di Luigi Scardigli
FIRENZE. Ogni Amleto ha lo Shakespeare che merita. Quello che di cognome fa Barilotto, travestivo per la circostanza, il suo padre putativo sembra essere più Beppe Lanzetta, durante un’escursione nella sua vita postdatata. Ma siamo a teatro, a Firenze, di là d’Arno, al Cantiere Florìda, per l’esattezza e l’organizzazione di Materia Prima (interessante rassegna che contemplerà altri cinque appuntamenti nel mese di marzo) ha scelto di affidare alla compagnia teatrale napoletana Punta Corsara oneri e onori del battesimo, con il loro Hamlet travestie, per la produzione 369 gradi.
Sul palco, oltre ad udire un motivo underground che si innesca e interrompe al battito di un piede, ci sono solo quattro panche di legno, illuminate da altrettanti occhi di bue e che diventano, all’occorrenza, giaciglio, ponte sospeso sul suicidio, mercatino rionale dei bassi e ultima dimora. Attorno, si muovono, con tutta la gestualità che va ben oltre ogni più coreografica immaginazione, quelli della Compagnia: da Emanuele Valenti, regista e ideatore scenico, impresario di rappresentazioni impossibili, con tutta la famiglia Barilotto, al gran completo, con Giuseppina Cervizzi, Christian Giroso, Vincenzo Nemolato, Valeria Pollice e Gianni Vastarella. L’unico che manca è il padre, misteriosamente morto e che nessuno riesce a giustificare, ancor prima che vendicare. Amleto è il figlio degenere, ma solo perché è uscito pazzo. Nemmeno la gravidanza della sua compagna lo distoglie dal desiderio, impellente, di fuggire. La meta danese sembra essere l’unica via d’uscita, ma il 47 non ci arriva; ci vuole l’aereo per andare in Danimarca. Bisogna arrivare a Capo di Chino e il 47, si sa, a Capo di Chino non ci è mai andato. Il bar di Casoria non ha sortito gli effetti desiderati: non è stato un problema di pizzo camorrista, ma solo un’imprudente scommessa commerciale. Per aprirlo, la famiglia Barilotto, si è indebitata fino all’osso e il problema, ora, è risarcire lo strozzino.
Siamo a Firenze e non a Scampia, dove la Compagnia è nata a suon di coraggio e applicazione scenica. Ma loro, quelli di Punta Corsara, se ne fottono e si raccontano come se il pubblico fosse quello delle loro origini. Tra gli spettatori, parecchi colleghi del nuovo teatro, come Gli Omini, che vogliono esserci alla rappresentazione dei loro amici, artisti di strada, gente del Funaro. Infatti, non servono i sottotitoli; a qualche incomprensione dialettica, lessicale, sintatticamente circoscritta all’entroterra partenopeo, provvede la mimica, la gestualità, i corpi che danzano e che si intrecciano: macchiette, professori falliti, donne procaci. Le lezioni arrivano da lontano, ma sono state studiate con dovizia di contestualizzazione e si rinnovano con discreta originalità. Sono un tuttuno, la famiglia Barilotto e tutti insieme devono restare: ne va di mezzo l’economia familiare, la sussistenza, l’amore docile e violento di rapporti incancreniti, quella biunivoca corrispondenza che tiene sospeso ogni legame, parentale e affettivo. La madre, sape tutte cose issa, soprattutto da quando è rimasta vedova; il cognato è in agguato, soprattutto ora che la famiglia ha scoperto Shakespeare e anche il resto del parentado, diretto e acquisito, contempla un quadro dettagliatissimo di un condominio che sopravvive a stento sotto il livello del mare agli Spagnoli.
L’unica soluzione è che si firmino i fogli che certificano la follia di Amleto: 800 euro al mese e i Barilotto sopravviverebbero dignitosamente. Ma Amleto è pazzo veramente: in Danimarca non ci può andare, perché ha paura di volare e poi il 47 a Capo di Chino non ci va e allora non gli resta che eliminare il soggetto dei pensieri della famiglia. Lo aspetta Poggioreale, un posto che i napoletani dei bassi, prima o poi, sono costretti a visitare.
