di Luigi Scardigli

MONSUMMANO (PT). Molière ignorava Sanremo. Figuriamoci Juve-Napoli. Il resto, va da sé, come l’Yves Montand quasi deserto, sabato 13 febbraio, per assistere al riadattamento, fedelissimo, ma slangato in veneto, soprattutto negli sfoghi di Martine, la serva pratica, di Monica Conti del penultimo pezzo del novellista francese, Le intellettuali. Peccato per gli assenti, anche se la rappresentazione non abbia scosso le fondamenta delle certezze da palcoscenico, perché i nove protagonisti in scena (Maria Ariis, Stefano Braschi, Marco Cacciola, Monica Conti, Federico Fabiani, Gaia Insegna, Miro Landoni, Stefania Medri e Robedrto Trifirò) avrebbero meritato il pienone e una fragorosa sequela di applausi.

 

Sono le ferree leggi di un mercato drogato, quelle che immobilizzano davanti alla tivvù che mostra atti osceni non solo i telecomandati, ma anche i possessori dell’abbonamento e addirittura coloro i quali si erano assicurati un biglietto. Pazienza. La storia è nota e nonostante sia terribilmente datata (la prima rappresentazione è del 1672), conserva ancora tutto il fascino della meschinità umana, soprattutto alle prese con i soldi. Perché è una commedia che racconta di un falso intellettuale, Trissotin, che finge di avere a cuore le sorti sentimentali, nonché matrimoniali, di Henriette, sorella di Armande e figlie di Chrysale e Philaminite, famiglia benestante con un cospicuo patrimonio.

Le conversazioni, serrate e spigolose, non hanno un momento di tregua: si susseguono incalzanti senza mai perdere l’aplomb del periodo, anche quando a parlare è il rozzo Clitandre, amante respinto da Armande e che trova consolazione e ristoro con la sorella Henriette. Sullo sfondo la ricerca ossessiva della cultura sonante, quella da salotto, di cui si cibano, quotidianamente, ma senza percepirne la vuotezza, Armande, Philaminite e la cognata Bélise. Il lieto fine, favorito da una menzogna di un’ipotetica doppia bancarotta della famiglia architettata da un notaio che parteggia per l’amore sincero e disinteressato del focoso Clitandre, chiude inevitabilmente la scena, lasciando nella bocca e negli occhi dei pochissimi spettatori il gusto, saggio, di aver rinunciato, almeno per una sera, alla droga catodica.

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