di Luigi Scardigli

FIRENZE. Chi arriva tardi, a teatro, stavolta resta fuori, per fortuna. Ma non è solo questo l’aspetto più appetibile di Gioco di specchi, una rilettura surreale del Don Chisciotte di Cervantes, prodotta da Uthopia/tra Cielo e Terra, in collaborazione con Pupi e Fresedde e il teatro di Rifredi, scritta da Stefano Massini, per la regìa di Ciro Masella e affidata a Marco Brinzi e al regista in programmazione, fino a sabato sera, al teatro di Rifredi, a Firenze. Un mimo e un diaframma deniriano si ritrovano, forse, all’ombra di un melograno, dove entrambi han sognato di trascorrere l’ultima notte: all’alba, uno dei due, morirà. Ma chi: Don Chisciotte, il cavaliere, quello irreggimentato in un’osteria, anziché in un castello, tra beoni e puttane, invece che arcieri e dame, o il suo scudiero, il servo del suo errabondare alla ricerca della pietra filosofale, o delle rispettive identità, il prode Sancho Panza?

 

La notte è ancora lunga e i rimedi per sfuggire alle reciproche nefaste profezie sono molteplici: tutte, però, si infrangono, sonoramente, al cospetto dell’evidenza. Un po’ brechtiano, ma anche decurtisiano, questo don Chisciotte si guarda così attentamente allo specchio da non riuscire più a capire e soprattutto sapere se quello riflesso è lui, o soltanto quello che non vorrebbe essere. Su questa crisi identitaria, irrisolta e irrisolvibile, se non distratta da doping umano delle eccedenze, si articola tutta la rappresentazione, un ring sul quale i due mattatori si sfidano a colpi di retorica scalza, incalzando le paure e le certezze dell’altro, un rincorrere e rincorrersi incessante che finirà per confondere così amleticamente le carte in tavola che ad un certo momento, entrambi, usciti dal gioco delle parti, stenteranno a riconoscersi nei propri ruoli. E a nulla servirà l’armatura del condottiero per il cavaliere e la giacca per il suo servo; finiranno per non voler sapere se in quel tratto di esistenza, dove han deciso di fermarsi, ci sia, nei pressi, quel funereo melograno che darà, inderogabilmente, la morte ad uno dei due. La torcia resterà spenta e nemmeno la scacchiera, armata di re, regine, torri e alfieri e pedine, pronta per uccidere il tempo delle tenebre, resterà inoperosa. Avanzerà invece il nulla e l’angoscia, l’inconsistenza e il nichilismo, l’irrisolto e l’indefinito; Sancho Panza saprà proletariamente vivere il proprio epilogo senza affanni, al contrario del borghese don Chisciotte, dilaniato dalla paura che il tempo e i posteri non gli riconoscano meriti e glorie, probabilmente vani, fatui, fittizi, come le esistenze di ognuno di noi, consumate in una vita intera a rincorrere chimere. Un bel corpo a corpo, leale, semiserio, perfettamente oliato e bilanciato dai vocalismi pietrificati del lucchese Brinzi e dalle macchiette fluorescenti del pugliese Masella, un contrappeso scenicamente e scenograficamente esemplare, impreziosito da un palco disposto al contrario, dove il contatto con il pubblico è diretto, la finzione smascherata, la morte a due passi. E i posti numerati.

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