di Luigi Scardigli
PISTOIA. Il testo, ridotto da Luca Ragagnin, anche se letto da un portuale, trasuda inquietudine. Se poi ad interpretare Lo straniero (un’intervista impossibile; ideato e diretto da Roberta Lena e abbigliato da Roberta Vacchetta) di Albert Camus ci si mette Fabrizio Gifuni, il risultato è stordente. Teatro Manzoni ammutolito, pietrificato. In scena (si replica domani sera, sabato 2 aprile e domenica pomeriggio), in un completo bianco di lino, uno dei più sofisticati interpreti ronconiani in circolazione, Fabrizio Gifuni, premi a ripetizione, indistintamente raccolti al cinema e sui palcoscenici. Poco più dietro c’è G.U.P. Alcaro, ad una consolle pseudo strumentale, buona a mandare in circuito alcuni brani e a gestire effetti sonori suggestivi.
Si sposta, complessivamente per l’intera durata della rappresentazione, pochi centimetri, tanto ad est, quanto ad ovest, il protagonista. Ma è come se corresse disperatamente da un lato all’altro del palco: gli basta spostarsi leggermente la chioma impomatata dal viso; respirare, deglutire, roteare delicatamente la testa come per voler aggirare l’insorgere inesorabile della cervicale e la scena è occupata in ogni suo atomo di vita. Racconta la storia, nota, per fortuna, di Meursault e la sua totale apatia alle cose che gli succedono: il lavoro, la morte della madre in un ospizio, la veglia, il funerale, l’amore, il sesso, l’amicizia, il dolore, un assassinio, l’arresto e la relativa condanna alla decapitazione. Nulla gli appartiene, in un totale distacco. Fabrizio Gifuni è dentro ogni sillaba pronunciata: è il protagonista e i suoi amici, è Maria e il suo datore di lavoro, è la spiaggia, il mare e il cielo di Algeri, è la camera dell’albergo, il titolare, il guardiano e il parroco dell’ospizio, è il pullmann che lo trasporta, sono gli arabi che minacciano il suo dirimpettaio, il cane tignoso dell’altro condomino, è la pistola che si ritrova per caso in tasca, sono i quattro colpi esplosi a distanza, è la totale assenza di vita e di sentimenti, la mancanza di passioni, rimorsi, di aneliti che possano avere a che fare con la vita, con i suoi ritmi, con le sue giustificazioni. Questo è Albert Camus che scrive: e questo è Fabrizio Gifuni che traduce, metabolizza, rilegge, interpreta e partorisce, in un travaglio portentoso, scandito dalla flebile e anemica voglia di continuare di monsieur Meursault e la dirompente carica delle persone che gli ruotano attorno, che assumono le loro specifiche caratteristiche istantaneamente, con una semplice modifica del diaframma, varianti accidentali che non fanno che acuire la sua estraneità a loro e alle cose che a questi li ha condotti. Un’opera generazionale affidata ad un talento semplicemente mostruoso.
