di Luigi Scardigli

QUARRATA (PT). Anche Lello Arena e la sua compagnia Ente Teatro Cronaca Vesuvioteatro non ha resistito alla tentazione di mettere le mani su una delle opere più longeve e inflazionate della storia della recitazione: L’avaro, rappresentato al Nazionale di Quarrata come primo appuntamento del 2016 della stagione in corso d'opera.

 

Un lavoro certosino, visto e considerato che la commedia iniziale, della seconda metà del ‘600, contempla ben cinque atti che il mattatore napoletano è riuscito, senza dimenticare nulla di importante per strada, a racchiuderli nello spazio di un paio d’ore, con tanto di intervallo. La trama e gli umori sono noti: tutto ruota attorno alla taccagneria di Arpagone, non solo ai suoi diecimila scudi d’oro conservati nella cassetta a sua volta nascosta nel tessuto di una delle poltrone del salotto. Con la sua fortuna, il vecchio tragicomico protagonista crede di poter governare anche gli umori della famiglia, della servitù e dell’intera contea che, seppur penda dalle proprie labbra, non perde occasione, in sua assenza, di deriderlo, disprezzarlo, odiarlo.

Accanto alla figura del goffo, vecchio e malconcio protagonista ruotano tutti gli altri comprimari dell’antichissima commedia, che trae spunto, addirittura, dalla commediografia latina, perfettamente cadenzati dal regista Claudio Di Plama: Fabrizio Vona, Francesco DiTrio, Fabrizio Bordignon, Enzo Mirone, Rossella Pugliese, Antonella Romano e Maria Sperandeo.

Il mix franco-latino con le asperità, tragicomiche, partenopee non sempre rende quanto dovrebbe, però: colpa, forse, di un timore riverenziale eccessivo nei confronti della stesura originaria o di una scarsa dimestichezza con l’impadronirsi di un’opera tanto nota e solida e provare a manometterla fino a renderla inverosimile, a tratti irriconoscibile. Meglio non correre rischi inutili, avranno pensato tutti gli addetti ai lavori e allora, le uniche divagazioni sul tema sono state rappresentate dal gesto dell'ombrello, da una cadenza strascicata o dai sibili e dai gorgheggi del vecchio Arpagone che in più di una circostanza ha richiamato alla memoria uno degli sketch più difficilmente dimenticabili della Smorfia, quando Lello Arena vestiva i panni dell’arcangelo Gabriele e, munito di una trombetta assordante, portava a Maria (Massimo Troisi), l’annunciazione della maternità.

E nemmeno una scenografia pluridimensionale e pluridimensionata, con il livello inferiore costantemente popolato dalla vita della commedia e quello superiore considerato e contemplato solo nel momento del furto dei 10.000 scudi d’oro, è riuscito a dare a questo super inflazionato Avaro il sapore di una novità. Se poi per teatro intendiamo una commedia che riduca errori e dimenticanze sotto la soglia delle naturali impurità fisiologiche, come per l’esame di teoria per la patente, la prova si intende superata. Ma lo stesso Plauto e soprattutto Moliére, probabilmente, avrebbero desiderato un po’ più di coraggio da quelli postumi che ne avessero voluto rileggere l'ironia.

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