di Luigi Scardigli
FIRENZE. L’epilogo, tutt’altro che scontato, impreziosito da una scenografia cinematografica decisamente accattivante firmata da Giuseppe Ragazzini, risolleva miracolosamente l’asticella dei gradimenti della Bastarda di Instanbul, la rappresentazione teatrale in scena fino al prossimo 28 febbraio alla sala di Rifredi, a Firenze. L’opera, fedelmente tratta dall’omonimo romanzo di Elif Shafak e tradotta da Angelo Savelli, ruota attorno alla novelliera turca più famosa, Serra Yilmaz, alla bravura isterica di Valentina Chico e al camaleontismo, parecchio ginnico, di Riccardo Naldini, tre mattatori visti all’opera recentemente al TeatroDante di Campi Bisenzio intitolato a Carlo Monni sempre in un lavoro di Savelli, L’ultimo harem.
Il resto della compagnia, però, sostiene a fatica il contorno del lungo cerimoniale, a tratti decisamente modesto, con alcune scelte di campo e punti di vista eccessivamente dilettantistici. L’aria però è buona; il pubblico gremisce la sala in ogni ordine di posti; l’atmosfera è, insomma, quella giusta. Lo zoom della telecamera che si infrange sul retro della scena ci porta ad Instanbul, dove in un appartamento della capitale turca, crocevia di popolazioni, culture, religioni, suoni e odori, vivono un nugolo di donne, vedova e orfane al seguito. C’è anche un fratello, che la madre però riesce a spingere provvidenzialmente lontano, in Arizona, per studiare, conoscere il mondo, affrancarlo da un contesto poco propenso alla sua felicità e cercare, soprattutto, di provare, inutilmente, a purificarlo da una macchia indelebile. Sullo sfondo, oltre ai conflitti umorali e generazionali, la sorda e cruentissima guerra turco-armena, un fratricida ginepario di sangue, morte e distruzione e un viaggio disperato alla ricerca della cancellazione di un'onta.
Sulla scena convivono tre generazioni: la vecchia madre, le quattro figlie, una nipote, figlia improvvida di un rapporto violento e incestuoso e la figlia armeno-americana che il giovane turco prenderà in dote dalla donna statunitense che sposerà. Come nell’Ultimo harem, anche in questa circostanza il regista, Savelli, decide, inopportunamente, di soprassedere ad una serie di spunti storici, morali e civili che l’opera gli offre su un piatto d’argento, preferendo invece glissare e dare alla rappresentazione il sapore di una scampagnata in libertà. Anche in questa circostanza, insomma, abbiamo avuto la stesa identica impressione ricevuta al termine della rappresentazione precedente: con tre cavalli affatto malvagi e una storia ricchissima di contaminazioni, non solo storiche, ma anche e soprattutto civili, Angelo Savelli evita lo scontro diretto, aggira ostacoli che potrebbero e dovrebbero essere la corteccia della sua produzione e finisce per accontentarsi di una commedia che non disturba e ferisce nessuno. Siamo profondamente convinti che la parte più illustre del suo staff, in confidenze mai rivelate, ritenga il proprio condottiero responsabile di una tranquillissima serata di spettacolo che sarebbe invece dovuta e potuta essere una straordinaria occasione di denuncia.
