di Luigi Scardigli

FIRENZE. Qualcosa, deve esserci sfuggito. Per forza. Tipo la non-scuola, di cui, Alessandro Argnani, protagonista solitario di Slot Machine, la rappresentazione ideata da Marco Martinelli e Ermanna Montanari – ieri sera in scena al teatro cantiere Florìda, a Firenze – ne è uno dei più illustri rappresentanti. Ma pur condividendo fino al midollo la denuncia della quale è intrisa lo spettacolo, siamo rimasti un po’ interdetti da questo tipo di non-recitazione, fiore all’occhiello, con molta probabilità, del Teatro delle Albe. Almeno così ci auguriamo che sia stata: una non-recitazione. Perché anche i comizi, a teatro, hanno bisogno dei loro imbonitori, come Ascanio Celestini, tanto per citarne uno, tanto per citare il migliore.

 

Le risate forzose dell’esordio completamente buio e tetro, illuminato, dopo vari sghignazzi, dalla luce di un piccolo faretto a mano, introducono, in realtà, una scenografia ambientatissima: una panca centrale, a mo’ di baule, che sa tanto di cassa da morto, dove il tossico delle scommesse vive i suoi angoscianti deliri e uno specchio in fondo che riflette, diametralmente, il cuore della scena. Il malcapitato biscazziere del terzo millennio, quello che si inabissa nella ludopatia delle slot machine, figlie legittime delle corse dei cavalli e di tutto ciò che produca l’adrenalina della scommessa e del rischio, ha già segnato il proprio epilogo, ha già scritto la sua fine: perseguitato dagli strozzini che arriveranno, come ultima letale spes, dopo i raggiri, le bugìe, l'ipoteca e svendita dei mezzi di lavoro di un modesto contadino figlio, da generazioni, di altri contadini che hanno conosciuto solo e soltanto la fatica e la dignità, le sottoscrizioni con finanziarie a tassi usurai e l’inesorabile, tetra, mortificante e spettrale caduta negli abissi. Ma non siamo in prossimità di rinnovi di cariche elettorali: siamo in un luogo sacro, che non può fare in alcun modo a meno di essere corrosivo, satirico, onirico, esilarante, drammatico; siamo in un teatro, con un palco, un sipario e una platea, più o meno popolata, più o meno addetta e adatta ai lavori. E non possono bastare talune strizzatine d’occhio ad epocali crocifissioni pittoriche; un richiamo, spudorato, ai gorgheggi vocalesi di Andrea Ceccon ai tempi dei Mau Mau prima e delle Voci atroci dopo e una scarruffata assonanza con la follia di Magliano. Resta, per fortuna, onore teatrale e elemento civico, immutata e applaudita, la corrosiva denuncia del subdolo marchingegno di uno stato totalitario come il nostro che affida al nichilismo di una popolazione analfabeta, di ritorno, ma anche d’andata, le proprie sorti economiche, messe in sesto dalla sfrenata, incomprensibile e stupefacente dedizione al gioco dei suoi sudditi, letteralmente lobotomizzati dalle divinità del botto della vita.

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