di Luigi Scardigli

FIRENZE. Un’ingegnosa e assortita macedonia di cinema, cabaret e spettacolo, ma con tutta la merda alla quale si offre la possibilità di andare in scena, benvenuto Thanks for Vaselina, la rappresentazione che la Carrozzeria Orfeo sta portando nelle sale di tutta Italia e che stasera (si replica domani, mercoledì 10 febbraio) è stata ricevuta dall’entusiasta pubblico del Teatro di Rifredi, a Firenze.

 

I cinque protagonisti, sintonici, passionali, veloci, sufficientemente coinvolti, sono un distillato esemplare di una società confusa, alla ricerca di risposte, che, tranquillizzatevi, non arriveranno certo ora, ma neanche dopo. Un figlio cresciuto altrove (Gabriele De Luca) per una madre tossica (Beatrice Schiros), di robba e slot machine e un padre (Ciro Masella) che in Messico, alla ricerca di peyote, ha trovato anche la sua doppia identità sessuale, salvato dalla prostituzione da una fanatica setta religiosa; il suo compagno di traffici illeciti (Massimiliano Setti), ambientalista e animalista, un po’ impegnato, che cerca di riportare in Messico la marijuana per sconfiggere così il capitalismo statunitense e una cicciona (Francesca Turrini) innamorata del proprio fratellino disabile, al quale, il martedì, oltre che il gelato, porta anche il ristoro erotico e che entra in sintonia con lo sfrassolato gruppo sociale perché nel suo vasto sedere, ammorbidito dalla vasellina, troveranno sicuramente posto i flaconi dei semi della sostanza stupefacente.

Tutti insieme, in questo appartamento, dove si fanno crescere, accudendole con cura e amore, le piante di marijuana, delle quali, una prima partita, è andata persa chissà dove perché inopportunamente affidata ad un cagnolino con una protesi ad un’anca. Il pretesto, condito da un vocabolario ostinatamente scurrile, ma mai volgare, è l’ideale perché le cinque anime vengano a contatto, trasformandosi, costantemente, in vittime/carnefici, una comunione nella quale, ognuno, porta in dote le proprie frustrazioni, ma anche i sogni, i desideri di riscatto; un mare di amori/odii, un continuo e repentino rovesciamento di fronti e ruoli, una famiglia disegnata da Schultz ai tempi del colera (dell'Ipod), un isterismo collettivo che ha soltanto bisogno di esere ascoltato, prima che capito. La tensione, preparata con cura nelle premesse, non scende più: resta sistematicamente in volo, ma senza allontanarsi troppo da terra, in modo che tutti riescano a vedere e sentire cosa stia succedendo sul palco. Alla solitudine di ognuno è offerta la possibilità di poter venir sconfitta da un amore collettivo, almeno quello che potrebbe generarsi nell’appartamento, dove si ritrovano tutti, entrando e uscendo dalla porta, come se si trattasse di un happening. Le battute agrodolci, i proclami politicamente (s)corretti, il ritmo calzante, caro ad uno Zelig qualsiasi, da imminenza pubblicitaria, tanto per intenderci e una buona dose di rinnovamento, sulle solide basi del teatro di sempre, quello dal quale non ci si può e non ci si deve affrancare, accompagnano i novanta minuti di rappresentazione, la migliore risposta agli attualissimi intendimenti politici soprattutto alla frontiera con i nuovi turbatamenti societari, quelli dell’amore inteso come tale, quello indispensabile, terribililmente tenero, sensuale e sessuale, ma asessuato.

Con un epilogo/omaggio agli incommensurabili fratelli Cohen e ad una delle loro pellicole generazionali, Il grande Lebownski, con la pipì (le ceneri) che non va dove dovrebbe andare perché improvvisamente arriva un’inaspettata folata di vento.

Pin It