di Alla Munchenbach

FIRENZE. Perfetto, sospeso, come un soffio di vita, essenziale, un concentrato di zen teatrale. Peter Brook va oltre il concetto di teatro come rappresentazione. Con lui il teatro è uno spazio partecipato in cui la narrazione prende vita come un soffio appunto, come una creazione divina, una liturgia del gesto e della parola. Nulla è fuori posto, nessun eccesso prende il sopravvento, tutto è dosato e calibrato come in un rituale sacro. La scena di Battlefield è rosso pompeiano e appare allestita con pochissimi oggetti. Un accampamento dopo una battaglia, con un accenno a una palizzata sul fondo; lo spazio è complessivamente spoglio, quasi nudo. Quel necessario spazio vuoto a cui gli attori con le parole, con i gesti precisi e affilati e con la maestria con cui dispongono del proprio corpo, danno spessore rendendolo vivo e vibrante. Quattro interpreti, tre di origine africana e un irlandese: Carole Karemera, Jared McNeill, Ery Nzaramba, Sean O’Callaghan, incarnano ruoli diversi tra guizzi comici e intensa concentrazione drammatica, mentre le azioni e le parole sono distillate in un minimalismo straordinario.

 

Strutturato su più livelli di narrazione, ogni attore narra una storia che ha dentro un’altra storia in un inanellarsi di racconti e favole che ruotano attorno al mistero della morte e interrogano il nostro tempo sui conflitti che straziano il mondo e sull’uso che facciamo dell’esistenza umana. Il percussionista giapponese Toshi Tsuchitori crea dal vivo l’unico tappeto sonoro i cui ritmi, ora appena sfiorati, ora impetuosi e incalzanti, accompagnano e scandiscono la pièce. A distanza di trent’anni dal suo Mahabharata, l’opera memorabile e monumentale (circa 9 ore) che nel 1985 sconvolse il Festival di Avignone, Peter Brook ci propone questo adattamento. Un estratto di quell’opera incentrato sulla parte immediatamente dopo la grande guerra fratricida che dilania la famiglia Bharata. “Con un simile dolore perfino la morte ci sembra migliore della vita” dice Yudishtira, il re dei Pandava. Brook racconta che nel "Mahabharata l'umanità è divisa in 4 epoche, le 4 yuga: la prima è la rapida evoluzione dell'umanità fino al suo punto più alto; le altre tre sono la discesa verso la distruzione totale. Noi siamo tragicamente alla quarta era”. Le vicende del mondo che vediamo tutti i giorni accadere intorno a noi ce lo confermano tragicamente. Il drammaturgo tuttavia aggiunge che in testi come questo, così come nell’opera di Shakespeare, sono racchiuse le risposte per restare solidi e combattere la marea di indifferenza che rischia di seppellire l’umana trivialità. “Nero, cenere e rosso sangue: presagi di distruzione del mondo che già è accaduta e succederà ancora e ancora e ancora”. Tuttavia “la distruzione” ha mille volti, è subdola, non si presenta mai chiaramente, veste sempre di male il bene e di bene il male. Agli uomini l’ardua sentenza. Come fare ad essere giusti? Come distinguere tra destino e libero arbitrio? L’ultima storia narra di Markandeya (l’uomo) che dopo giorni di cammino nel deserto, incontra un bambino (la saggezza), sotto un grande albero, che gli dice “Vedo che hai bisogno di riposarti. Vieni dentro di me”. Il bambino apre la bocca e Markandeya viene trascinato nel suo ventre dove vede il mondo intero; stelle, pianeti, galassie, uomini, terre, deserti, fiumi senza mai trovare confini. “Spero che tu ti sia riposato bene” dice il bambino a un certo punto e poi rivolto alla sala, ripete: “Spero che vi siate riposati bene”. Il pubblico frastornato dalla magia del racconto non realizza ancora. Comincia un lunghissimo assolo di tamburo che si eleva e poi si appiana, fino a sfumare nel silenzio pieno di veemenza. Gli attori e i musicisti guardano il pubblico. Una sensazione di avere fatto un breve, ma potente, viaggio interiore pervade gli spettatori. Battlefield non è uno spettacolo, è un gesto di umanità che invita a superare il ghiaccio dell’indifferenza e la paura del senso di colpa per giungere alla responsabilità e alla compassione. Coinvolge il pubblico proprio per quello spazio che lascia a ognuno per liberare la mente, per accogliere. Un racconto volutamente non didascalico che si lascia vivere per diventare esperienza di ognuno, in piena libertà. Tantissimi giovani studenti del Dams, attori, registi artisti, ieri, 24 maggio, a vedere lo spettacolo alla Pergola di Firenze in programma anche stasera e poi ancora in tournée, prima allo Storchi di Modena, per poi ritornare in Francia a Montpellier e a Madrid, in Spagna.

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