di Luigi Scardigli
FIRENZE. Non è un tratto distintivo, men che mai funzionale alla storia e alla follia di Gianni, ma è sensualissima, Caroline Baglioni. Specie quando diventa voce narrante e per farlo deve per forza di cose liberarsi della scarpa destra, un mocassino 46, da uomo, da uomo che ha camminato molto, avanti e indietro per il corso, a Perugia e della sinistra, un elegante sandalo tacco 9, perfettamente in sintonia con il suo piede e chissà, forse, al di là delle esigenze scenografiche, se sogno nascosto e frustrato, visto che di donne, Gianni, a parte la jugoslava, non è mai riuscito ad averne. Chissà in quale casa abbia abitato Gianni, dove ha provato a vincere la propria follia, restandone schiacciato: di sicuro dove c’erano una televisione, qualche volte accesa e un registratore, dove ha consegnato a posteri sconosciuti, ma attenti ai linguaggi e agli umori, il suo dolore, la sua vendetta implosa, la sua sconfitta.
Le scarpe è tutto ciò che Gianni ha, la sola cosa che non si è persa nel macero e sono queste che si porta dietro, fardello, certo, ma soprattutto memoria. Raccontare il suo nichilismo non è facile; non c’è nulla di originale nella sua inesorabile calata agli inferi: è un disagio facilmente interscambiabile con quello di chiunque altro. Arduo, però, riuscire ad immedesimarsene, perché chiunque si azzardi a farlo, deva prima di tutto dimenticare il proprio ordine, abbandonare casa, lavoro, famiglia, bollette, cene fuori, amici, vacanze, vizi e provare a guardarli con gli occhi di chi non se ne può permettere nemmeno uno alla volta, prima che tutti insieme. Ma non perché non ne abbia le possibilità, ma perché ha deciso di farne a meno, considerandoli, uno ad uno, prima che tutti insieme, aggeggi inutili, fastidiosi suppellettili, ingombranti souvenirs, che ci sono, sempre e puntualmente a portata di mano, ma che nascondono, nella loro disumanità, tutta l’inutilità. Cantiere Florìda, Firenze, ultimo appuntamento della rassegna Materia Prima – visioni sul teatro contemporaneo -. In sala, oltre gli ospiti fissi dell’alcova disallineata di via Pisana, il Presidente dell’Atp pistoiese, Rodolfo Sacchettini, il factotum della Pergola fiorentina, Matteo Brighenti e qualche esponente di circoli intellettuali che insistono lungo una circonferenza non superiore ai 50 chilometri mandato in avanscoperta a fiutare cosa passi il convento a fine stagione, con particolare attenzione alla produzione indipendente della Società dello Spettacolo. Caroline Baglioni è più preparata sulla follia di quanto conosca perfettamente il copione che si è scritto: finge pessimamente di fumare, questo va detto, ma claudica con estrema naturalezza, offre corpo, spazio e smorfie all'imponderabilità dei corpi martoriati dallo xanax e il suo slang, umbro/metropilitano, l’avvicina alla stirpe dei Guzzanti. Appena accenna inevitabilmente a dimenticarsi di Gianni, esplode la sua femminilità: sembra non vedente, una cecità figlia di uno strabismo sottovalutato, come le micro psicosi adolescenziali alle quali nessuno, in una famiglia inesistente, stile Charlie Brown, ha mai dato il giusto peso. Quando si decide di ricorrere ai ripari, è ormai tardi: il liquido spermatico è quasi del tutto esaurito da masturbazioni quotidiane, per non parlare della possibilità di reinserimento. I treni della società sono già passati tutti, come i vagoni delle lattine della coca cola, quelli degli hamburgers, dell’occupazione a tempo indeterminato negli uffici dove ci si spersonalizza, ma che offrono la possibilità di restare in piedi per farsi schiaffeggiare dai desideri e dal consumo, dalla fica e dalla droga, dalle notizie del telegiornale e dello spazio. Caroline barcolla, sembra essere sul punto di caracollare rovinosamente a terra: stop alla registrazione, allora; rewind, forse riavvolgendo il nastro e l’esistenza si fa ancora in tempo a capire come fare, come poter fare e salvarci. Invece è tardi, per fortuna.
