di Luigi Scardigli
FIRENZE. Anche i più ostinati - perché invidiosi - detrattori di Filippo Timi dovranno per forza di cose arrendersi. All’evidenza. Con una Casa di bambola, l’intelligenza diversa del giocoliere scenico più esuberante di questo paese, ha forse raggiunto l’apice, non solo teatrale. Ieri sera, alla Pergola di Firenze (si replica fino al prossimo 5 marzo), il funambolo perugino ha dato vita a quel piccolo dramma borghese scritto un secolo e mezzo fa da Ibsen e sul quale, chiunque, nel tempo, ha provato ad impastare la propria rilettura. Un lavoro estenuante, massacrante, martellante, reso difficilissimo dall’assenza, totale, di colpi di scena, sostituiti, per tre ore, dalla potenza di una recitazione complessiva alla quale è doveroso inchinarsi.
Con una Nora così, poi, il certosino lavoro di ricostruzione di un matrimonio sospeso per otto anni e sorretto su un uomismo ancora pericolosamente in voga, non foss’altro come idealizzazione, si è semplificato parecchio e anche la traduzione, l’adattamento scenico e la regia di Andrée Rutrh Shammah hanno goduto di un’esuberanza biochimica che solo (e poche altre, come Lucia Mascino, ad esempio) Marina Rocco riesce a dare. Certo, dimenticatevi, per quasi tre ore, quel guascone di Filippo Timi che danza su tacchi dodici (Favola) o che sberleffa Mozart (Don Giovanni) e accomodatevi sulla poltrona per seguirne un altro, mai ingombrante come tutti i personaggi che lo identificano. Stavolta però, anche il teatro di un tempo, quello restìo a concedere spazi e territori a nuove incursioni, si deve genuflettere, per seguire da vicino il supersonico e trino camaleontismo del protagonista, quasi contemporaneamente l’avvocato Torvald Helmer, il dottor Rank e il procuratore Krogstad, tre personaggi lontanissimi tra loro che si ritrovano a convivere all’interno di uno stesso corpo nello spazio di un impercettibile battito di ciglia.

Il quadro si completa con la signora Linde (Mariella Valentini), che sfrutta memoria e semplicità per riprendersi un posto dignitoso in società e la vecchia bambinaia, Anne Marie (Andrea Soffiantini), l’eterea e inascoltata saggezza che cadenza con scoordinata lentezza il vortice emotivo del segreto che guida la rappresentazione. Ci sono anche la giovanissima Angelica Gavinelli (la figlia degli Helmer), una giovane cameriera (Paola Senatore) infatuata del coetaneo fattorino (Marco De Bella) e Elena Orsini, il destino che appare, saltuariamente, ma con preoccupante puntualità e ingombranza, sulla scena. Un quadretto familiare, volutamente borghese, come la sua originaria ambientazione, nel 1879, ad Amalfi, dove Henrik Ibsen si trovava per una vacanza curativa, uno spaccato di vita così consueto e soffocato dalla storica arrendevolezza femminile e infiammato dall’originalità e unicità del tratto rivoluzionario, prima che femminista, di Laura Kieler che l’Unesco, da tre lustri, lo ha voluto iscrivere nell’elenco delle memorie del Mondo. Saltiamo a piè pari – ma solo perché è arci nota - la potenza del dramma, la sua devastante provocazione, l’indispensabile arrivo storico, in un momento dove l’uomo sembrava, oltre che aver preso il sopravvento di genere, anche essersi arrogato il diritto di unicità rappresentativa e ci dedichiamo, con piacere e dovere, a Lei, a Marina Rocco, un portento, una potenza della natura, uno scricciolo di straordinario eclettismo, un’attrice capace di indossare qualsiasi abito, ai quali riesce a commisurare la smorfia, la deambulazione, il linguaggio, la capigliatura, un’incredibile capacità metamorfica che al fianco di Filippo Timi raggiunge livelli stratosferici dei quali il teatro italiano non può che inorgoglirsene.
