di Luigi Scardigli
PISTOIA. Non è vestito di nero, come L’A e non è lui che organizza un misterioso appuntamento. Ma questo Chi è di scena o più semplicemente Se (al Teatro Manzoni di Pistoia questo fine settimana), ricorda, parecchio, uno dei precedenti lavori di Alessandro Benvenuti, quel T.T.T.T. (Beckettio), prodotto e mandato in scena nel 1998 e troppo presto, forse, messo nell’armadio.
La vena surreale, beckettiana, però, è analoga. Stavolta, quello che crede essere il carnefice riparatore (Alessandro Benvenuti) di uno stalker sprovveduto è in realtà la vittima, benevola, della nipote (Maria Vittoria Argenti) che, d’accordo con un suo amico (Paolo Cioni) che si finge aggressore viscido prima e giornalista intimorito poi, organizza un’intervista allo zio, caduto in silenziosa disgrazia da ben cinque anni, un lustro fosco e buio che lo colloca, irreparabilmente, nel dimenticatoio delle prime pagine, gettandolo in uno sconforto nichilista dal quale sembra non ci siano più le condizioni perché si possa riprendere. Il gioco dello spettacolo è lo stesso di sempre, nella lunga e divertente carriera di uno dei tre indimenticabili Giancattivi: le conversazioni sono una cascata di doppi sensi, di non sense, come i toni, ondivaghi, ora aggressivi e paurosi, ora suadenti e rassicuranti. La scenografia anche ricalca fedelmente il minimalismo storico di Benvenuti: stavolta, sulla scena, ci sono solo due poltrone, una piccola macchina da presa per effettuare l’inverosimile intervista e una chaise longue, dove riposa, dando le spalle al pubblico, una donna che offre, in pasto tanto al pubblico quanto all'ospite tatticamente imbarazzato, solo la parte superiore della sua schiena.

Con una postilla che è, contemporaneamente, un segnale inequivocabile di feconda vecchiaia e un omaggio alla recente promozione ottenuta dalla città di Pistoia, recentemente nominata, per il prossimo 2017, capitale italiana della cultura: la forza del teatro, dello spettacolo in generale. Alessandro Benvenuti insomma non è più quell’essere misterioso di diciotto anni fa che rivela i loro misriosi trascorsi a Silvanino, Riccardino e Andreino (Daniele Trambusti, Andrea Muzzi e Gianni Pellegrino, gli altri tre nello spettacolo Beckettio), ma è comunque rimasto il capocomico di allora, che ha però preferito sostituire gli insondabili misteri della vita con le altrettanto misteriose forze della sopravvivenza. La dinamica, però, è la stessa, imbevuta di quell’espressionismo sintattico toscano, uno slang che gode di un cromatismo naturale che è già, di per sé, spettacolo e che danza, in costante precario equilibrio, lungo la corda dell’iperreale, sottesa tra le due estremità della vita e della morte, un percorso che, volente o nolente, siamo tutti costretti a tracciare. L’epilogo, però, è forse eccessivamente esplicativo: troppi dettagli svelatori, troppi anelli offerti per ricongiungere la catena e la trama della rappresentazione. Bastava un piccolo complice sorriso tra i due comprimari mentre abbandonano la scena e il seppur faticoso abbandono della sedie a rotelle da parte dello zio a decretare, insindacabilmente, come lo spettacolo, dietro il sipario e nelle nostre vite, oltre che dover continuare, è bene per tutti che non si fermi. Mai.
