di Luigi Scardigli

FIRENZE. Dopo la parentesi corale delle Sorelle Macaluso (una delle rappresentazioni teatrali più belle alla quale abbiamo avuto l’onore di assistere), Emma Dante torna al monologo. Non si discosta dalla miseria, anzi: ci immerge dentro dita e vita, proponendo addirittura una trilogia, quella degli occhiali. I personaggi che animano i tre spettacoli, raccolti in un volume edito dalla Rizzoli e distribuito nella hall del teatro di Rifredi, a Firenze, sono infatti accomunati dalle lenti: senza, la vista, risulterebbe parziale, sfocata, inattendibile. Con gli occhiali, comunque, le cose cambiano poco, perché tanto in Acquasanta (in scena da giovedì 10 fino a domani, domenica 13 marzo, a Rifredi), come nel castello della Zisa e Ballarini, i protagonisti convivono con la miseria, con la vecchiaia e con la malattia, tre condizioni sociali e umane che trasformano i protagonisti, ampliamente rappresentati in tutto il mondo, in negletti, rifiuti, ultimi.

 

Carmine Maringola, oltre ad incarnare alla perfezione ‘o spicchiato – così, falsamente e amorevolmente, ma con profondo distacco e disistima, ribattezzato dalla ciurma – è un mozzo abbandonato a terra, in un porto qualsiasi. Lui, che di terraferma non ne vuol sapere, perché la ignora, perché non esiste, lì viene abbandonato e lì aspetta che qualcuno della nave torni a riprenderlo. Succede all’indomani dell’ennesima caduta in mare, causa una burrasca che il resto della ciurma riesce a controllare perfettamente. Tranne che ‘o spicchiato, che appena risalito a bordo è lì, sulla prua, a farsi schiaffeggiare e accarezzare dalla sua amata, il mare, riuscendo a resistere alle sue lusinghe solo perché saldamente fissato alla nave da tre ancore pesantissime che lo tengono a bordo, ma che non gli inibiscono di essere, essenzialmente, un burattino costretto a dimenarsi tra i tre personaggi che la regista, nonché moglie, gli hanno cucito addosso. I due cappelli appoggiati ad altrettante balaustre poste ai lati della prua di una tonnaraccia di scarso credito gli consentono di indossare, oltre che quelli del mozzo, anche gli abiti di uno della ciurma e del capitano, in un vortice orizzontale di movimenti estenuanti, con la saliva bianchissima che gli inumidisce le labbra e che nessun fazzoletto, nemmeno quello che custodisce nella saccoccia, riesce a togliere. Il mozzo è napoletano; all’età di quindici anni ha lasciato la casa e la famiglia e si è imbracato, verso un futuro di cartoline stampate, nella memoria, da tutti i porti dove ha attraccato: ricorda pesci straordinari degli atolli, iceberg in via di scioglimento, la statua di Corcovado tuffarsi nella baia di Rio. Anche la scena è povera come il suo protagonista: una serie di contaminuti, caricati gorgheggiando acqua minerale tracannata mentre gli spettatori si accomodano in sala, inizieranno a tintinnare poco prima dell'epilogo della rappresentazione, su cui incombe, in sottofondo, il ticchettio di alcune gocce cadute da chissafddove in vasetti di metallo, cari a quegli appartamenti dove nei tetti, un buco, c'è sicuramemnte. Del resto, lui, 'o spicchiato, non ha alcun rapporto con gli esseri umani che popolano la terraferma. La sua vita è il mare, in mare e lì ha deciso di vivere. Ma questo sperticato amore, impossibile dall’essere ricambiato, si trasforma nella sua incantevole condanna e sulla banchina di un porto senza nome finirà per essere dimenticato, prima che ucciso, parafrasando, immaginiamo, Pino Daniele e i versi di una delle sue liriche più struggenti: chi tene 'o mare o saje, non tiene niente.

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