SPEZIA. Diffidate dei Villaggi all inclusive, quelli che vi fanno sentire a casa vostra anche se da casa vostra a dove siete in quel preciso momento ci saranno migliaia di chilometri. Quando viaggiate, non portatevi gli spaghetti da casa; mettetevi a tavola con gli indigeni e assaporate quello che non pensavate nemmeno fosse commestibile. Così, al ritorno, avrete un ricordo vero e un’esperienza. L’intro, per parlarvi del concerto di Nina Zilli, ce lo ha suggerito il mare, quello che protegge, blocca e istiga (a tentare di partire) piazza Europa, a Spezia, dove l’organizzazione del 56esimo Festival jazz ha allestito il palcoscenico. L’anfiteatro naturale, fiancheggiato da poderosi ma eleganti condomini, aspetta in preghiera che cali la sera perché la temperatura diurna è stordente. Il brulicare di sudamericani dalla deambulazione strascicata stride decisamente con la riservatezza da Belle époque che da sempre contraddistingue la Liguria tutta, Spezia compresa, anche se è subito dopo il limitare toscano. In piazza, però, non ci sono cubani, né ecuadoregni. Ci sono solo indigeni, di mezza età; quella fascia anagrafico/sociale che ha riconosciuto a Maria Chiara Fraschetta, generalità da manager dell’Emilia che strizza l’occhio alla Lombardia, se avesse scelto la strada del marketing invece che della musica, il merito di riassumere, in un sol corpo e in una sola identità varie anime strumentali, prima di decidere di chiamarsi con il nome – Nina - di uno dei suoi idoli (Nina Simone) e il cognome – Zilli (della madre) - veloce, allegro, onomatopeico del corpo che lo porta a spasso. A poco più di un anno dalla nascita della sua (loro; il papà è Daniele Lazzarin, in arte Danti) Anna Blue, la 44enne piacentina è tornata a essere quella splendida gazzella che ogni volta che canta ricorda, davvero, un nugolo di illustri cantanti; dalle nere del soul e del R&B, alle bianche italiane, passando quasi sempre sotto le grinfie del reggae, con un naturale, invidiabile e poliedrico camaleontismo. Per iniziare a dare vita alle danze, Nina e il suo staff hanno inutilmente aspettato che la temperatura si refrigerasse un po’. Quando si sono accorti che non ci sarebbe stato nulla da fare, hanno chiesto a Orazio Nicoletti, il bassista della formazione che sogna di diventare un crooner con la sua chitarra, di preparare la scena. Quattro brani, di ottima fattura, beninteso, ma che hanno avuto soprattutto il merito di far venire l’acquolina in bocca al pubblico accorso per ascoltare e vedere la grande attrattiva del giorno. E sul limitare delle ore 22, eccola finalmente: in total white, con Nico Roccamo alla batteria, Riccardo Di Paola al piano, Orazio Nicoletti (come già detto) al basso, Stefano Brandoni alla chitarra e Pepe Ragonese e Michele Monestiroli alla tromba e al sax intonare, dopo un’intro universale (Feeling good), 50mila, il suo battesimo discografico ufficiale, nel 2009, dopo un lungo, faticoso, ma ricco e produttivo peregrinare in giro per il mondo, a raccogliere informazioni, stili, sonorità, culture e senza mai portarsi dietro gli spaghetti, che a vederla, ha sempre mangiato con grande parsimonia, è lecito sentenziare. Dal soprapalco con i suoi strumentisti, al palco al cospetto delle prime file del pubblico. La prima parte, nella quale snocciola L’inferno, Bacio d’addio, L’amore è femmina e un medley di reggae (cosa che le si addice meravigliosamente), Nina Zilli è costantemente tentata di liberarsi del giacchetto bianco che indossa, soprattutto pensando alla mise con la quale si esibirà nel secondo step del concerto, con un improbabile abito da sposa con uno strascico a ponpon che si apre con una delle canzoni più belle del pianeta, I’d rather go blind, scritta e portata nell’olimpo da Etta James, ma successivamente beatificata anche dalla voce di Bet Hurt, ad esempio, sia accompagnata dalla divinità Jeff Beck alla chitarra, che da uno dei suoi eredi minori, Joe Bonamassa. Con quel palandrano bianco, decisamente ingombrante soprattutto in relazione alla temperatura, che non accenna a scemare nemmeno con il calare della notte, le esibizioni si limitano a Per Sempre e Sola, che anticipano l’ultimo pezzo di strada del concerto, stavolta con un vestitino stile Disegual e un paio di stivali nerissimi, fin sopra il ginocchio, da Erykah Badu passando attraverso Impazzivo per te, L’uomo che amava le donne, Innamorata, Mi hai fatto fare tardi e uno dei brani sempiterni della canzone italiana, Se bruciasse la città, che Massimo Ranieri presta volentieri a tutti quelli che decidono di confrontarcisi. La macchina è nel parcheggio proprio sotto la piazza; saremmo tentati, per rincasare, di farci tutta l’Aurelia fino a Migliarino e poi prendere l’autostrada a Pisa nord. In macchina, con tutti i finestrini aperti, la temperatura è gradevole e poi, sintonizzati, come sempre, su Radio Monte Carlo, a quell’ora, dopo la benedizione di Nick the NightFly, va in onda Blue Moon, una straordinaria rilettura di tutto il cosmo dei grandi classici. Un congedarsi ideale da una giornata torrida, alleggerita e rinfrescata dalla voce, dal sound, dal groove e dalla leggerezza, gradevolissime, di Nina Zilli, che ci eravamo ripromessi di andare a sentire dal vivo il prima possibile, non appena ce ne fosse stata la possibilità.