di Luigi Scardigli

CAMPI BISENZIO (FI). L’atmosfera è esemplare. Sul palco del TeatroDante di Campi Bisenzio, intitolato a Carlo Monni, Angelo Savelli, il regista dell’Ultimo harem, che porta in scena da oltre dieci anni, ha organizzato tutto alla perfezione: ad iniziare dalla disposizione del pubblico, che non è in platea e in galleria, ma lì, vicinissimo alla scena, ad emiciclo, seduti uno accanto all’altro, a sentir respirare i protagonisti, in un’alcova suggestiva, resa ancor più struggente dai fumi esotici che sgorgano non si sa da dove, due fontane che zampillano ininterrottamente e la voce narrante, oltre ad una serie di personaggi che interpreta con sorprendente naturalezza, di una damigella doc, Serra Yilmaz.

 

Con l’attrice turca, musa indissolubile delle pellicole di Ozpetek, ci sono due giovani affatto male: Riccardo Naldini, che vesti gli abiti dell’eunuco e del giovane intraprendente orafo e Valentina Chico, un’avvenente circassa che scandisce perfettamente le parole pronunciate con velocità imbarazzante e che si mostra impaziente di essere scelta come preferita per la notte che verrà dal sultano dell’ultimo harem. Siamo in Turchia e siamo nel bel mezzo della rivolta dei giovani turchi, gruppo indipendentista capitanato dal giovanissimo Riza e ci sono i presupposti per catapultare quell’infingarda gabbia dorata nella quale sono recluse, da secoli, le donne di tutto il mondo, in ogni altra stagione. Angelo Savelli, del resto, è di questo che vuol parlare, ma nei novanta minuti che si prende a disposizione decide, discutibilmente, di non affondare mai il coltello nella piaga, restando sospeso sulla corda dello spettacolo fiabesco, impeccabilmente rappresentato dai tre protagonisti, perfettamente oliati e rodati negli abiti che indossano, con sprazzi di umore inglese di comprovata gradevolezza, con Valentina Chico che si prende la scena tanto per un fisico scultoreo, quanto per un diaframma agevole e scansonato.

Ma al di là della doverosa fedeltà che ha voluto portare alle mille e una notte, il regista avrebbe avuto forse l’opportunità e, per noi, il dovere, di cogliere la fantastica occasione orientale e scagliare, dopo due lustri di repliche, con la leggerezza che lo contraddistingue da sempre, strali parecchio velenosi verso uno stereotipo di rapporto uomo-donna che, nonostante la modernità che avanza e i falsi equilibri, continua a sostenersi su una discutibilissima e irritante dipendenza. Insomma, senza arrivare a scomodare le agghiaccianti previsioni pasoliniane, Angelo Savelli, anche e soprattutto senza sfruttare a dovere la versatilità ginnica ed emotiva dei due giovani attori e girando sornionamente alla larga dal nocciolo della questione, ha volutamente evitato lo scontro diretto, fragoroso e cruento con il mondo dello spettacolo, quello che popola le sale dei teatri nei fine settimana e che non ha alcuna voglia di mettere e mettersi in discussione con quello che succede tutto il giorno e tutti i giorni fuori.

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