di Luigi Scardigli

CASALGUIDI (PT). E’ imbarazzante condividere spazio e tempo con oltre cento persone che, contemporaneamente alla nostra assoluta indifferenza, interrotta, saltuariamente, da un sorriso, si divertono da pazzi, omaggiando chi, Paolo Migone, regala loro quelle risate così fragorose che paiono essere state tenute in serbo da chissà quanto tempo prima di liberarsi ed esplodere in tutto il loro fragore. E badate bene: Paolo Migone è chimicamente simpatico. Forse perché è nato in Brasile e a Livorno, dove è cresciuto, ha trovato il giusto mix tra la saudade infantile che l’ha battezzato e la joie de vivre dei napoletani della Toscana che l’ha adottato.

 

Poi ha studiato teatro, imparando quel poco che gli sarebbe servito per approdare sul piccolo schermo del terzo millennio, quello che partorisce geni, divi, talenti, ma anche mostri, in un batter di ciglia. Bastano tre minuti, ripetuti un paio di settimane, trovando, per magìa, la chiave che ti apre quella porta meravigliosa e in un attimo, si realizza il sogno. Nel millennio precedente, quando la velocità era ancora assimilabile e metabolizzabile, il percorso era esattamente il contrario: si calcavano per anni i palcoscenici teatrali, si impreziosivano le pellicole di registi cazzuti e poi, dopo aver ricevuto la certezza di essere graditi e riconosciuti, prima che riconoscibili, si andava in tivvù, dove bastava che la valletta di turno, una showgirl con i controcoglioni (Loretta Goggi, la prima che ci viene in mente), non una ventenne qualsiasi brava a tirare fuori le chiappe prima della pubblicità, pronunciasse il suo nome perché, nei salotti della case degli italiani, non ancora del tutto lobotomizzati, si pregustasse lo sketch che di lì a poco si sarebbe consumato. L’abbigliamento è quello felicemente sperimentato a Zelig: camice bianco da medico della mutua e un occhio, il sinistro, nero come la pece, vittima, immaginabile, di un cazzottone ricevuto il giorno prima. Anche il canovaccio è quello già consolidato nelle fugaci, ma ripetute e costanti, apparizione nel tubo catodico: il marito che ha sempre voglia di fare l’amore (e non è assolutamente vero) con la moglie, della quale, però, è succube, soprattutto da quando lei si è potuta emancipare; la frenesia e il logorio della vita moderna; la frustrazione dei figli dei poveri invitati alle feste nella case dei loro compagni di scuola ricchi e, con tanto di bis richiesto ed esaudito, la falsa libertà offerta, come lusinga radioattiva, dai camper, le case mobili che offrono l’idea della libertà assoluta pagata a prezzi inimmaginabili. La scaletta delle gags è sparata, a salve, con slegata cadenza consequenziale, ritmata da una studiata lentezza di tempi e movimenti che oltre a caratterizzarne il repertorio trascinano lo spettacolo oltre gli 80 minuti, senza dimenticare qualche parolaccia proferita in pudica licenza - che ci sta sempre bene -, imbevuta e assorbita in un repertorio decisamente datato e già collaudato, in qualità di apripista, da un mattatore come Walter Chiari, ad esempio, ma ai tempi di Canzonissima, quando Paolo Migone indossava il grembiule blu delle elementari, insomma. Ma nonostante tutto, lui ci sta anche simpatico anche perché strizza l’occhio, quello non pitturato, a sinistra – anche se lo fanno tutti i comici, da quando esiste il mondo – e si è fatto, da tempo, alfiere di una campagna, buona anche per uno spot autopromozionale, ma questa è la nostra malafede, con la quale porta seriamente avanti il discorso ambientalista. Il teatro di Casalguidi, però, per onestà di cronaca, prima che intellettuale, sabato 19 marzo, per la festa del papà, non è riuscito a contenere tutto il pubblico - uscito con le lacrime agli occhi e le mani spellate - che non si è voluto perdere la performance del sudamericano delle baracchine e a conti fatti, faremmo forse meglio a concludere che siamo noi, quelli che non capiscono, quelli che non si sanno divertire.

Pin It