmonica e parla con la voce di Alba Rohrwacher). Sono i personaggi di Laika, lo spettacolo del rapper di Morena, che ignora la musica, ma che riesce comunque a suonare, in scena al Metastasio di Prato. È un giorno come gli altri, di quelli passati e di quelli che verranno. La fine è alle porte; come l’inizio, purtroppo. Non c’è più scampo. È il teatro della parola, alcune volte balbettata, per timore di dirle troppo grosse, perché per i miracoli ci vogliono i santi, che prima, però, devono morire.
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di Luigi Scardigli
PRATO. Scritto da Michele Sinisi, con Francesco Asselta e, in ordine alfabetico, con Diletta Acquaviva, Stefano Braschi, Gianni D’Addario, Gianluca Delle Fontane, Giulia Eugeni, Francesca Gabucci, Ciro Masella, Stefania Medri, Giuditta Mingucci, Donato Paternoster e Michele Sinisi. La regia è di Michele Sinisi, coadiuvato da Domenico Ingenito e Roberta Rosignoli; Federico Biancalani firma la scenografia, i costumi sono di Gdf Studio; Arman Avetikyan è l’aiuto costumista. Il testo, notoriamente leggendario, imperituro, eterno, è di Eduardo Scarpetta: la commedia è Miseria e nobiltà e quello che sono riusciti a riprodurre questo nugolo di professionisti citati uno ad uno è semplicemente sublime.
di Luigi Scardigli
FIRENZE. E della felicità, ne vogliamo parlare? Sì, certo, ma come! Perché la grande domanda, alla quale rispondere è un’impresa, consiste proprio in questo: che cos’è la felicità? È avere il più possibile, forse. Ma quando la felicità si compra, non se ne ha mai abbastanza. Michele Santeramo ha così deciso di ridurla all’essenziale la propria ricetta, ipotizzandone il minimo indispensabile per riuscire a sopravvivere e poter così dedicare ogni attimo della nostra vita alla ricerca del piacere, fino alla sua più estrema conseguenza, che è poi la giustificazione delle nostre ansie, la morte. Il suo nullafacente, per la regia di Roberto Bacci, in scena al Teatro di Scandicci con una strepitosa Silvia Pasello e tre comprimari che sanno di contorno: suo fratello, Francesco Puleo, il medico, suo ex compagno, Tazio Torrini e l’affittuario dell’immobile dove sopravvive a stento, Michele Cipriani, ne è una tragica meravigliosa testimonianza.
MONSUMMANO (PT). Un quintetto così chimicamente assortito riscuoterebbe comunque successo, divertimento e applausi, anche se, salendo sul palco, decidesse di tacere. Sì, perché Giovanni Guerrieri, Giuliana Gallo, Gabriele Carli, Enzo Illiano e Giulia Solano, che ieri sera, al Teatro Yves Montand di Monsummano – Pistoia -, hanno dato vita a Piccoli suicidi in ottava rima, sono cinque soggetti straordinari, con la dote, rara, di non prendersi affatto sul serio, anche se la loro comicità non è affatto frutto di coincidenze adolescenziali, né il risultato, sorprendente, ma puramente fortunoso, di gratta e vinci. Giocano su una falsa improvvisazione, cara ai cantari trecenteschi - che abbondavano nella zona appenninica tosco-emiliana nel XIV secolo - che avvertirono la necessità di contrastare la sin troppo dotta terzina dantesca con la loro ottava rima.