di Luigi Scardigli

PISTOIA. Roberto Valerio, sin da bambino, si è sempre dilettato, otre che studiare tanto per diventare attore e regista teatrale, anche come sarto e cuoco. Sono due mestieri, questi, che con il palcoscenico hanno molto a che vedere perché spesso, onde evitare copiaincolla estenuanti, bisogna necessariamente operare con forbici, ago, filo e anche un buon soffritto. Certo, ci vuole uno staff all’altezza degli intenti, ma gli amici(colleghi), quelli veri, non si perdono per strada e allora, una telefonata a Valentina Sperlì (Nora Helmer), un sms a Danilo Nigrelli (Torvald Holmer), un contatto facebook con Massimo Grigò (dottor Rank), due righe su whatsapp per Carlotta Viscovo (signora Linde) e, avvertita anche Debora Pino (la balia), l’Associazione teatrale pistoiese centro di produzione non può che assecondare il suo progetto, caldeggiarlo e portarlo in scena. Il risultato è Casa di bambola, di Henrik Ibsen, al teatro Manzoni di Pistoia dal 4 al 6 marzo.

 

Roberto Valerio, per sé, sceglie la figura più equivoca, ambigua, viscida, ma soprattutto sofferente (Krogstad) e memore degli esperimenti adolescenziali in cucina e sartoria, smussa parecchio l’interminabile natale in casa Holmer, lasciando alla commedia tutta la forza della rappresentazione. Nora Holmer, ad onor del vero, non si presenta così sciocchina come Ibsen l’ha disegnata: la sua consapevolezza femminile spicca all’istante, ancor prima di serrare le mandibole al cospetto di un uomo falsamente premuroso, lasciando inesorabilente presagire che prima della fine, gli abiti della dolce e intercambiabile compagna di viaggio, li lascerà certamente. La signora Linde non lascia chiaramente intendere che quell’impiego che chiede al marito della sua vecchia amica rappresenta, in realtà, la sua ultima spiaggia. Anche il dottor Rank, nonostante gli abbiano diagnosticato un male incurabile, non sembrerebbe essere un malato terminale, così come Torvald Holmer, accecato dalla carriera bancaria che gli si sta prospettando, non riesce a dare alla propria consorte il giusto e inconsistente peso coniugale. I figli latitano un po’ troppo dalla scena, così come la servitù, ma tutto viene riscattato quando, sul palco, arriva Krogstad, il mattatore: entra un po’ timidamente dalla porta di casa, ma presto si accorge che saranno le sue minacce e i suoi indispensabili ricatti a scardinare l’aulico impianto di casa Homer, una famiglia altrimenti destinata alla noiosissima pace eterna.

La fedeltà alla scrittura amalfitana di Ibsen, però, è letterale, tassonomica, puntualissima: l’opera geniale di Roberto Valerio, affabile piacione, inguaribile egocentrico, consiste, essenzialmente, nell’esaltare il ruolo che si cuce addosso spostando, di quel poco che basta, il fulcro della rappresentazione e tirando su di sé tutte le luci del palcoscenico, anche quando non è in scena, anche quando c’è, ma rappresenta il destino, e dunque non si vede. Distico, sviluppo ed epilogo però dimagriscono di una buona ora rispetto al canovaccio di centinaia e centinaia di rappresentazioni già fatte, rinforzando il magnetismo di un gruppo affiatatissimo e facendo salire di un paio di gradini la vis, parecchio metropolitana, ma altrettanto professionale, di un sicuro autore, affidabile, preparatissimo registattore contemporaneo.

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